In Sardegna arriva il reddito di comunità, e sarà in Sardex

Fonte: Vita.it

La Regione ha deciso di entrare nel circuito della moneta complementare. Verrà creato un Fondo di garanzia di 20 milioni per l’acqusito di beni e servizi. Il bacino d’utenza stimato è di 10mila clienti

La Regione Sardegna entra nel circuito di credito commerciale Sardex per dare nuova linfa, con azioni innovative, al sistema produttivo e occupazionale dell’isola in un momento di particolare stretta creditizia e di crisi di liquidità. La collaborazione tra l’amministrazione regionale e il circuito è sancita da un accordo siglato per il tramite dell’Agenzia governativa Sardegna promozione, con cui si da il via libera alla sperimentazione dell’utilizzo della moneta complementare: una forma evoluta di baratto multilaterale e multitemporale che consente di immettere nel circuito beni e servizi per il rafforzamento delle economie locali.

«La proposta della Giunta», ha spiegato il presidente Ugo Cappellacci, illustrando alla stampa l’iniziativa assieme al direttore centrale dell’Agenzia, Mariano Mariani, e ai referenti di Sardex, Roberto Spano e Gabriele Littera, «è di adottare il Sardex per istituire un “reddito di comunità” da versare ai disoccupati sardi, un’ulteriore opportunità che vogliamo offrire a quei giovani che, per le difficoltà di accesso, non hanno ancora avuto la possibilità di affacciarsi al mondo del lavoro. Il funzionamento prevede una dotazione annuale di bilancio regionale pari a 20 milioni di euro, un vero e prorio Fondo di garanzia, da inserire nella manovra finanziaria per ciascuno degli anni dal 2013 al 2015. Stimiamo, infatti, il coinvolgimento di 10mila giovani inoccupati, tra i 25 e i 35 anni, e l’erogazione di altrettanti redditi di comunità in moneta complementare ovvero 500 sardex mensili equivalenti a 500 euro al mese per beneficiario». La Regione, in questi mesi, lavorerà per mettere a punto il regolamento, definendo i criteri di selezione per l’attribuzione del sussidio. I beneficiari, dal canto loro, dovranno mettere a disposizione ore di servizi per la comunità nell’ambito di progetti di pubblica utilità orientati a creare attitudini positive verso l’imprenditorialità e l’auto-impiego.

«Per controbilanciare l’aumentata quantità di crediti sardex immessi nel circuito dai nuovi 10mila beneficiari», ha spiegato Mariani, «la Regione creerà un Fondo di garanzia, pari a 20 milioni l’anno, da utilizzare per l’acquisto, in euro e con normali procedure di gara pubblica, di beni e servizi da rivendere in sardex all’interno del circuito». Dal gennaio 2010, anno di operatività del circuito, sono oltre un migliaio le aziende associate, di ogni dimensione e settore, che generano attualmente un volume di scmbi pari a un milione di euro mensili, senza l’utilizzo di moneta corrente. «All’interno del circuito sardex», hanno spiegato i rappresentanti del cda, «sono le stesse imprese a finanziarsi reciprocamente a tasso zero, consentendoli di risparmiare preziosa liquidità e di migliorare i propri flussi di cassa».

Una civiltà modello open source

di Alessia Maccaferri (Sole24ore) 24 marzo 2013

Cosa te ne fai di un PhD in Energia da fusione se non sai fare nulla di concreto? Così è partita la piccola rivoluzione di Marcin Jakubowski. Come ha raccontato a Ted Talks, il ragazzo americano di origine polacca ha acquistato un trattore in Missouri e si è messo a coltivare la terra. Ma presto si è accorto che i mezzi appropriati per fare una fattoria sostenibile, come aveva in mente lui, non esistevano. Il suo trattore, per esempio, lo lasciava spesso a piedi e lui non riusciva a ripararlo da solo. Così si è messo a costruire macchine molto robuste, modulari, efficienti, low-cost, fatte di materiali provenienti dalla zona. Le ha testate e ha pubblicato online i modelli 3D, gli schemi, i video con le istruzioni tecniche e i preventivi. In poco tempo migliaia di persone, da ogni parte del mondo, hanno voluto conoscere la sua Open Source Ecology, dove si intrecciano il fenomeno del Do-it-yourself, la sostenibilità ambientale e la redistribuzione dei mezzi di produzione.

Nel 2010 lui – che si definisce agricoltore e tecnologo – ha lanciato Global Village Construction Set, finito tra le migliori invenzioni del 2012, secondo «Time». Si tratta di un kit di costruzione, fatto di 50 macchine industriali che consentano la creazione di una civilizzazione su piccola scala. Dal trattore alla mietitrice, dal forno all’auto, tutti i progetti nascono in open source, con la partecipazione di persone da ogni parte del mondo. Le macchine vengono testate in Missouri e poi chiunque può scaricare le istruzioni per rifarsi la macchina da sé. Il costo è otto-dieci volte inferiore a quelle in commercio.

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Delle 50 macchine previste 25 sono già state realizzate. Un trattore può essere costruito in sei giorni, mentre in un solo giorno si possono piantare un centinaio di alberi o si possono pressare cinquemila mattoni. Ci hanno creduto in tanti al punto che a ottobre 2011 una campagna fondi su Kickstarter ha raccolto 63mila dollari e anche Shuttleworth Foundation ha finanziato il progetto.

Il presupposto teorico, sostiene Jakubowski, è che «l’hardware possa cambiare la vita delle persone in modo tangibile» e «se si abbassano le barriere alla coltivazione, costruzione e produzione si può liberare un grande potenziale umano». Non solo nei Paesi in via di sviluppo, ma al Gvcs guardano con interesse anche agricoltori, costruttori e imprenditori americani.

E anche in Italia c’è un folto gruppo di appassionati, stimolati dall’associazione Isees (Iniziativa per lo sviluppo ecologico, economico e sociale) che promuove il progetto Gvcs. E da un garage a Padova sta per nascere la prima impresa, Bottega 21, che vuole mettere sul mercato la Ceb Press, la Compressed Earth Block Press, una pressa che consente di fare in due giorni diecimila mattoni, sufficienti per costruire una casa di cento metri quadrati ecosostenibile. Non solo per l’origine dei materiali ma perché consente di produrre in loco senza costi per l’ambiente. Ma non tutto va liscio. «Se vogliamo rendere commerciabili queste macchine dobbiamo, in Europa, confrontarci con la marcatura Ce – spiega Jacopo Amistani, laureando in sociologia, che si autodefinisce “smanettone” – e questo rende le cose molto complicate dal punto di vista burocratico».

Insieme ad Alvise Antonio Giacon, laureato in Diplomazia, e a Damiano Dalla Lana, designer, lui vuole ideare altre macchine, per esempio per la lavorazione della canapa, attività che finora si dimostra essere improduttiva. L’obiettivo è creare macchine efficienti e poco costose per mietere e decorticare la canapa sui campi, in modo da ricavarne olii alimentari, cellulosa, legno per la bioedilizia. «Con queste macchine potremmo ridare nelle mani del contadino la possibilità di lavorare questa risorsa così preziosa», spiega Amistani. Non solo. «Vogliamo dimostrare che l’imprenditoria veneta – conclude Amistani, che parlerà a Tedx a Ginevra il 17 aprile – sta rialzando la testa, con orgoglio». Come nel Nord-Est di cinquant’anni fa si riparte dal garage. E, come nel Missouri di oggi, si costruisce un’economia con un senso nuovo.

Fonte: http://www.ilsole24ore.com/art/tecnologie/2013-03-22/civilta-modello-open-source-200855.shtml

Benvenuti nel paese kibbutz “Dal pecorino al ristorante qui tutto si gestisce in comune”

di Jenner Meletti   lunedì 18 marzo 2013
Un modello socio-territoriale che riproduce almeno alcuni aspetti del movimento Transition Town: folklore a parte, ha senso? Magari si. La Repubblica, 18 marzo 2013 (f.b.)
SUCCISO(Reggio Emilia) – C’era l’affettatrice rossa, la mitica Berkel. C’erano le tavole di cioccolato da tagliare con il coltello, le caramelle, l’olio, il vino, la farina bianca e quella gialla. Una volta alla settimana arrivava la frutta. Ma nel 1990 Bruno Pietri chiuse la sua bottega, perché non poteva stare dieci ore dietro il bancone per servire tre o quattro clienti al giorno. Figli e nipoti che venivano a trovare i genitori portavano su le provviste comprate all’Iper di Reggio, che costavano la metà. A fianco c’era il bar di Domenico Bragazzi — anche lui sugli ottant’anni — con il biliardo in mezzo alla sala. Quattro tavolini, con i vecchi che facevano venire sera con un caffè al mattino e un bicchiere di vino al pomeriggio. Chiusero assieme, la bottega e il bar. Non c’era altro, a Succiso, 980 metri sul livello del mare, 60 abitanti d’inverno e 1.000 d’estateE allora i ragazzi (di allora) e gli adulti si trovarono alla Pro loco e decisero di reagire. «Mettiamoci tutti assieme, in una cooperativa. Qui l’iniziativa privata non regge più. Se vogliamo trovare un caffè, il pane fresco e soprattutto un posto dove trovarci assieme, dobbiamo costruircelo da soli».
Dario Torri, presidente della coop Valle dei Cavalieri, nel 1990 aveva 27 anni. «Quelli di città — racconta — hanno tutto sotto casa e non possono capire. Un paese dove al mattino non senti il profumo del pane è un paese che non esiste. Il primo giorno di neve guardi fuori dalla finestra e dici: che bello. Ma se non hai un bar dove andare, per trovare gli amici e fare una partita e due chiacchiere, dopo tre giorni rischi di impazzire». Allora non sapevano, quelli della Pro loco, di avere inventato «la cooperativa di paese», o «cooperativa di comunità», come vengono chiamate adesso queste realtà. «Forse somigliamo — dice Dario Torri — ai kibbutz, perché anche qui l’associazione è volontaria e la proprietà è comune. Certamente, dopo più di vent’anni, possiamo dire di avere fatto una cosa importante: abbiamo salvato il paese».Trentatré soci, sette dipendenti fissi e altri stagionali. «Stipendi sui 1.000 euro al mese, che sono più alti di quelli di città, perché non hai l’affitto da pagare. I soci invece sono tutti volontari. La nostra è stata una scoperta semplice: in un paese spopolato, un’attività singola non può reggere. Ci vuole un legame fra tutte le iniziative. Noi siamo partiti dall’ex scuola elementare, che era stata chiusa perché aveva solo 8 bambini. Qui abbiamo costruito la bottega di alimentari, il grande bar, una sala convegni che in inverno diventa la piazza del paese, un agriturismo con 20 posti letto e un ristorante. Ma abbiamo capito che, oltre alle cose indispensabili bisogna offrire anche le eccellenze. E così ci siamo messi a produrre il pecorino e la ricotta dell’Appennino reggiano. Sessanta
quintali all’anno, venduti in bottega o serviti al ristorante. E abbiamo costruito anche la “scuola di montagna”, per insegnare ai giovani che i monti non sono solo piste e skilift ma anche boschi, alpeggi, rifugi e camminate con le ciaspole alla ricerca di pernici e caprioli». Il fatturato della Valle dei Cavalieri, che fa parte di Legacoop, è di 700.000 euro all’anno.

Nel paese che doveva morire è difficile oggi trovare momenti di pausa. Albaro al mattino porta i bambini a scuola nel capoluogo (Ramiseto, a 20 chilometri), col pulmino della cooperativa. Otto bimbi in tutto, dalla materna alle medie. Poi passa in farmacia a prendere le medicine ordinate dal medico e fa la spesa per la bottega. Al pomeriggio prepara il pecorino, al sabato sera fa il pizzaiolo al ristorante. Giovanni cura i pascoli e le 243 pecore di razza sarda. Emiliano è il cuoco del ristorante, Maria tiene il negozio, Piera fa la cameriera, Fabio e Davide lavorano con la ruspa o l’escavatore o fanno le guide per le escursioni nel parco nazionale dell’Appennino tosco emiliano. «Ma tutto il paese, e non solo i soci — dice il presidente Dario Torri — è pronto a dare una mano. Quando si debbono preparare tortelli e cappelletti per il ristorante o le tante feste di paese che facciamo ogni anno, nonne e zie vengono a lavorare gratis».

È conosciuto anche in Giappone, il paese — cooperativa. L’altro giorno è salito quassù il professor Naonori Tsuda, docente di economia all’università di St. Andrew’s di Osaka, che studia le “cooperative di comunità” in tutto il mondo. «Ci ha raccontato che un’iniziativa come la nostra esiste in Australia. Ci ha detto che, come gli australiani, dovremmo chiedere la gestione di un piccolo ufficio postale, che da noi eviterebbe un viaggio di 20 chilometri per ritirare la pensione». Altre cooperative di paese sono nate nel reggiano (“I briganti di Cerreto”) e in altri borghi italiani a rischio estinzione. Tante sono case chiuse e i camini spenti anche nelle altre frazioni di Ramiseto. «A Fornolo, Poviglio e Storlo i bar e le botteghe hanno chiuso e i paesi sono andati in malora. E questo sta succedendo in migliaia di borghi italiani, soprattutto quelli degli Appennini. A Succiso invece non c’è una casa in vendita e al ristorante prepariamo diecimila pasti all’anno. Non abbiamo niente da insegnare. Solo un consiglio: se il bar abbassa la serranda, se il forno resta spento, reagite subito».