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(…) Leggendo La Repubblica del 17 agosto 2011, a firma di Jaime D’Alessandro, mi imbatto in un articolo che mi colpisce subito dal titolo “Turbine, trattori e pannelli solari, il kit per una civiltà in miniatura”. Scopro così che esiste l’Open Source Ecology, figlia di quella filosofia di condivisione e miglioramento della conoscenza che è l’Open Source nata dapprima in ambito informatico e poi editoriale (e ora declinata in varie realtà).
L’open Source Ecology è una rete di agricoltori, ingegneri e sostenitori che ha come scopo la creazione di una comunità autosufficiente ed eco-sostenibile. Dal fabbisogno alimentare alla costruzione di trattori e stampanti 3D, tutto è progettato per essere fatto da sé.
Il fondatore è un giovane fisico statunitense, Marcin Jakubowski, classe 1973 (bell’annata il 1973), laureatosi a Princeton con dottorato in fisica all’Università del Wisconsin. Nel 2003 Jakubowski ha deciso che l’agricoltura era la sua vera vocazione, il motivo di questo cambio di rotta risiede in un singolo avvenimento che lui descrive così: «Mi trasferii in Missouri comprando una fattoria e acquistai un trattore ma si ruppe. Allora lo riparai e si ruppe di nuovo, finché alla fine non avevo più soldi per andare avanti. Poter accedere a strumenti low cost fatti con materiali riciclabili e pensati per durare una vita e non una manciata di anni è vitale. Ed è esattamente quello che ho fatto: progettare quel che davvero mi serviva, condividendolo online».
Da qui l’obiettivo di dare vita a comunità autosufficienti, eco-sostenibili e a basso costo; senza per questo rinunciare alle comodità della nostra società contemporanea (come dice quella famosa pubblicità? Il lusso è un diritto di tutti). Una possibile via da intraprendere per una decrescita consapevole.
Il primo passo è portare a termine entro il 2012 il Global Village Construction Set, un enorme laboratorio a cielo aperto in cui vengono assemblati 50 macchinari ritenuti necessari per regalare, partendo da zero, una vita senza rinunce a circa 200 persone. Strumenti essenziali come il trattore o il gruppo elettrogeno, il forno e l’automobile, passando per la turbina, i pannelli solari, la macina, il laser di precisione, la pressa per produrre circuiti stampati, la betoniera, l’altoforno. Tutto assemblabile a prezzi stracciati rispetto a quel che offre il mercato, e in più con alcuni requisiti innovativicome fa notare Eugenio Minucci di Alternativa Sostenibile:
- si utilizzano materiali a basso costo (una macchina industriale di questo tipo costa otto volte meno di una sua equivalente sul mercato);
- si persegue una logica modulare nella progettazione (un motore, ad esempio, è predisposto per essere assemblato su diverse macchine)
Di ogni macchinario vengono prodotti almeno tre prototipi testati meticolosamente per poi arrivare alla versione definitiva. Che, su richiesta, può esser acquistata da altri agricoltori.
Nel frattempo il verbo del vivere e produrre in maniera diversa viene diffuso via Web. Lo stile di assemblaggio del Global Village Construction Set è pensato per un facile utilizzo, anche lì dove le risorse e le competenze sono scarse. L’uso dei modelli è infatti semplice da imparare, e la possibilità di consultare online i progetti lo rende ancora più approcciabile. Così il reperimento delle risorse (umane e materiali) sul territorio ha un duplice beneficio: economico e di sostenibilità, dando modo alle persone che lo vivono di potenziare le abilità che le rendono autosufficienti proprio sulla base di quella reciprocità che è alla base della socialità primaria, della famiglia, del vicinato e delle reti relazionali.
Il progetto di Jakubowski, si rifà in qualche modo al Nai Talim – l’educazione pratica all’autonomia – di Gandhi, il cui scopo era di soddisfare i propri bisogni grazie alle conoscenze dei saperi e del saper fare necessari a padroneggiare le tecniche di fabbricazione degli oggetti di uso quotidiano, in modo tale che tutti possano avere un livello di vita soddisfacente.
Di riflessione in riflessione mi è venuto in mente questo passaggio preso dal libro di Serge Latouche “Come si esce dalla società dei consumi”:
“[…] Proseguendo su questa strada, Ingmar Granstedt propone la creazione di laboratori vernacolari con attrezzature sofisticate miniaturizzate. Per il tessile, per esempio ‘si potrebbero raggruppare le operazioni di filatura, di stiramento e di tessitura in un’unica piccola macchina delle dimensioni di un armadio, che potrebbe essere collocata in laboratori vernacolari ed essere messa a disposizione degli abitanti del quartiere. […] Lo stesso vale per le macchine per il riciclaggio della carta, di cui esistono già esemplari abbastanza piccoli e semplici da poter essere trasportati su richiesta e affittati a settimana. A una macchina di questo tipo, collocata nel quartiere o nel comune, potrebbero essere aggiunte taglierine, aggraffatrici e incollatrici, in modo che la gente possa fare da sola blocchi e quaderni. Si potrebbe poi aggiungere una fotocopiatrice e altro materiale semplice da riproduzione’. Sulla linea dell’idea dei “villaggi urbani” di Yona Friedman, la società autonoma sarebbe costituita da una molteplicità di comunità geografiche, ciascuna con un proprio centro e un insieme completo di attività diversificate, nelle quali l’esistenza e le relazioni quotidiane ridiventerebbero umane. Il risultato di questa deindustrializzazione, realizzata grazie a strumenti sofisticati ma conviviali, sarebbe la prova che si può produrre diversamente e che la parte della produzione realizzabile in autonomia, pur non essendo totale, è comunque enorme”, pur non essendo totale, è comunque enorme”.
Il passo successivo? I FAB Lab creati da Neil Gershenfeld, laboratori di fabbricazione personale. Luoghi in cui invece di comprare o ordinare un prodotto è possibile scaricare o sviluppare la sua descrizione , fornendo all’utente il progetto e le materie prime per farselo da sè. Si parte dalla tecnologia per tornare al lavoro artigiano, non a caso il libro di Gershenfeld inizia così “C’era un tempo in cui educazione, industria e arte erano integrate nel lavoro dell’artigiano del villaggio…”
Insomma, questo è il nostro futuro: la fabbricazione in proprio di qualsiasi oggetto d’uso comune come terreno per restaurare i rapporti familiari e sociali, riappropriarsi del tempo libero, liberarsi dal consumismo.