L’esperimento di Worgl

I certificati di lavoro di Worgl

Di questo esperimento abbiamo una testimonianza scritta di Fritz Schwartz. Nel 1932, la ridente cittadina tirolese, Worgl, con 4000 abitanti – questo è quanto racconta Fritz Schwartz – si trovò a subire una pesante deflazione, dovuta alla stretta creditizia varata dalla Banca Nazionale Austriaca; dai 1.100 milioni di scellini, si passo a 900 milioni circa, mettendo così in ginocchio l’economia. Circa 1500 abitanti, cioè oltre il 35% dei suoi 4000, erano disoccupati.

Il sindaco, Michael Unterguggenberger, meccanico ed ex-ferroviere, dopo un accurato lavoro locale di preparazione presso gli imprenditori, commercianti, banca ed abitanti, fa stampare 32.000 scellini sotto forma di “Bestatigter Arbeitswerte”, qualificati, non come denaro, ma come certificati di valore di lavoro.

I “tagli” di questi certificati erano da uno, cinque e dieci scellini, che scadevano dopo un mese; il possessore, però, poteva prorogarli applicandovi, a proprie spese, una marca – acquistabile in Comune – pari all’1% mensile (ossia il 12% annuo) del valore facciale. L’emissione era «coperta» alla pari: una somma uguale di veri scellini era depositata dal Comune nella locale banca di risparmio. In ogni momento, ogni detentore di «banconote del lavoro» (moneta deperibile) avrebbe potuto presentarle all’incasso e riscuotere scellini.

Venne però stabilito che, per questa operazione, la banca avrebbe riscosso un «aggio di servizio» del 2 %. Allo stesso tempo, questi certificati, potevano essere depositati in banca alla pari (riconoscendo ai titolari del deposito un credito pari al valore facciale) ma non fruttavano interessi; la banca, essendo oberata della tassa “di parcheggio”, era quindi  incentivata a prestarli. Poiché il costo di detenzione della moneta deperibile, 1%, era solo la metà del costo del suo cambio in scellini, di fatto nessuno portò mai all’incasso la nuova moneta.

Tutti gli impiegati del Comune, compreso il sindaco, dal luglio 1932 cominciarono a ricevere metà del loro stipendio in moneta deperibile.

Questi certificati cambiano mano mediamente circa 36 volte al mese, sviluppando, nei 14 mesi dell’esperimento un volume di affari 2.5 milioni di scellini, mentre il denaro “buono” retrocede a circa soli 5 passaggi di mano mensili.

Il comune, accettandoli in pagamento delle imposte e servizi, li rispende immediatamente in opere pubbliche, facendo lavorare tutti i disoccupati: vengono costruiti ex novo un ponte sull’Inn, quattro strade, rimodernate le fognature, ampliata la rete idrica.

“A Worgl si lavorava sodo ed a pieno regime, si vive decorosamente, i prezzi sono stabili, il benessere aumenta”, così racconta Fritz Schwartz.

L’esperimento, che funzionava molto bene, desto l’attenzione dei paesi limitrofi, i quali copiarono l’esperienza. Il comune di Kitzuhel, oltre ad aver incominciato ad accettare i buoni di Worgl, ha emesso 3000 scellini di suoi certificati, ed i 300.000 tirolesi circostanti si interessano a questo modello.

Anche qui il tutto finì per l’intervento della Banca Centrale austriaca. Nell’agosto del 1933, arrivano funzionari della Banca Centrale; l’art. 122 della Costituzione Austriaca, riserva alla Banca Nazionale il diritto di signoria, e Worgl ha commesso un’illegalità e viene diffidato a cessarla. Venne emanato un ordine governativo di ritiro dei certificati che scadeva il 15 settembre 1933; il borgomastro ricorre alla corte suprema, riuscendo a guadagnare un altro bimestre, ma il 15 novembre, dello stesso anno, la corte suprema, deposita la sua sentenza, rigettando l’appello ed archiviando l’esperimento.

Di questo “eccezionale” esperimento, se ne parlò ancora nel “circondario”, arrivando finanche in Svizzera, dove il 24 maggio 1933, nella cittadina svizzera di Winterthur, Unterguggenberger ha tenuto un’affollatissima conferenza (si narra di oltre mille persone); questa conferenza doveva essere ripetuta a Ginevra il 3 settembre, ma non potrà farlo perché gli vien ritirato il passaporto per carico pendente.

The Future of Money, un video sul futuro del denaro

“C”è  una classe di gente giovane, intelligente, creativa, appassionata che è stata disillusa dal sistema monetario basato sul debito e che si sta occupando di creare – proprio ora – nuove infrastrutture che permettano ad una moneta peer-to-peer basata sui beni comuni di poter emergere, in parallelo con la moneta esistente. E la fondazione di questa economia è basata sulla fiducia, sulla trasparenza e sulla capacità di autoorganizzazione delle reti distribuite.”  è quanto dice  Venessa Miemis sul blog Emergent by design, in merito al progetto “The Future of Money”.  (video con sottotitoli in italiano)

Open Source Ecology, Quattro anni di progetti in quattro minuti

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=pOGg_uQjvvw]

di Lucia Galasso, Evoluzione culturale   – 20 agosto 2011

(…) Leggendo La Repubblica del 17 agosto 2011, a firma di Jaime D’Alessandro, mi imbatto in un articolo che mi colpisce subito dal titolo “Turbine, trattori e pannelli solari, il kit per una civiltà in miniatura”. Scopro così che esiste l’Open Source Ecology, figlia di quella filosofia di condivisione e miglioramento della conoscenza che è l’Open Source nata dapprima in ambito informatico e poi editoriale (e ora declinata in varie realtà).

L’open Source Ecology è una rete di agricoltori, ingegneri e sostenitori che ha come scopo la creazione di una comunità autosufficiente ed eco-sostenibile. Dal fabbisogno alimentare alla costruzione di trattori e stampanti 3D, tutto è progettato per essere fatto da sé.

Il fondatore è un giovane fisico statunitense, Marcin Jakubowski, classe 1973 (bell’annata il 1973), laureatosi a Princeton con dottorato in fisica all’Università del Wisconsin. Nel 2003 Jakubowski ha deciso che l’agricoltura era la sua vera vocazione, il motivo di questo cambio di rotta risiede in un singolo avvenimento che lui descrive così: «Mi trasferii in Missouri comprando una fattoria e acquistai un trattore ma si ruppe. Allora lo riparai e si ruppe di nuovo, finché alla fine non avevo più soldi per andare avanti. Poter accedere a strumenti low cost fatti con materiali riciclabili e pensati per durare una vita e non una manciata di anni è vitale. Ed è esattamente quello che ho fatto: progettare quel che davvero mi serviva, condividendolo online».

Da qui l’obiettivo di dare vita a comunità autosufficienti, eco-sostenibili e a basso costo; senza per questo rinunciare alle comodità della nostra società contemporanea (come dice quella famosa pubblicità? Il lusso è un diritto di tutti). Una possibile via da intraprendere per una decrescita consapevole.

Il primo passo è portare a termine entro il 2012 il Global Village Construction Set, un enorme laboratorio a cielo aperto in cui vengono assemblati 50 macchinari ritenuti necessari per regalare, partendo da zero, una vita senza rinunce a circa 200 persone. Strumenti essenziali come il trattore o il gruppo elettrogeno, il forno e l’automobile, passando per la turbina, i pannelli solari, la macina, il laser di precisione, la pressa per produrre circuiti stampati, la betoniera, l’altoforno. Tutto assemblabile a prezzi stracciati rispetto a quel che offre il mercato, e in più con alcuni requisiti innovativicome fa notare Eugenio Minucci di Alternativa Sostenibile:

  • si utilizzano materiali a basso costo (una macchina industriale di questo tipo costa otto volte meno di una sua equivalente sul mercato);
  • si persegue una logica modulare nella progettazione (un motore, ad esempio, è predisposto per essere assemblato su diverse macchine)

Di ogni macchinario vengono prodotti almeno tre prototipi testati meticolosamente per poi arrivare alla versione definitiva. Che, su richiesta, può esser acquistata da altri agricoltori.

Nel frattempo il verbo del vivere e produrre in maniera diversa viene diffuso via Web. Lo stile di assemblaggio del Global Village Construction Set è pensato per un facile utilizzo, anche lì dove le risorse e le competenze sono scarse. L’uso dei modelli è infatti semplice da imparare, e la possibilità di consultare online i progetti lo rende ancora più approcciabile. Così il reperimento delle risorse (umane e materiali) sul territorio ha un duplice beneficio: economico e di sostenibilità, dando modo alle persone che lo vivono di potenziare le abilità che le rendono autosufficienti proprio sulla base di quella reciprocità che è alla base della socialità primaria, della famiglia, del vicinato e delle reti relazionali.

Il progetto di Jakubowski, si rifà in qualche modo al Nai Talim – l’educazione pratica all’autonomia – di Gandhi, il cui scopo era di soddisfare i propri bisogni grazie alle conoscenze dei saperi e del saper fare necessari a padroneggiare le tecniche di fabbricazione degli oggetti di uso quotidiano, in modo tale che tutti possano avere un livello di vita soddisfacente.

Di riflessione in riflessione mi è venuto in mente questo passaggio preso dal libro di Serge Latouche “Come si esce dalla società dei consumi”:
“[…] Proseguendo su questa strada, Ingmar Granstedt propone la creazione di laboratori vernacolari con attrezzature sofisticate miniaturizzate. Per il tessile, per esempio ‘si potrebbero raggruppare le operazioni di filatura, di stiramento e di tessitura in un’unica piccola macchina delle dimensioni di un armadio, che potrebbe essere collocata in laboratori vernacolari ed essere messa a disposizione degli abitanti del quartiere. […] Lo stesso vale per le macchine per il riciclaggio della carta, di cui esistono già esemplari abbastanza piccoli e semplici da poter essere trasportati su richiesta e affittati a settimana. A una macchina di questo tipo, collocata nel quartiere o nel comune, potrebbero essere aggiunte taglierine, aggraffatrici e incollatrici, in modo che la gente possa fare da sola blocchi e quaderni. Si potrebbe poi aggiungere una fotocopiatrice e altro materiale semplice da riproduzione’. Sulla linea dell’idea dei “villaggi urbani” di Yona Friedman, la società autonoma sarebbe costituita da una molteplicità di comunità geografiche, ciascuna con un proprio centro e un insieme completo di attività diversificate, nelle quali l’esistenza e le relazioni quotidiane ridiventerebbero umane. Il risultato di questa deindustrializzazione, realizzata grazie a strumenti sofisticati ma conviviali, sarebbe la prova che si può produrre diversamente e che la parte della produzione realizzabile in autonomia, pur non essendo totale, è comunque enorme”, pur non essendo totale, è comunque enorme
”.

Il passo successivo? I FAB Lab creati da Neil Gershenfeld, laboratori di fabbricazione personale. Luoghi in cui invece di comprare o ordinare un prodotto è possibile scaricare o sviluppare la sua descrizione , fornendo all’utente il progetto e le materie prime per farselo da sè. Si parte dalla tecnologia per tornare al lavoro artigiano, non a caso il libro di Gershenfeld inizia così “C’era un tempo in cui educazione, industria e arte erano integrate nel lavoro dell’artigiano del villaggio…

Insomma, questo è il nostro futuro: la fabbricazione in proprio di qualsiasi oggetto d’uso comune come terreno per restaurare i rapporti familiari e sociali, riappropriarsi del tempo libero, liberarsi dal consumismo.

Il Financial Times parla della moneta a scadenza

In un articolo del 15 agosto 2011 sul blog Alphaville nel Financial Times viene data questa notizia:

Neal Soss of Credit Suisse has a note out Monday that speculates about the potency of a few ideas not mentioned by the Fed — but which he thinks could become necessary if fears of a double-dip prove valid and the US economy falls through a trap door into a Japanese deflationary period.

(…..)

Issuing money that depreciates in value over time to spur consumption

Willem H. Buiter, formerly of the European Bank for Reconstruction and Development, coauthored a  paper with the Bank of England’s Nikolaos Panigirtzoglou on liquidity trap solutions. They argued,  “Once in a liquidity trap, there are two means of escape. The first is to use expansionary fiscal policy. The second is to lower the zero nominal interest rate floor. This second option involves paying negative interest on…coin and currency, that is ‘taxing money’, as advocated by Gesell.”

An admittedly simplified way to described the latter scheme is that the monetary authority issues money that, by design, loses its value over time, thereby encouraging spending. The basic idea was advocated in the late nineteenth century by economist (and anarchist) Silvio Gessel, who believed economic downturns were aggravated by wealthy individuals hoarding cash.

Interestingly, this strategy already has been tried on a small scale in parts of the Eurozone. For example, a community currency called the  chiemgauer was introduced in Bavaria, Germany, in 2003, with the intention of promoting local commerce. The chiemgauer is designed to lose 2% of its value every quarter. It has to be “topped up” every three months by purchasing a coupon.

According to a  July 13, 2010 program on National Public Radio (NPR), this “microcurrency” is now accepted by “more than 600 regional businesses — from drugstores to architects…The chiemgauer is not backed by federal or local governments, though some banks are offering loans and checking accounts in the currency.” It is estimated that the chiemgauer circulates three times more rapidly than the euro. Retail chains in the US have experimented along these lines, too. Several drugstore chains reward customers’ purchases of selected items with “money” coupons good for the next purchase at the same store and, critically, good only for a specified period of time. Anyone who has gotten one of these will appreciate the temptation to go back to the store promptly, and buy something!

Terra TRC

This paper will examine The Terra Trade ReferenceCurrency (Terra TRC, hereafter referred to in shorthand as Terra)—a supra-national complementary currency initiative, intended to work in parallel with the current international monetary system to provide an effective mechanism by which to readress important such global issues.

 

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Per una doppia moneta

Ripubblichiamo un articolo del 2004 che riteniamo di incredibile attualità nell’attuale contesto economico.

di Lanfranco Caminiti (10 Luglio 2004)

In un libro da poco pubblicato, l’economista Benjamin Cohen [University of California, Santa Barbara] si interroga sul «futuro del numero delle monete». Esiste una tesi «riduzionista» in merito: essa considera inevitabile la riduzione del numero delle monete, per la quale giocherebbero le economie di scala e l’erosione della sovranità nazionale connessa alla liberalizzazione della finanza. L’introduzione dell’euro, con la costruzione di un’area politico-monetaria enorme nonostante la «frammentazione» nazionalistica, ne sarebbe un vistoso esempio. Ma Cohen non è d’accordo: è vero che dal punto di vista della «domanda» [cioè, di chi la usa] si va verso una riduzione del numero delle monete, ma è altrettanto vero che chi la «offre», cioè gli Stati, sono interessati a avere una propria moneta, per la possibilità di una propria politica valutaria e monetaria. Come per le lingue ci saranno poche «lingue che contano», così per la moneta ci saranno poche «monete che contano» [dollaro, yen, euro], ma non mancheranno mille lingue e mille monete. [Benjamin Cohen, The Future of Money, Princeton University Press, 2004 – Fabrizio Galimberti, «Il Sole-24 Ore», 4 luglio 2004].

Lo scenario prefigurato da Cohen, della inestinguibile pluralità di monete nazionali e territoriali dentro una tendenza globale a pochi riferimenti monetari «forti», sembra quello di una moltiplicazione di regimi a doppia moneta. In ciascun territorio, alla moneta nazionale si affiancherebbe una moneta transnazionale di riferimento. Un regime, per fare un esempio semplice anche se non esatto, simile a quello vissuto in Italia durante e fino all’introduzione dell’euro come moneta unica con la contemporanea circolazione della lira. Dal 1° gennaio 1999 l’euro era la valuta legale dei Paesi aderenti all’Unione monetaria europea e sostituiva le singole valute nazionali secondo i tassi irrevocabili di conversione fissati dalle istituzioni comunitarie. Fino al 31 dicembre 2001 fu previsto un periodo transitorio durante il quale le singole valute nazionali restavano in vigore. Durante il periodo transitorio, l’euro poteva essere utilizzato solo come moneta scritturale, non essendo ammessa circolazione di monete e banconote. Al termine del periodo transitorio, le singole valute nazionali cessarono di avere corso legale, salva la possibilità, fino al 28 febbraio 2002 per la lira, di continuare ad utilizzare le monete e le banconote in circolazione (periodo di doppia circolazione). In realtà, a me sembra che un regime di doppia moneta sia quello a cui siamo già sottoposti tutti, non certo nel senso della circolazione ma in quello del valore, e dei prezzi. La invisibilità della presenza di una doppia circolazione non indebolisce certo il suo carattere operativo e cogente.

C’è stato un altro momento storico abbastanza recente in cui l’Italia ha vissuto una doppia [e tripla e quadrupla] circolazione monetaria. Nel 1943, in preparazione dello sbarco in Sicilia, gli Alleati costituirono l’AMGOT [Allied Government Occupied Territory]. Tra le varie «divisioni» a cui spettava governare il territorio, fu istituita quella finanziaria, la Financial. Le autorità alleate sapevano che nell’isola ridotta allo stremo anche le banche avevano esaurito la scorta di banconote. Fu perciò istituita una banca militare, l’Allied Military Financial Agency [AMFA} con il compito di emettere cartamoneta destinata alle spese correnti e al soldo dei militari. In tal modo, prima ancora dello sbarco, incominciarono a circolare dollari con il sigillo giallo, per distinguerli da quelli ufficiali con il sigillo blu. C’era pure uno scambio ufficiale con la lira: 100 il dollaro. Al mercato libero, il dollaro raddoppiava. Verso la fine di giugno si aggiunsero le Allied military liras, che sarebbero diventate le «AM-lire» e cominciarono a circolare sin dallo sbarco in luglio. Le Allied Military Line Currency della serie 1943 furono stampate negli Usa da due differenti tipografie, la Bureau of Engraving and Printing [BEP] e la Forbes Lithograph Corporation [FLC]. La differenza è valida solo per l’emissione del 1943. I biglietti si differenziano perché quelli della BEP sono privi di indicazioni dello stampatore, mentre quelli della FLC hanno una piccola «f» nel ricciolo inferiore destro sopra al valore. Una enorme liquidità venne immessa sul mercato con effetti inflattivi. I tagli erano da 1, 2, 5, 10, 50, 100, 500 e 1.000. Sul retro, ogni biglietto pubblicizzava le quattro libertà americane: Freedom of Speech [libertà di parola], of Religion [di fede], from Want [dal bisogno], from Fear [dalla paura]. Contemporaneamente alle AM-lire, gli inglesi fecero un analogo tentativo di emettere moneta di occupazione, pence, scellino e sterlina della British Military Authority, che però ebbero scarsa fortuna per la difficoltà che gli italiani incontrano a conteggiare una moneta suddivisa su base non decimale. I prezzi si infiammarono. A ridosso dello sbarco le banconote furono poi stampate in Tunisia, ma con la conquista di Palermo le autorità statunitensi ebbero a disposizione il Banco di Sicilia, del quale già nei preparativi dell’invasione veniva prefigurato l’impiego come Istituto di emissione. Trasformato in Banca centrale, il Banco di Sicilia guadagnò un potere enorme. Le AM-lire passarono per tutte le mani degli italiani fra il 1943 e il ’45. Quanto meno, il Sud ne fu invaso [Malaparte ne La pelle, scrive che amministravano «i cuori e i corpi»] e progressivamente i territori «liberati», mentre nella Repubblica Sociale continuavano a circolare le lire. Nel 1944 intanto la Banca d’Italia stampò la cosiddetta «serie della Luogotenenza», in cui c’erano anche i biglietti da 500 e 1.000 lire, mai messi in circolazione. Le AM-lire furono dichiarate fuori corso soltanto nel 1950, con la legge del 5 gennaio n. 3 del ministro del Tesoro. [Alfio Caruso, Arrivano i nostri, 2004, Longanesi – http://www.infol.it/monete/money.htm].

È difficile immaginare oggi un controllo totale della massa monetaria, per via della velocità dei suoi movimenti, della globalizzazione, in breve dell’emergere di un suo carattere selvaggio. C’è un carattere permanente, enduring, di «occupazione» nella selvatichezza dei movimenti della moneta finanziaria. Si attenua fortemente la differenza tra mercati interni ed esterni [almeno come li intendeva la teoria classica del ‘commercio estero’], ma si ripropone, e con approfondimento contraddittorio, la questione dei prezzi interni ed esteri, legati come sono i primi alla produzione materiale di beni e i secondi ai movimenti speculativi del plusdenaro [o del capitale finanziario]. I governi reagiscono ai movimenti monetari o tendono a impedirli, ma non possono sempre prevederli né sistematizzarli. La moneta perde vieppiù il suo carattere di rappresentazione di quantità verificate o verificabili [M1], caratterizzandosi come segno di accumulazione, e quindi di speculazione [di falsificazione] [M2, M2 estesa, derivati]. Ovvero s’è già creata una doppia moneta, una come regolatrice dei prezzi ed una come forma della ricchezza. Non esiste quindi una sola serie di valori di equilibrio [parziale o aggregato]. Esistono piuttosto serie diverse di prezzi per serie diverse di quantità [di beni, valori], e quindi l’equilibrio non è più possibile dal lato della produzione e dello scambio, e viene imposto forzosamente dal lato della circolazione [moneta]. Dai conflitti e dagli aggiustamenti tra queste due forme di moneta dipendono la maggior parte degli eventi economici che attraversano la nostra giornata lavorativa [in generale possiamo dire che la maggior parte del lavoro è pagato con moneta interna, più vile, mentre il plusdenaro – la ricchezza – si muove sulla moneta esterna]. La somma dei prezzi [con riferimento a merci e partite] d’ogni nazione è ormai inferiore rispetto la massa monetaria in movimento [in entrata e uscita] e ne mostra in alcuni casi il segno di dipendenza reale dal governo mondiale della moneta. Eppure i prezzi [e le imposte dello Stato] aumentano all’interno, anche se la massa monetaria interna viene tenuta sotto controllo, e anzi, a massa monetaria costante, l’aumento dei prezzi, senza corrispondente aumento di salari e redditi, diventa motore della crescita dei profitti e di una forte ridistribuzione della ricchezza in maniera polarizzata, attraverso anche la distruzione progressiva del risparmio [di quella parte di plusdenaro socializzatasi]. La vanificazione del risparmio [del potere del risparmio] dei lavoratori è la faccia complementare della lotta al potere dei salari. Alla stabilità della moneta come circolante interno non corrisponde la stabilità dei prezzi, in particolare di quelli delle merci immateriali che si formano su un mercato globale [e ciò rende fumoso ogni controllo sui prezzi che può essere solo interno]. La lotta all’inflazione [il controllo del deficit] più che recessione e disoccupazione provoca quindi una riappropriazione di plusdenaro da parte dei maggiori detentori d’esso. [Lavori e merci, prezzi e monete, «deriveapprodi» 12-13, 1996]

Qual è, in breve, la mia proposta? La reintroduzione della lira come «moneta nazionale», ma solo come moneta della contabilità nazionale. Non come moneta circolante. Per il circolante va bene, va benissimo l’euro, per la sua «qualità» di moneta transnazionale, di moneta della cittadinanza europea. È uno straordinario vantaggio per la mobilità dei cittadini e dei lavoratori europei quello di potersi trovare «a casa» dal punto di vista dell’acquisto di beni e di scambio in qualunque luogo europeo. Dal punto di vista della domanda l’euro funziona. Dal punto di vista «politico» l’euro funziona, e probabilmente funzionerebbe di più ancora se vissuto come un circolante dei cittadini, sottratto cioè alla BCE, al «controllo» e al potere della Banca europea centrale e dei suoi gnomi. Si dovrebbe cioè proprio invertire la storia del circolante: per i prezzi interni [e in questo senso, interna può essere considerata l’Europa come spazio politico e di diritti] ci occorre una moneta forte, che tenda a stabilizzare e equilibrare la serie dei valori e dei prezzi e quindi anche il potere d’acquisto dei salari, sottraendoli alle manovre speculative dei prezzi esteri, cioè del plusdenaro. Mentre invece si potrebbe reintrodurre la lira per i rapporti commerciali che l’Italia tiene e terrebbe con il resto del mondo [a cominciare dalle nazioni europee], con il resto delle monete. La lira insomma dovrebbe acquisire fino in fondo una sua dimensione «scritturale»: potremmo comprare e vendere in lire i nostri prodotti: la nostra bilancia commerciale se ne avvantaggerebbe. La lira dovrebbe fluttuare, a seconda delle convenienze. Dovrebbe seguire cioè una sua cambiabilità con lo stesso euro come una qualunque altra moneta e non in maniera «fissa». Nella nostra vita quotidiana questa fluttuazione non avrebbe alcun senso, e solo nella nostra vita «monetaria» acquisirebbe significato. I nostri risparmi dovrebbero essere in euro, le nostre tasse, e insomma non dovrebbe cambiare proprio nulla dal punto di vista della «contabilità sociale». Solo sui prezzi «esteri» avrebbe valore la lira, sull’acquisto e la vendita di beni, servizi, valori. Le obbligazioni e i titoli di Stato dovrebbero essere in lire. I loro rendimenti seguirebbero una doppia oscillazione [quello che, in parte, succedeva con il serpente monetario – il currency snake – dal 1972 prima dell’introduzione dello SME, il Sistema monetario europeo voluto da Francia e Germania nel 1979]: una tra la moneta «interna» [l’euro] e quella «contabile» [la lira], e una tra la lira e le monete del mondo. Io credo che potremmo ricavarne solo vantaggi. E anche i conti pubblici dovrebbero essere in lire. Forse verrà il mal di testa ai ragionieri dello Stato, ma sono pagati apposta. Se uno pensa che i «cervelloni» del Tesoro hanno partorito come proposta «creativa» quella di introdurre il biglietto da un euro invece della moneta di conio – con plauso di non pochi politici – certo prende lo sconforto, ma. Si potrebbe finanziare un ciclo virtuoso di spesa pubblica tutta in lire. E infine, penso che pure il mercato azionario, e i suoi titoli, dovrebbe svolgersi in lire. Anche ai broker verrà il mal di testa, ma pure loro sono pagati apposta. Decidere l’introduzione di una doppia moneta, ripristinare e aggiornare la lira, non contravverrebbe alcun vincolo politico europeo e non tornerebbe indietro la pax monetaria dell’euro. Per un’economia dai caratteri volatili come quella italiana è troppo penalizzante la rinuncia a una propria moneta nazionale. Non siamo la Germania e non siamo la Francia. D’altronde, la Gran Bretagna continua a mantenere la sterlina e a stare nella comunità europea. Un po’ a modo proprio, s’intende.