Moneta del comune e reddito sociale garantito

di Laurent Baronian e Carlo Vercellone

Abstract. Lo scopo di quest’articolo è di gettare le basi per una concezione della moneta del comune a partire da un’interrogazione omessa dalla teoria economica dei beni comuni. Quali sono le condizioni capaci di attenuare il vincolo monetario al rapporto salariale e di favorire così lo sviluppo di forme di produzione alternative ai principi d’organizzazione sia del pubblico che del privato? Questa domanda richiede d’introdurre nella teoria del Comune il ruolo strutturante della moneta nei rapporti capitale-lavoro. Su questa base, l’articolo procede in quattro tappe. Nella prima partiremo da una critica dell’economia politica dei beni comuni dalla quale la moneta, come il lavoro, sono curiosamente assenti. La ragione di quest’assenza si trova nel fatto che questa concezione naturalista dei beni comuni accetta implicitamente uno dei postulati fondatori della teoria economica standard, ovvero la neutralità della moneta, concepita come un semplice strumento tecnico che facilita gli scambi, e non come la cristallizzazione di un rapporto sociale di potere. Si tratterà allora di caratterizzare un approccio dinamico del comune al singolare nel quale la questione della moneta e delle mutazioni della divisione del lavoro occupa un posto centrale. Questo approccio fondato sulla triade lavoro-moneta-plusvalore servirà allora egualmente da filo conduttore per rianimare la controversia che aveva opposto Marx ai proudhoniani, precursori di un approccio della moneta come comune. Nella terza tappa fonderemo il nostro ragionamento sulle teorie marxiane del circuito per mostrare che il carattere specificamente monetario del rapporto capitale-lavoro costituisce l’unico punto di partenza adeguato per una riflessione sulla moneta del comune. Questa riflessione farà infine emergere perché la nozione di reddito sociale garantito corrisponde ad un’istituzione del comune volta a rendere la creazione monetaria endogena non solo al capitale ma anche alla riproduzione autonoma della forza lavoro.

 

Parole chiave. Moneta, Comune, reddito sociale garantito, Marx, Proudhon, teoria del circuito, critica dell’economia politica dei beni comuni Continue reading

Moneta, possibile espressione del Comune. Non bene comune

di Andrea Fumagalli  (Quaderni di San Precario), aprile 2013

La moneta è un’invenzione umana. La moneta non cresce sugli alberi. La moneta ci dimostra che l’essere umano è un animale sociale. La moneta è socialità, è, soprattutto, relazione sociale. Una relazione sociale che oggi non è paritaria, ma che potrebbe diventarlo. La moneta è la dimostrazione dell’esistenza di una comunità, perché la moneta è frutto di un rapporto di fiducia. Ma la moneta è, soprattutto, potere. Potere di decisione, potere di arbitrio. Per questo la moneta non è un bene comune. Essa è, o meglio potrebbe essere, dovrebbe essere, un common. Ma oggi non lo è. Nell’attuale bio-capitalismo cognitivo e finanziarizzato, se una lotta deve esserci essa dovrà necessariamente essere la lotta per la moneta intesa come common. Una lotta per il “comun(e)ismo”.

La moneta ha svolto diverse funzioni nella storia dell’umanità. Esiste da subito, come il fuoco, la ruota, la scoperta dell’agricoltura. Nelle società preistoriche è mezzo di scambio e unità di conto. Mezzo di pagamento per consentire la relazione sociale dettata dall’attività di scambio per la sopravvivenza: la necessità del negotium (la dannazione del labor), in opposizione all’otium (il piacere della creatività e dell’ingegno umano). E in quanto tale, unità di misura del valore delle merci scambiate. La moneta è quindi da subito rappresentazione fenomenica del valore. E in quanto tale, espressione di potere nel momento in cui tale misura viene stabilita sulla base di una gerarchia sociale. Chi decide la “forma” della moneta? Ma soprattutto, nell’antichità come oggi, chi decide il valore della moneta?

La storia della moneta è connessa alla storia dell’umanità, dicevamo. Anticamente, sino alla formazione degli stati nazionali nel 1500 in Europa, la forma prevalente della moneta è la moneta-merce. Il valore della moneta è contenuta nel corpo stesso della moneta. La sua forma (peso) metallica (quindi fisica, sia essa rame, bronzo, argento o oro) ne indica il valore. Si attua così uno scambio tra equivalenti in valore. Un metro di stoffa che, supponiamo, abbia un valore di 10 grammi d’oro, viene direttamente scambiato con una moneta che contiene 10 grammi d’oro. Da questo punto di vista, lo scambio di moneta implica uno scambio rivale e solvibile. Quella specifica moneta di 10 grammi può essere usata solo per quello scambio, in una relazione do ut des, merce (stoffa) contro merce (metallo). La moneta è quindi una merce (bene) come tutte le altre.

Secondo Erodoto, i Lidi furono il primo popolo a introdurre l’uso di monete d’oro e d’argento e il primo a stabilire negozi per la vendita al minuto in località permanenti. Nel momento stesso in cui la moneta metallica si diffonde come mezzo di pagamento e diventa unità di conto degli scambi economici (unità di misura del valore), essa diventa anche espressione di potere. Era infatti chi emetteva la moneta (il sovrano) a determinarne il valore e a esprimere il comando economico. In questa fase della storia (euro-mediterranea), la moneta-merce implica una struttura proprietaria (come tutte le merci). La proprietà si estrinseca nel monopolio di emissione (il sovrano). Non vengono ancora agìti i diritti di signoraggio. Sarà con l’impero romano, prima con Nerone e poi con Settimio Severo, che il valore della moneta (Aureo e Denario, rispettivamente in oro e argento) tenderà a non corrispondere più esattamente alla quantità di metallo pregiato utilizzato. Sorgono così i diritti di signoraggio. Ma sarà solo con la formazione degli stati nazionali europei e il salto di paradigma tecnologico a cavallo del XV-XVI secolo che si assisterà al totale sganciamento tra il valore dichiarato della moneta e la quantità del metallo prezioso contenuto.

Il monopolio di emissione della moneta assume allora le forme di un diritto sovra-individuale e la moneta diventa variabile extra-mercato (privato), controllata a livello istituzionale e non dalla dinamica di mercato. Una volta garantita dal ruolo statuale, che opera non come agente di mercato, ma al di sopra di esso, la moneta comincia a svolgere anche la funzione di riserva di valore e misura patrimoniale. Tale passaggio di fase è, non casualmente, accompagnato dal cambiamento della forma della moneta. Dalla moneta metallica, fondata prevalentemente sull’oro, si passa alla moneta cartacea: ciò significa che il mezzo monetario non incorpora più il valore stesso che dichiara. Come abbiamo ricordato, lo scambio economico “valore contro quantità” era sempre esistito come scambio di puri e diretti equivalenti in merce, ovvero un certo ammontare d’oro contro un certo ammontare di merci. Non è un caso che buona parte dei nomi delle valute in vigore ancora oggi, o sino a poco tempo fa, derivino, etimologicamente, da unità di peso (pound in Gran Bretagna, pesetas in Spagna, lira – da libra – in molti paesi). Con la garanzia di una governance statuale (quindi istituzionale e extra-mercato privato), lo scambio economico comincia sempre più a caratterizzarsi materialmente come scambio tra un pezzo di carta, il cui valore intrinseco è poca cosa, e un certo ammontare di merce.

Ma questo pezzo di carta – la moneta cartacea o banconota – viene garantito da un potere politico superiore che obbliga all’accettazione (fiducia) e ne garantisce il valore virtuale ivi riportato. Tale passaggio genera, tramite il ruolo sempre più importante della Banca centrale, la possibilità di creare base monetaria in condizioni di monopolio.

Con la rivoluzione industriale e, nel XX secolo, con la Conferenza di Bretton Woods si assiste, così, al graduale abbandono dei sistemi monetari fondati sui metalli preziosi e sulla inconvertibilità delle monete in metalli preziosi. La crescita degli scambi economici, provocata dalla diffusione del sistema capitalistico di produzione, ha imposto l’uso di monete la cui offerta non risultasse vincolata dalla limitata disponibilità di metalli preziosi. Inoltre, l’affermarsi di talune monete, sempre più diffuse e accettate negli scambi internazionali, ha reso obsoleto il ricorso ai metalli preziosi per regolare tali scambi. Infine, l’affermazione del biglietto di banca e di altre forme di pagamento svincolate dall’uso di metalli preziosi, si spiega con la praticità dei sistemi di pagamento che non obbligano a trasferire ingenti quantità di pesante metallo prezioso.

Oggi, dopo la fine di Bretton Woods, assistiamo alla completa smaterializzazione della moneta. Il suo valore, convenzionalmente fissato nel 1944 a Bretton Woods dalla parità fissa con l’oro nel rapporto di 35$ per oncia d’oro, è decaduto. Da moneta “merce” e moneta “oro” si passa alla moneta come “puro segno” (Marx), passaggio che, grazie al processo di finanziarizzazione, ha di fatto ridotto il peso dei diritti di signoraggio e anche la possibilità da parte delle Banche Centrali di controllare in toto la massa monetaria in circolazione e il moltiplicatore creditizio e finanziario che ne consegue.

La moneta, in questo modo, si smaterializza del tutto. Oggi la moneta non è più una merce o un bene. Non esiste più un’unità di misura del valore della moneta, come il metro per la lunghezza o il chilogrammo per il peso. A prescindere dal fatto che esistono ancora i monopoli di emissione e i diritti di signoraggio, a prescindere dalla struttura proprietaria, in quanto non più bene, la moneta non può neanche essere definita bene comune. Con la fine degli accordi di Bretton Woods, il valore della moneta non è più determinato esclusivamente da chi la emette. La sovranità monetaria (nazionale o sovranazionale, che sia), la cui governance è il compito della Banca centrale, tende a perdere sempre più significato.

Sino alla crisi del fordismo, l’istituto della Banca centrale ha avutoil compito di esercitare un controllo puntuale e diretto sulla quantità di banconote e monete coniate dalla Zecca nazionale. Ma il 95% della moneta circolante è oggi erogato da banche private nella forma di prestiti o attività speculative; su questa quota della moneta circolante la Banca centrale ha solo un controllo molto indiretto tramite l’imposizione della riserva obbligatoria sull’ammontare dei depositi. Ciò significa che, nonostante la Banca centrale possa unilateralmente e autonomamente fissare i tassi d’interesse e imporre una riserva obbligatoria alle banche, la quantità di moneta in circolazione è sempre meno controllabile dalla stessa Banca centrale.

In un sistema capitalistico che si basa su un’economia finanziaria di produzione, la quantità di moneta esistente viene endogenamente determinata dal livello di attività economica che si registra e dall’evoluzione delle convenzioni finanziarie che regolano il mercato internazionale della finanza e delle valute. La Banca centrale può solo cercare di aumentare o di ridurre la massa monetaria circolante, ma nulla più. Tale possibilità viene oggi ulteriormente ridotta dal nuovo ruolo che hanno assunto i mercati finanziari, sia nel finanziare l’attività di investimento (tramite le plusvalenze generate), sia come creatori di titoli altamente liquidi (definita near money, quasi moneta).

Di fatto, in modo paradossale, i poteri discrezionali delle Banche centrali sono tanto più diminuiti quanto più esse stesse sono diventate istituzioni politicamente indipendenti. Di conseguenza, i poteri gestionali del settore bancario e, tramite la regolazione dei tassi d’interesse, dell’intero sistema economico della Banca centrale sono sempre più ancillari alle dinamiche che si svolgono sui mercati finanziari e quindi sempre più dipendenti dalle oligarchie che li dominano.

Ciò significa che nel biocapitalismo cognitivo, la moneta e la determinazione del suo valore non è più sotto il controllo della Banca Centrale, cioè dell’istituto che, formalmente, la emette. Nel momento stesso in cui la moneta è pura moneta segno, essa sfugge a ogni controllo pubblico. La moneta perde lo stato di “bene di proprietà pubblica”. Il suo valore viene determinato di volta in volta dall’operare dell’attività speculativa dei mercati finanziari. Le sue funzioni di mezzo di pagamento e unità di conto (misura del valore), nonché di riserva di valore e di strumento di finanziamento dell’attività di accumulazione / valorizzazione, sfuggono a qualsiasi controllo. Nel momento in cui la sua quantità e le modalità di circolazione vengono determinate dalle convenzioni che si determinano sui mercati finanziari,sempre più concentrati, la moneta è ostaggio delle aspettative che le oligarchie (o meglio, la dittatura delle oligarchie) dei mercati finanziari di volta in volta è in grado di esercitare. Oggi, possiamo affermare che la creazione di moneta-finanza è esatta espressione del comunismo del capitale. Ne è riprova il fatto che le scelte statuali di politica monetaria sono in funzioni della dinamica finanziaria. Gli stessi tassi d’interessi non sono più controllabili in toto dalla politica monetaria.

La moneta contemporanea è, dunque, rappresentazione del biopotere finanziario, in quanto il suo valore è determinato dalle convenzioni finanziarie che la governance dell’espropriazione del comune è, di volta in volta, a secondo delle condizioni, in grado di imporre.

Ma proprio per questo il comune, inteso come non proprietà, potrà, in futuro, rappresentare un contropotere monetario. A tal fine, diventa sempre più imprescindibile attivarsi nella costruzione di circuiti finanziari alternativi non riconducibili alla legge dei poteri forti finanziari, oggi egemoni. Pensare di poter regolamentare i mercati finanziari per ricondurli sotto un controllo pubblico è pura illusione. La sfida va portata al massimo livello della governance finanziaria attuale. E questa sfida genera la necessità di riappropriarsi della moneta non come bene comune ma, appunto, come common, ovvero come espressione e misura del valore di quella cooperazione sociale o general intellect, che oggi viene espropriata dal divenire rendita dei profitti e soggetta alla misura (variabile) dettata dai rapporti di forza imposti dal ricatto dei mercati finanziari.

Come il reddito di base è la forma di remunerazione del comune, esito dell’agire rivendicativo-conflittuale del lavoro vivo precario, così, oggi più che mai, la moneta può essere espressione e misura di questo stesso comune (cooperazione sociale e general intellect), contropotere al comunismo, selettivo, iniquo, gerarchico del capitalismo finanziario.

È ora che i precari comincino a immaginare anche forme di autogestione finanziaria.

NOTE

1. Cfr. Erodoto I,94. Le prime monete erano fatte di elettro, una lega di oro e argento che si realizzava già in natura, ma che era ulteriormente falsificata
dai Lidi con altra aggiunta di argento e anche rame. Secondo le ricerche di numismatica antica, la moneta lidia portava l’effige di un leone con un raggio di sole, che rappresentava il re. Secondo Erodoto, fu il re Aliatte a introdurre le prime monete, pratica che si diffuse sotto il regno di suo figlio Creso, che divenne, non casualmente, sinonimo di ricchezza. Vedi anche M. Cowell, K. Hyne, “Scientific Examination of the Lydian Precious Metal Coinages”, in A. Ramage, P. Craddock (eds.), King Croesus’ Gold: excavations at Sardis and the history of gold refining (Cambidge, MA: Harvard University Press, 2000): 169-174.

2. Con la riforma monetaria di Settimio Severo (193-211 d.C.) si può parlare di vero e proprio signoraggio: questo imperatore dimezzò la quantità di metallo prezioso contenuto nelle monete, mentre lasciò invariato il valore
nominale.

3. Le valute che non fanno riferimento a unità di peso prendono, solitamente, il nome dal sovrano (popolo) che le emette (ad esempio, il Franco). Forse si potrebbe (ironicamente) dire lo stesso per quanto riguarda la nostra attuale moneta, l’Euro, espressione del nome del nostro attuale sovrano, l’Europa delle monete (cfr. L. Berti, A.Fumagalli, L’anti-europa delle monete, Roma: Manifestolibri, 1992).

4. Il 15 agosto 1971, a Camp David, Richard Nixon, sospese la convertibilità del dollaro in oro, in quanto, con le crescenti richieste di conversione in oro, le riserve americane si stavano sempre più assottigliando.

5. Lo scambio di moneta (apertura di un rapporto di debito e credito) non implica infatti lo scambio dei diritti di proprietà. Lo scambio di moneta non è solvibile. La proprietà della moneta legale è proprietà statuale, o meglio, della Banca centrale che ha il monopolio di emissione. Tanto è vero che la distruzione di una banconota è un reato, anche se la banconota è privatamente posseduta, in quanto distruzione di un bene di proprietà altrui (a differenza di un bene privato).

6. Al riguardo, sono in corso alcuni esperimenti che cercano di creare un circuito finanziario alternativo. Basti pensare alla proposta delle monete complementari in fase di definizione presso il comune di Nantes (cfr. M. Amato, “La moneta municipale: una strada contro la stretta creditizia”, Altra finanza – blog di Linkiesta 16 mag. 2012, <http://www.linkiesta.it/blogs/altra-finanza/la-moneta-locale-una-strada-contro-la-stretta-creditizia>) oppure in Italia cfr.”Moneta complementare: lo stato dell’arte in italia”, redazionale del sito Monetacomplementare.org, <http://www.monetacomplementare.org/1/monetacomplementare_lo_stato_dell_arte_in_italia_745602.htm
l>). Su questo tema ci ripromettiamo di tornare sul nr. 5 dei Quaderni di San Precario.

Moneta del comune e reddito sociale garantito

di LAURENT BARONIAN e CARLO VERCELLONE (Uninomade), 17 aprile 2013

L’ambizione di quest’articolo è quella di gettare le basi per una concezione della moneta del comune a partire da un’interrogazione omessa dalla teoria economica dei beni comuni.

Quali sono, dunque, le condizioni capaci di attenuare il vincolo monetario al rapporto salariale e di favorire così lo sviluppo di forme di produzione alternative ai principi d’organizzazione sia del pubblico che del privato? Questa domanda richiede d’introdurre nella teoria del Comune il ruolo strutturante della moneta nei rapporti capitale-lavoro.

L’esame del rapporto tra moneta e comune necessita, di conseguenza, di partire da una critica della teoria dei beni comuni dalla quale la moneta, come il lavoro, sono curiosamente assenti. La ragione di quest’assenza si trova nel fatto che questa concezione naturalista dei beni comuni accetta implicitamente uno dei postulati fondatori della teoria economica standard, ovvero la neutralità della moneta, concepita come un semplice strumento tecnico che facilita gli scambi, e non come la cristallizzazione di un rapporto sociale di potere.

Su questa base, si tratterà di caratterizzare un approccio dinamico del comune al singolare nel quale la questione della moneta e delle mutazioni della divisione del lavoro occupa un posto centrale. Questo approccio fondato sulla triade lavoro-moneta-plusvalore servirà allora egualmente da filo conduttore per rianimare la controversia che aveva opposto Marx ai proudhoniani, precursori di un approccio della moneta come comune.

Infine, fonderemo il nostro ragionamento sulle teorie marxiane del circuito per mostrare che il carattere specificamente monetario del rapporto capitale-lavoro costituisce l’unico punto di partenza adeguato per una riflessione sulla moneta del comune. Questa riflessione farà emergere perché la nozione di reddito sociale garantito corrisponde ad un’istituzione del comune volta a rendere la creazione monetaria endogena non solo al capitale ma anche alla riproduzione autonoma della forza lavoro.

1. Lavoro e moneta : per una critica della teoria economica dei beni comuni

Il capitalismo si presenta come un’economia monetaria di produzione e di sfruttamento del lavoro. Pertanto, le forme di regolazione della moneta costruite attorno al funzionamento del denaro in quanto capitale costituiscono i pilastri istituzionali dell’accumulazione e della riproduzione della scissione costitutiva della società capitalista: il rapporto capitale-lavoro.

Quindi, se non si vuole pensare il comune come una semplice enclave, ma come il fondamento di una formazione sociale alternativa al capitale, porre la questione dello statuto e del modo di regolazione della moneta diventa inevitabile. La sua importanza risulta dal doppio carattere della moneta: allo stesso tempo ricchezza astratta, oggetto di appropriazione privata e forma di socializzazione dell’attività produttiva degli individui. Sotto vari aspetti, la moneta rientra nel campo di ciò che potremmo qualificare come il Comune dei Comuni. Sono infatti le forme di governance intessute attorno alla moneta (modalità di creazione e di accesso, fondamenti del suo valore, ecc.) che condizionano in modo determinante il tipo di legame sociale, così come i meccanismi che reggono l’allocazione delle risorse, permettendo di rispondere alle domande fondamentali dell’economia politica, ovvero: chi decide che cosa bisogna produrre? In che modo? Per quali finalità sociali?

Su queste basi, il nostro approccio del comune al singolare si differenzia dunque profondamente da quello della teoria economica dei beni comuni, nel senso in cui, in quest’ultima, il comune non può essere pensato che nei termini di un’alternativa locale e marginale rispetto alle logiche dominanti dello Stato e del mercato, del pubblico e del privato.

La concezione dei beni comuni di Hess e Ostrom (Ostrom, 1990, Hess e Ostrom, 2007) rimane infatti per vari aspetti nel solco di due approcci maggiori della teoria economica standard. Da una parte, in continuità con la teoria samuelsoniana dei beni collettivi e dei fallimenti del mercato, tale concezione resta centrata sui criteri di rivalità e di escludibilità, per caratterizzare la natura dei diversi beni (Laval, 2011). La novità consiste nell’introdurre, in aggiunta ai beni pubblici (non rivali e non escludibili) e ai beni privati puri, una nuova categoria che associa rivalità e non escludibilità, come, ad esempio, i comuni fondiari. D’altra parte, nel prolungamento della teoria dei diritti di proprietà efficaci di North, questa concezione si propone di mostrare che per questi tipi di beni possono esistere forme di governance e di proprietà distinte dal pubblico e dal privato. Nonostante questo sforzo innovatore, la teoria economica dei beni comuni non si emancipa veramente da una visione secondo cui esisterebbe una sorta di demarcazione spontanea, in funzione della natura dei beni, tra le rispettive sfere del pubblico, del privato e del comune. Anche quando si afferma, con Ostrom ad esempio, che il comune è socialmente istituito da regole e forme di governance ben precise, si considera sempre che soltanto una categoria ristretta di beni (fondiari e informazionali[1]) ha veramente vocazione, date le sue qualità intrinseche, ad accedere a questo modo di governance.

La riflessione sulla natura di questi beni e risorse cancella anche, in modo significativo, ogni analisi reale sul lavoro che ne assicura la produzione o la riproduzione.

Infatti, non solo nessun bene è destinato, per le sue qualità intrinseche, a diventare oggetto di un modo di gestione in particolare, ma le teorie dei beni collettivi e comuni trascurano totalmente le forme di produzione che stanno all’origine di questi beni. Soprattutto, esse non rimettono mai in questione l’egemonia del modo di produzione “privato”, considerando di fatto il pubblico come un rimedio ai fallimenti del mercato ed il comune come un’eccezione. In questo senso, la teoria dei beni comuni si situa al confine tra pubblico e privato e non propone un paradigma alternativo ai fondamenti neoclassici della rappresentazione dell’economia.

Nel quadro della teoria dei beni collettivi, di cui la teoria dei beni comuni si rivendica come uno dei prolungamenti (Hess e Ostrom, 2007), la moneta conserva le funzioni neutre alle quali la teoria neoclassica la condanna. Il fatto è che qui la moneta non è mai colta come espressione di un rapporto sociale di produzione nel quale le attività del lavoro accedono alla loro esistenza sociale solo per mezzo dello scambio delle merci. Essa è concepita unicamente come strumento di scambio, tutt’al più come mezzo per saldare un debito (cartalismo).

Insomma, la questione della moneta e quella dello statuto della forza lavoro, in quanto merci fittizie, non sono mai affrontate. E quando in alcuni lavori, che s’ispirano parzialmente al contributo teorico di Ostrom e di Hess, viene introdotta la moneta, ciò avviene tutt’al più nei termini di una moneta complementare o alternativa a livello di una località, di una comunità, di una rete o di una categoria di beni specifici[2].

Non si propone mai alcuna riflessione sulla relazione tra la moneta e la natura dei rapporti sociali di produzione da cui dipende, tuttavia, a livello macroeconomico e sociale, la gerarchia e l’articolazione delle sfere del privato, del pubblico e del comune. Lo stesso avviene riguardo alle mutazioni del lavoro legate alla crescita della sua dimensione cognitiva e relazionale, malgrado il ruolo crescente di tali mutazioni nella produzione del comune, attraverso i beni informazionali e le produzioni dell’uomo attraverso l’uomo (Hardt e Negri, 2010).

Dobbiamo pensare il comune al singolare[3] come una costruzione sociale e una forma d’organizzazione della produzione in grado di divenire dominante. Non si deve partire dal contenuto dei beni prodotti, ma dalle forme del lavoro produttore di questi beni. Sono infatti i modi di cooperazione del lavoro collettivo che producono il comune che si tratta di liberare dalla morsa della formula generale del capitale : D e D’ non possono più formare il punto di partenza ed il punto d’arrivo della produzione del Comune.

Non esiste infatti alcun bene che, in virtù di caratteristiche naturali proprie legate al suo valore d’uso, non sia destinato ipso facto, nel senso della teoria economica convenzionale, ad una soltanto delle sfere dell’economia (il pubblico, il privato o ancora, il comune) e ad una forma corrispondente di cooperazione e di appropriazione del prodotto del lavoro.

Il comune può concernere ogni tipo di bene[4], anche se ciò non significa affatto che si debbano trascurare i problemi particolari di regolazione che si dànno nella gestione di un dato bene. Tuttavia, è l’approccio stesso della teoria dei beni comuni, il quale procede dalla natura intrinseca dei beni al loro modo di gestione (pubblico, privato o comune), che deve essere invertito.

Si tratta di partire dalle mutazioni del lavoro, per pervenire alle caratteristiche dei prodotti, sapendo che il loro valore d’uso ed i bisogni che debbono soddisfare non hanno niente di naturale, ma sono il risultato storico dei rapporti sociali che si intrecciano attorno alle forme d’organizzazione della produzione e del consumo.

In breve, è il modo di cooperazione sociale del lavoro, la sua capacità di organizzarsi in modo alternativo rispetto alle logiche del capitale e dello Stato, che determina in ultima istanza la propensione di una serie di beni o di risorse ad essere gestita secondo i principi del comune.

Ora, come vedremo, questa capacità d’autorganizzazione del lavoro che è il presupposto del comune dipende da due fattori strettamente legati e sistematicamente evacuati dalle teorie dei beni comuni:

a)              dai meccanismi di regolazione della moneta e di accesso ad un reddito in grado di rafforzare oppure di attenuare il vincolo monetario al rapporto salariale, condizionando la possibilità di sviluppare forme di cooperazione produttiva alternative al lavoro salariato.

b)             dalla natura dei rapporti antagonisti di sapere e di potere che strutturano, in un dato momento, il livello di sviluppo della divisione del lavoro e le modalità della sussunzione del lavoro al capitale (formale, reale, general intellect).

2. Marx critico di Proudhon: prima polemica sulla moneta del comune

Alcuni di questi elementi metodologici che consistono nell’articolare la moneta con la divisione del lavoro si trovavano già nelle critiche che Karl Marx rivolgeva alla proposta di Proudhon di creare una moneta di credito gratuita formulata in ore di lavoro. La riforma di Proudhon aveva l’ambizione d’indebolire i rapporti di produzione dominanti, aumentando il finanziamento della produzione mercantile artigianale. L’emissione di moneta-lavoro da parte di una Banca popolare volgeva infatti nella direzione di attribuire immediatamente al lavoro del produttore individuale la sua qualità di lavoro sociale. Il fatto è che Proudhon ed i suoi discepoli deploravano il privilegio che i metalli preziosi possedevano nella circolazione delle merci. Erano convinti che i tassi d’interesse elevati, in particolare in periodo di crisi, non fossero dovuti che ad una specie di monopolio dei detentori di denaro metallico sui mezzi di pagamento della società. Permettendo al produttore di scambiare direttamente il prodotto del suo lavoro contro il suo equivalente monetario espresso in ore di lavoro, si sarebbero abolite le pretese dei detentori di moneta, fino a che il tasso d’interesse non fosse crollato fino allo zero. Non si trattava dunque solamente di realizzare l’eutanasia del rentier, come per Keynes, ma di permettere al produttore di riscuotere l’integralità del prodotto del suo lavoro sotto forma di buoni di scambio. Così, lavoro e moneta del Comune sarebbero stati una cosa sola, poiché tutti i prodotti del lavoro privato avrebbero fatto vece di moneta.

In realtà, la riforma immaginata da Proudhon poggiava su di un modo di produzione mercantile semplice, allorquando il progresso della divisione del lavoro e l’estensione del modo capitalistico di produzione tendevano a marginalizzarla (Dardot e Laval, 2012). Così, l’introduzione del credito gratuito avanzato in moneta-lavoro non avrebbe potuto concernere che una piccola frazione di popolazione attiva, che si sarebbe riprodotta ai margini dell’egemonia crescente della produzione capitalistica. La riforma lasciava completamente intatto il fondamento del potere monetario del capitale sul lavoro, ovvero la logica sistemica attraverso la quale il lavoro è obbligato a «mettere in vendita, come merce, la sua stessa forza-lavoro, che esiste soltanto nella sua corporeità vivente» (Marx, 1994, vol. I, p. 201). In questo quadro, il progetto mutualista del credito gratuito avrebbe piuttosto rischiato di spianare la strada ad operazioni di recupero e di divisione politica, come quella preconizzata da Napoleone III al momento dell’instaurazione delle casse di risparmio popolare (Lucarelli, 2013).

Per di più, secondo Marx, nella misura in cui l’emissione di una moneta-lavoro tornava a conferire a tutte le merci qualità di moneta, essa negava ben più del potere finanziario che risultava dal monopolio dei metalli preziosi e da quello del capitale sul lavoro dell’operaio: negava l’essenza stessa della moneta. Perché che cos’è la moneta, se non il rappresentante oggettivo del valore e quindi del tempo di lavoro sociale coagulato nella merce? Se gli individui scambiano i prodotti del loro lavoro contro moneta, ciò avviene proprio perché essi non producono immediatamente del lavoro sociale. Perciò, nelle condizioni della produzione mercantile, la qualità del lavoro sociale s’incarna necessariamente in una forma oggettiva di lavoro, merce o moneta.

Ora, non soltanto una moneta misurata in ore di lavoro sopprime la differenza – immanente all’economia di mercato – tra prezzo e valore, e dunque suppone un equilibrio tra offerta e domanda, tra produzione e consumo. Non soltanto, diversamente dalla moneta classica, essa ignora lo sviluppo della produttività del lavoro che farebbe sì che si apprezzasse costantemente il suo potere d’acquisto e che continuamente si appesantirebbero gli oneri finanziari dei debitori. Essa nega, più fondamentalmente, il carattere particolare dell’organizzazione del lavoro sociale nella produzione mercantile, nella quale il lavoro non si scambia mai direttamente con il lavoro, ma dove le attività produttive si combinano tra di esse indirettamente attraverso lo scambio dei prodotti del lavoro come merci, e accedono così all’esistenza del lavoro sociale (Marx, 1980).

É in questo senso che Marx qualificava come utopica una riforma che tentasse d’abolire i caratteri fondamentali della produzione mercantile, mentre conservava la forma di scambio corrispondente a questo modo di produzione. Questa riforma consisteva infatti nell’evitare gli inconvenienti di un modo di produzione basato sullo scambio monetario, semplicemente modificando lo strumento di scambio e l’unità di misura delle merci. A questo punto, la riforma avrebbe toccato solo una frazione poco considerevole della produzione sociale e ne avrebbero beneficiato solo un piccolo numero di produttori indipendenti; inoltre la Banca si sarebbe interposta nei loro mutui scambi comprando e vendendo i loro prodotti contro moneta-lavoro. Oppure la riforma avrebbe riguardato la totalità degli scambi sociali, nel qual caso essa avrebbe necessitato di una trasformazione subitanea dei rapporti di produzione esistenti. «Se ogni trasformazione in tal senso della circolazione stessa presupponesse a sua volta trasformazioni delle altre condizioni di produzione e rivolgimenti sociali, crollerebbe naturalmente a priori questa dottrina, le cui artificiose proposte in materia di circolazione mirano da un lato ad evitare il carattere violento delle trasformazioni, dall’altro a fare di queste trasformazioni stesse non un presupposto, ma viceversa un risultato graduale della trasformazione della circolazione» (K. Marx, 1968, vol. I, p. 52). In realtà, una riforma monetaria di questo tipo farebbe della banca il compratore ed il venditore universali delle merci prodotte. Attraverso la sua politica d’emissione, sarebbe la banca, infatti, che deciderebbe a quali prodotti del lavoro attribuire la qualità di lavoro sociale, funzione che equivarrebbe a controllare la produzione stessa che sta all’origine di tali beni. Essa sarebbe così, come un gosplan, «il governo dispotico della produzione e l’amministratrice della distribuzione» (K. Marx, 1968, vol. I, p. 95).

Per tornare alla moneta del Comune, essa si distinguerebbe dai buoni di lavoro dei proudhoniani, circolando all’interno non di una comunità di produttori indipendenti, ma di una comunità di produttori che lavorano per cooperazione. In queste condizioni la sua emissione non potrebbe sconvolgere tanto i rapporti di produzione attuali, quanto velocizzare le mutazioni che intervengono nel quadro stesso di questi rapporti di produzione. In più, in quanto politica, cioè a dire in quanto azione cosciente e deliberata, l’emissione di una moneta del Comune significherebbe che la società tende a non sottomettersi più alla produzione sociale come fatalità estranea e indipendente dagli individui (fatalità che si manifesta con forza in particolare nelle crisi), ma al contrario tende a subordinare la produzione agli «individui e da essi controllata come loro patrimonio comune» (K. Marx, 1968, vol. I, p. 100). Tuttavia questo rovesciamento dei rapporti sconvolgerebbe la natura stessa delle istituzioni bancarie della società. In queste condizioni, infatti, la moneta del Comune non sarebbe più che una unità di conto emessa da un «ministero del bilancio della società lavoratrice collettiva» (K. Marx, 1968, vol. I, p. 95) e perderebbe la sua qualità monetaria di rappresentante universale del valore delle merci. In queste condizioni, l’auspicio di Proudhon sarebbe esaudito poiché il lavoro stesso diverrebbe moneta universale, ma a condizione che sia «fin dal principio non lavoro particolare, ma un lavoro generale», cioè a dire, che fosse posto «come un elemento della produzione generale» (K. Marx, 1968, vol. I, p. 116).

In breve, la critica marxiana al progetto proudhoniano, come lo dimostrerà anche il suo atteggiamento nei confronti della Comune di Parigi, non tiene ad un’opposizione statalista e centralizzatrice verso le forme mutualiste d’organizzazione, ma al pericolo che avrebbe costituito il loro incastro subalterno nelle logiche dominanti del capitale e dello Stato.

La questione cruciale per Marx stava nella maniera in cui, a differenza di un modo di produzione mercantile semplice in cui la moneta è un puro mezzo di scambio, il capitalismo costringe il lavoro nelle istituzioni di un’economia monetaria di produzione.

La logica del funzionamento del capitalismo è, infatti, molto diversa da quella incarnata dalla formula merce-denaro-merce (M-D-M) alla quale implicitamente rinvia il progetto di Proudhon. Certo, il circuito M-D-M continua a giocare un ruolo cruciale nella riproduzione allargata delle condizioni economiche e sociali dell’accumulazione del capitale. Il suo ruolo però non ha più nulla a che vedere con la figura del produttore indipendente, ma riguarda essenzialmente il circuito della riproduzione della forza lavoro, dove per M-D-M’ bisogna intendere la sequenza forza lavoro-salario-beni di consumo. In questo quadro, la riproduzione della forza lavoro è subordinata, tanto nella sua forma economica quanto nella sua esistenza concreta, alla formula generale del capitale (D-M-D’).

Di questa controversia tra Marx e Proudhon possiamo trarre ancora oggi un insegnamento importante. Solo partendo dall’asimmetria monetaria che costituisce il rapporto salariale, asimmetria dove la legge del valore non è altro che una variabile dipendente della legge del plusvalore, sarà allora possibile concepire l’idea di una moneta del comune: una moneta che non riposa sull’utopia dell’uguaglianza dei lavori privati, ma sulla messa in causa del vincolo monetario che a livello sociale definisce, nel senso di Marx, la sussunzione formale della forza lavoro al capitale e la norma del rapporto salariale.

3.              Dalla teoria del circuito alla problematica del comune

Il contributo della teoria del circuito permette di rinviare il rapporto capitale-lavoro all’asimmetria che oppone due classi sociali nelle condizioni del loro accesso alla moneta[5].

Da una parte, la classe dei capitalisti che, grazie alla proprietà dei mezzi di produzione e al controllo dei meccanismi della creazione monetaria, può accedere alla moneta indipendentemente dal suo lavoro e determinare il volume così come l’orientamento della produzione. Nel senso di Kaldor e Kalecki, questa classe guadagna ciò che spende e può controllare, di conseguenza, collettivamente, i meccanismi del suo indebitamento. Dall’altra parte, per accedere alla moneta e dunque ad un reddito, la classe dei salariati è costretta a vendere la sua forza-lavoro e a trovare un lavoro salariato presso la classe dei capitalisti. Essa dunque non spende che ciò che guadagna, e questo rapporto al reddito determina i limiti del suo accesso al credito e al consumo. Questo rapporto spiega anche il raddoppiarsi del potere del capitale sul lavoro che risulta dall’indebitamento salariale, anche nel caso di un’attenuazione speculativa delle condizioni d’accesso al credito di tipo subprime.

Notiamo che, da questo punto di vista, il principale “salto mortale” della merce è quello che deve operare la forza lavoro. Essendo costretta nel circuito del doppio mulinello la sequenza M-D (vendita della forza lavoroàsalario) da cui dipende l’accesso alla moneta della forza lavoro è, in prima istanza, una variabile che dipende dalle aspettative dei capitalisti riguardo al volume della produzione, e dunque dall’occupazione, ritenuti redditizi.

Ne risulta, da questo rapporto specifico all’economia monetaria di produzione, che la funzione di riserva di valore domina le condizioni della circolazione monetaria. Questa permette l’instaurazione della logica del plusvalore, in cui «la circolazione del denaro considerata come capitale è fine a se stessa» (K. Marx, 1994, Vol. I, 1994, p. 185). Come espresso chiaramente dalla formula generale del capitale di Marx (D-M-D’), la valorizzazione del capitale è un processo che non conosce limiti, nella misura in cui il suo obiettivo non è il valore d’uso, ma l’accumulazione della ricchezza astratta rappresentata dal denaro.

La merce e la produzione non sono, per il capitale, che dei semplici mezzi per raggiungere questo scopo, vale a dire l’accumulazione della moneta per se stessa, al fine d’aumentare senza sosta il potere di comando che la moneta gli conferisce sulla società e sul lavoro permettendogli, appunto, di appropriarsi in modo diretto o indiretto del plusvalore.

Va da sé che la riproduzione allargata del capitale deve fronteggiare un insieme di vincoli mercantili che pesano sullo sviluppo della produzione sociale. A dire il vero, il capitalismo ha sempre cercato, per mezzo del suo sistema di moneta e di credito, di oltrepassare i limiti che la legge del valore impone alla produzione del plusvalore. Già la lettera di cambio, autorizzando il trasferimento della merce nelle mani del compratore prima del suo regolamento effettivo in denaro, fu la molla principale di tutte le grandi crisi che hanno scosso l’industria inglese durante la prima parte del XIX° secolo. Ma è soprattutto dalla fine del sistema del tallone oro, che l’emissione monetaria non è più condizionata dall’ammontare delle riserve metalliche disponibili nelle casseforti delle Banche centrali e sembra dipendere interamente dalla domanda di credito del capitale. Ora, la creazione monetaria sotto forma di depositi a disposizione dei capitalisti consiste di fatto a prevalidare (de Brunhoff, 1979) una produzione futura, ma a condizione della chiusura del circuito monetario, il quale suppone esso stesso che il plusvalore prodotto sia veramente stato realizzato. Senza dubbio, la moneta è stata creata ex nihilo come equivalente di merci virtuali, ma essa non prova la sua esistenza d’equivalente generale, se non per mezzo della vendita effettiva delle merci prodotte. Si tratta certamente di una moneta endogena, ma nella misura in cui la sua creazione dipende dalla realizzazione del plusvalore, la moneta bancaria è endogena al capitale. Attraverso il monopolio della creazione monetaria, il capitale, come formulato da Robinson e Eatwell, «diventa padrone di risorse grazie alle quali i capitalisti diventano i padroni del lavoro» (Robinson e Eatwell, 1976, p. 21).

Così, il potere di controllo sulla creazione monetaria è, in ultima istanza, il fattore chiave che conferisce il potere sul lavoro e struttura i rapporti sociali, e questo non solo perché esso conduce alla proprietà dei mezzi di produzione, cioè a questo «dominium sulle cose [che] è anche un imperium sugli esseri umani» (Cohen 1927, p. 12. Citato da Gagnon 2011, p. 205). Si tratta anche e soprattutto del fatto che il dominium sulla moneta condensa e sintetizza questo potere (imperium) senza dover neppure passare attraverso la mediazione formale della proprietà delle cose. E questa essenza del potere della moneta trova il suo sviluppo concreto più ricco, diventa verità pratica, come direbbe Marx, nella congiuntura storica attuale, dove il potere della finanza va di pari passo con una smaterializzazione crescente dei mezzi di produzione sempre più incarnati nel corpo vivo della forza lavoro, cosa che – attraverso un autentico ossimoro – viene chiamato il capitale immateriale o intellettuale.

Benché le teorie del circuito mettano in evidenza l’asimmetria monetaria che struttura la riproduzione del capitalismo, esse tendono a privilegiare una visione statica e oggettivista dei vincoli monetari e mercantiliche condizionano la chiusura del circuito. Da una parte, i vincoli che pesano sulla realizzazione del plusvalore per ciò che concerne l’accumulazione del capitale; dall’altra, i vincoli che pesano sulla trasformazione della forza lavoro in salario, trasformazione la cui realizzazione è una variabile dipendente delle aspettative dei capitalisti riguardo al volume dell’occupazione redditizio. Rari sono tuttavia i contributi che hanno posto l’attenzione sulla maniera in cui l’immissione monetaria che dà impulso al circuito sia, in realtà, la prevalidazione di una serie di merci che deve ancora essere prodotta e, pertanto, di un plusvalore che non è ancora stato estratto.

Ora, solo l’introduzione di questo aspetto ci può condurre ad una visione dinamica, in grado di cogliere allo stesso tempo le mutazioni storiche della divisione del lavoro e delle forme del vincolo al rapporto salariale, da cui dipende la possibilità del comune. Infatti, l’acquisto e la vendita della forza lavoro si fonda sulla messa a disposizione di una quantità di tempo in cui il lavoratore si mette formalmente a disposizione del capitalista, e non sul lavoro effettivo dei salariati.

Ne deriva per il capitale un’incertezza strutturale che non riguarda solamente le condizioni dell’esecuzione del contratto di lavoro, ma fondamentalmente mette in evidenza terreno conflittuale dove le dimensioni economica e socio-politica dell’antagonismo capitale-lavoro sono indissociabili. In primo luogo, perché coloro che controllano e dettano i modi operatori possono anche determinare l’intensità e la qualità del lavoro. In secondo luogo, perché coloro che detengono i saperi produttivi possono aspirare a gestire la produzione, vale a dire ad autodeterminare l’organizzazione così come le finalità sociali del lavoro, ricostituendo la possibilità del comune come modo di produzione. Intendiamo, con ciò, un modo di cooperazione che reintroduce la democrazia in seno alla produzione, in opposizione con il principio gerarchico che caratterizza tanto l’azienda capitalista, quanto la logica burocratica del pubblico. Più precisamente, estendendo all’insieme dei beni la bella definizione che Benkler utilizza per i beni comuni informazionali, «la produzione si basa su dei beni comuni quando nessuno esercita dei diritti esclusivi per organizzare il lavoro e appropriarsi del valore creato, e quando la cooperazione si realizza attraverso dei meccanismi sociali altri rispetto ai prezzi e alle direttive del management» (Benkler, 2004, p. 1110).

L’importanza di questa dinamica conflittuale relativa al controllo delle potenze intellettuali della produzione spiega perché lo sviluppo della divisione capitalista del lavoro, in seguito alla prima rivoluzione industriale, abbia consistito nel tentativo di svuotare, il più possibile, il lavoro dalla sua dimensione cognitiva, per trasformarlo nel suo contrario: un’attività meccanica, ripetitiva, impersonale e totalmente asservita alla scienza incorporata nel capitale fisso. É così che nello sviluppo del capitalismo industriale, la sussunzione formale si combina con la la logica della sussunzione reale del lavoro al capitale: essa punta non solo a ridurre l’incertezza sull’esecuzione del contratto di lavoro, ma soprattutto a rendere inconcepibile per la forza lavoro l’idea stessa del comune nella produzione (come prodotto della cooperazione volontaria della forza lavoro), in ragione, in particolare, del carattere ormai inappropriabile, come l’aveva un tempo pensato Gorz, « della massa dei saperi, necessariamente specializzata, che combina la produzione sociale » (Gorz, 1988).

Tuttavia, questa tendenza, che ha trovato per vari aspetti il suo completamento storico nel modello della grande impresa manageriale all’epoca dell’economia mista, rimarrà sempre imperfetta. Inoltre, un nuovo tipo di sapere tenderà in modo incessante a ricostituirsi al livello più elevato dello sviluppo della divisione tecnica e sociale del lavoro. Nella congiuntura storica che ha condotto alla crisi del fordismo, questa dinamica si è espressa attraverso i conflitti che hanno condotto alla formazione di un’intellettualità diffusa e allo sviluppo dei servizi collettivi del Welfare-State (sanità, educazione, ricerca) al di là delle compatibilità della regolazione fordista (Monnier e Vercellone, 2010). Le condizioni alla base dello sviluppo di un’economia fondata sul ruolo motore e la diffusione del sapere sono così state poste, secondo una dinamica che sembra realizzare numerose tendenze contenute nell’ipotesi marxiana del general intellect[6].

Ora, l’instaurazione di un’economia fondata sulla conoscenza precede e si oppone, tanto da un punto di vista logico quanto storico, alla formazione del capitalismo cognitivo e finanziarizzato. Ques’ultimo è il risultato di un processo di ristrutturazione attraverso il quale il capitale tenta, in modo parassitario, di assorbire e di sottomettere alla sua logica le condizioni collettive della produzione dei saperi, soffocando il potenziale di emancipazione iscritto nella società del general intellect. In questo quadro, la posta in gioco centrale della valorizzazione del capitale e delle forme di proprietà si fonda sempre più sull’espropriazione (rentière) del comune e sulla trasformazione della conoscenza in una merce fittizia (Negri e Vercellone, 2008).

É così che nel nuovo capitalismo la dimensione monetaria del rapporto di subordinazione del lavoro al capitale diviene tanto più vera e cruciale che la crescita in potenza della dimensione cognitiva del lavoro permette alla cooperazione produttiva di organizzarsi in modo autonomo rispetto alla direzione del capitalista. Certo, niente garantisce il passaggio dell’autonomia potenziale all’autonomia reale della forza lavoro. Tuttavia, sul piano del processo lavorativo sociale, la sussunzione del lavoro al capitale ridiventa principalmente formale. In modo significativo, essa va di pari passo con un formidabile rafforzamento del vincolo monetario al rapporto salariale, realizzato in particolare attraverso la destabilizzazione delle garanzie del Welfare ed attraverso una precarizzazione crescente delle condizioni di remunerazione e di impiego. Allo stesso tempo, tutto avviene come se al movimento di autonomizzazione della cooperazione del lavoro corrispondesse un movimento parallelo di autonomizzazione del capitale nella forma astratta, eminentemente flessibile e mobile del capitale-denaro. Il potere del capitale sulla società sembra riposare sempre più sul controllo dei meccanismi monetari e finanziari, e ciò spesso senza più esercitare alcuna funzione reale necessaria all’organizzazione del processo di produzione.

É a questo livello di sviluppo della divisione del lavoro, nel quale l’emergere di un’intelligenza collettiva va di pari passo con il rafforzamento del vincolo monetario al rapporto salariale, che si pongono oggi le condizioni per pensare il comune.

4.              Il reddito sociale garantito come reddito primario e istituzione del comune 

Dall’analisi delle asimmetrie che strutturano il capitalismo come economia monetaria della produzione, ci è possibile delineare la posta in gioco principale di ciò che dovrebbe essere una moneta del comune: una moneta endogena alla riproduzione della forza lavoro perché attenuerebbe il vincolo monetario al rapporto salariale, assicurando allo stesso tempo la validazione sociale delle ricchezze prodotte da forme di produzione e di soddisfacimento dei bisogni alternativi ai rapporti mercantili.

Notiamo che, prima della svolta monetarista e dell’instaurazione delle autonomie delle banche centrali, la regolazione amministrata keynesiana dell’offerta di moneta aveva permesso, sotto forma di un compromesso istituzionalizzato, lo sbocciare di alcune di queste dimensioni. In particolare, il legame tra Banca Centrale e Tesoro pubblico aveva autorizzato una monetizzazione dei conflitti sociali, favorito il finanziamento del salario socializzato e dei servizi collettivi del Welfare (Chesnais, 2011, p.31)[7].

Si tratta senza dubbio di una delle ragioni che spiega perché la resistenza allo smantellamento del pubblico sia tanto il terreno di nostalgie stataliste quanto uno dei terreni fondamentali di elaborazione della problematica del comune (Negri, 2012).

In questo quadro, la proposta di un reddito sociale garantito incondizionato ed indipendente dal lavoro salariato è quella che ci sembra maggiormente incarnare una nuova tappa di socializzazione dell’economia. Essa s’iscrive in un progetto di società e di demercantilizzazione dell’economia in cui il rafforzamento dei diritti collettivi legati al sistema di protezione sociale (pensioni, sanità, sussidio disoccupazione, ecc.) andrebbe di pari passo con il passaggio da un modello di Welfare-State ad un modello di commonfare.

In effetti, analogamente alla tematica del comune, la riflessione attorno alla proposta di un reddito sociale garantito (RSG)[8] attraversa sempre più il dibattito sulle alternative alla crisi del capitalismo cognitivo e finanziarizzato. Tuttavia, la maggior parte delle formulazioni del RSG restano ancorate ad una concezione che ne fa un reddito secondario relativo alla redistribuzione ed alla gestione statuale classica dello Stato-provvidenza[9].

Nel nostro approccio, il RSG deve, al contrario, allo stesso tempo essere pensato come una istituzione del comune ed un reddito primario per gli individui, vale a dire un reddito che risulta direttamente dalla produzione e non dalla redistribuzione. Queste due dimensioni, reddito primario e istituzione del comune, sono peraltro strettamente intrecciate tanto sul piano dell’organizzazione della produzione, quanto su quello dello statuto della moneta e del modo di distribuzione.

Un reddito primario dunque, perché la proposta del RSG riposa su di un riesame ed un’estensione del concetto di lavoro produttivo che si tratta di prendere in considerazione alla luce di due dimensioni[10].

La prima concepisce il lavoro produttivo, secondo la tradizione dominante nell’economia politica, come il lavoro che produce del valore e del plusvalore. Si tratta qui della constatazione secondo cui assistiamo, oggi, ad un’estensione importante dei tempi di lavoro, al di fuori della giornata ufficiale di lavoro, che sono direttamente o indirettamente implicati nella formazione del valore captato dalle imprese. A questo proposito, il RSG corrisponderebbe, in parte, alla remunerazione sociale di questa dimensione sempre più collettiva di un’attività creatrice di valore, che si estende sull’insieme dei tempi sociali, dando luogo ad un’enorme massa di lavoro non riconosciuta e non retribuita. E’, peraltro, importante notare come questo aumento del lavoro non pagato si apparenti, in forme inedite, con un aumento del plusvalore assoluto che risulta dalla combinazione di due tendenze maggiori. Da una parte, proviene dalla maniera stessa in cui la pressione congiunta della precarietà e delle nuove forme di management della soggettività enfatizza, a vantaggio delle imprese, un tratto intrinseco del lavoro cognitivo: quello di essere un’attività di produzione, di riflessione e di scambio di saperi che si svolge tanto fuori quanto durante l’orario contrattuale di lavoro. D’altra parte, proviene anche dal ruolo crescente del lavoro del consumatore e specialmente dall’appropriazione privata del lavoro gratuito effettuato da una moltitudine d’individui sulle reti del Web. Il capitale, attraverso soprattutto un piccolo numero di grandi imprese americane, è in realtà arrivato a controllare una gran parte dell’infrastruttura materiale ed immateriale di internet (Baronian, 2011), espropriando questo spazio del comune e trasformando in merci le creazioni e le identità numeriche degli utilizzatori.

Contro la tradizione della teoria economica, per contro, la seconda dimensione rinvia al lavoro produttivo concepito come lavoro produttore di valori d’uso, fonte di una ricchezza che sfugge alla logica mercantile e a quella del lavoro salariato subordinato. In questa prospettiva, il RSG corrisponderebbe simultaneamente alla validazione sociale e ad un mezzo di finanziamento di questa rete densa di attività non mercantili che la società del General Intellect crea, al di là del salariato. Si tratta, insomma, di rompere con l’identificazione storica abusiva che il capitalismo ha stabilito tra lavoro e lavoro-salariato e, con essa, tra lavoro salariato e diritto al reddito. Detto altrimenti, si tratta di affermare che il lavoro può essere improduttivo di capitale, ma ciononostante produttivo di ricchezze non mercantili e perciò, trovare la sua contropartita in un reddito. Questo è peraltro il caso, da un punto di vista strettamente teorico, per le attività realizzate in seno ai servizi pubblici che producono ricchezza e non valore. Il carattere incondizionato del RSG si distingue, tuttavia, in modo radicale, dal salario versato agli impiegati di questi servizi, perché non si fonda né su di un lavoro dipendente, né tantomeno implica da parte dei beneficiari una qualunque dimostrazione di utilità sociale della loro attività. Anche in questo senso, il RSG non attiene alla sfera pubblica, quella della «burocrazia professionale» e del coordinamento amministrativo, ma al comune. Esso presuppone un’attività creatrice di ricchezze ed una cooperazione produttiva che si sviluppa a monte ed in modo autonomo rispetto alle logiche amministrative e del privato, anche quando le attraversa e contribuisce alla loro riproduzione.

Esiste, infatti, un rapporto complesso, fatto allo stesso di tempo di antagonismo e di complementarietà, tra queste due forme di lavoro produttivo. Nel capitalismo cognitivo, l’espansione del lavoro libero che produce il comune, va infatti spesso di pari passo con la sua subordinazione al lavoro sociale produttore di valore, in ragione stessa delle tendenze che spingono verso uno sfumarsi della separazione tra lavoro e non lavoro, sfera della produzione e sfera della riproduzione.

L’instaurazione di un RSG, non solo riconoscerebbe questa seconda dimensione del lavoro produttivo, ma soprattutto favorirebbe la sua emancipazione dalla sfera della produzione del valore e del plusvalore. In quest’ottica, l’attenuamento del vincolo al rapporto salariale consentito dal RSG, più ancora che una riduzione del tempo legale di lavoro, permetterebbe agli individui di ritrovare il controllo del loro tempo e la gestione delle attività che non hanno altra finalità che in se stesse. Costituirebbe così un vero investimento sociale e una liberazione di energie creative per assicurare, per esempio, la riproduzione dei comuni informazionali e della conoscenza, di cui lo sviluppo è stato sensibilmente ostacolato dalla mancanza di tempo di cui sono affetti i lavoratori cognitivi (Aigrain, 2008).

Il RSG si presenta così su più punti come un’istituzione del comune al servizio del comune. Prima di tutto, perché il RSG non attiene alla sfera pubblica ma corrisponde « in fin dei conti, alla messa in comune di una parte di ciò che è prodotto in comune, deliberatamente o no » (Gorz, 2003, p.101) e ciò, al di fuori di ogni logica contributiva che cercherebbe un rapporto di misura e proporzionalità tra sforzo individuale e diritto al reddito. In questa prospettiva, seguendo la tradizione mutualista all’origine del sistema di protezione sociale in Francia, le risorse raccolte per finanziare il RSG potrebbero essere messe in una cassa comune gestita direttamente dai lavoratori.

In secondo luogo, il RSG, in quanto reddito primario, presuppone e rilancia lo sviluppo del comune stesso. Lo rilancia nella misura in cui favorirebbe l’esodo dal lavoro salariato e lo sviluppo di forme di cooperazione fondate su regole di coordinazione distinte da quelle del pubblico e del mercato. Lo presuppone nella misura in cui la sua instaurazione implica dei meccanismi di risocializzazione della moneta e dei redditi che rendono la riproduzione della forza lavoro indipendente dalla circolazione del denaro in quanto capitale[11].

Conclusione

In quanto prodotto dello scambio delle merci, la moneta è l’espressione di un rapporto sociale tra produttori privati indipendenti, individui, comunità e imprese capitaliste. Qualsiasi sia dunque la forma e le condizioni di circolazione della moneta, la sua presenza significa che l’attività dei produttori acquisisce il suo carattere di lavoro sociale in modo indiretto, per mezzo dello scambio dei prodotti del lavoro come merci. É possibile che una forma monetaria attenui alcuni dei vincoli posti dalla produzione capitalista, ma le contraddizioni che la moneta del comune vuole superare sono destinate a rinascere in un modo o nell’altro, e ciò fintanto che le trasformazioni del modo di produzione attuale saranno limitate alla sfera della circolazione. Tali trasformazioni, tuttavia, potrebbero accelerare ed orientare le mutazioni in corso del lavoro sociale, favorendo l’attenuamento del vincolo al rapporto salariale ed un’articolazione altra tra comune, pubblico e privato. In questo senso, in due modi almeno, la proposta del RSG si smarca dall’ipotesi proudhoniana del credito gratuito.

In primo luogo, il RSG va al di là della semplice prospettiva di una democratizzazione del credito, per pensare la moneta del comune come uno strumento che può attenuare, per l’insieme della forza lavoro, il vincolo al rapporto salariale. Esso non si attacca, infatti, al salto mortale della merce, ma a quello della forza lavoro, per rompere il circolo vizioso che fa della sua vendita la condizione di accesso al reddito. Certo, attenuando il vincolo al rapporto salariale, il RSG può anche giocare il ruolo di una sorta di forma di credito gratuito che permetterebbe di democratizzare l’economia di mercato, offrendo più autonomia alla produzione mercantile semplice rispetto al capitale. Ma è soltanto in un modo accessorio che la garanzia di un reddito sufficiente può ugualmente favorire l’accesso allo statuto di produttore privato indipendente. Il suo primo ruolo è quello di sostenere, non il produttore individuale e la sua merce, ma l’intellettualità diffusa nella sua attività collettiva di produzione non mercantile.

In secondo luogo, il credito, anche quando è attribuito gratuitamente, implica una doppia condizionalità, portatrice di un rapporto di dipendenza: quella legata all’esame stesso della viabilità mercantile del progetto produttivo che è l’oggetto di una domanda di credito, e quella legata all’estinzione successiva del debito prodotto dalla creazione iniziale di moneta. Il RSG rompe questa logica di dipendenza legata al credito e al debito, perché il suo carattere incondizionato è anche il mezzo per assicurare l’autonomia delle attività che partecipano alla costruzione sociale del comune.

 

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[1] Per una presentazione molto chiarificante dei lavori di Ostrom e di Hess sui comuni fondiari ed informazionali, cf. anche Coriat (2011).

[2] Su questa base, la moneta viene considerata come un bene rivale, ma non escludibile, al quale possono essere applicati gli otto principi di governance definiti da Ostrom per i comuni fondiari (Cornu, 2012)

[3] Con questa espressione facciamo riferimento in particolare alla problematica elaborata nel quadro del seminario « Du public au commun » http://dupublicaucommun.com/presentation-du-projet/.

[4] Il contrario è altrettanto vero, cioè che nessun valore d’uso sfugge in quanto tale alla sfera della produzione mercantile e del profitto, come mostrato dalla presa crescente che il capitale esercita su tutta una serie di beni pubblici, come per esempio la conoscenza. Su questo aspetto, cf. anche il contributo di Harribey (2011).

[5] La teoria del circuito è un prolungamento dell’approccio in termini di economia monetaria della produzione. La sua genesi risale a Karl Marx e fa della moneta il primum movens della produzione capitalista delle merci. Sviluppando questa concezione, lo stesso Keynes, nei suoi scritti preparatori alla Teoria Generale, farà esplicitamente riferimento alla distinzione marxiana tra la logica di un’economia mercantile semplice fondata sul circuito M-D-M e la logica di un’economia capitalista fondata, questa, sulla formula generale del capitale D-M-D’. Così, come ricordato da Devillers (1985), in uno dei rari passaggi dove cita Marx, Keynes afferma che in una « Economia Monetaria della produzione », il punto di vista delle imprese è espresso dal circuito D-M-D’ (denaro-merce-denaro). Il circuito si apre con un’immissione di moneta da parte delle imprese per distribuire i salari o comprare materie prime, allo scopo di realizzare un profitto monetario, grazie alla vendita delle merci. Esso si chiude quando la moneta fa ritorno alle imprese, sia attraverso l’impiego del reddito per l’acquisto di beni di consumo, sia in contropartita dell’investimento. Questa visione, che costituisce anche il fondamento del principio della domanda effettiva, sarà oggetto di un importante tentativo di sistematizzazione e di formalizzazione teorica a partire dagli anni Settanta, con la formazione della teoria del circuito, mettendo in particolare l’accento sul ruolo motore della moneta di credito. Si sviluppa grazie all’impulso di due correnti principali : la prima, d’ispirazione perlopiù keynesiana e post-keynesiana (Schmitt, Parguez, Poulon, Lavoie) ; la seconda, dal fermo riferimento marxista (Graziani, Messori, Bellofiore). Per una messa in prospettiva storica e teorica di quest’ultima corrente, cf. Graziani (1994) e Realfonso (2006).

[6] Per una caratterizzazione approfondita del senso di questa categoria nel pensiero di K.Marx, cf Negri (1996), Baronian (2011) Vercellone (2007).

[7] Su questo punto, cf. anche le analisi anticipatrici di una problematica della moneta del comune sviluppate all’inizio degli anni Settanta da Christian Marazzi e Lapo Berti, nella rivista operaista « Primo Maggio » (Lucarelli, 2013).

[8] Declinata con diverse espressioni: reddito di base, allocazione universale, reddito di esistenza, reddito di cittadinanza, dividendo universale, ecc.

[9] Per uno sguardo sulla letteratura a questo proposito, cf. Vanderborght e Van Parijs (2005), Monnier et Vercellone (2007), Vercellone (2003)

[10] Cf. su questo punto Monnier e Vercellone (2007).

[11] Per una rassegna del dibattito sulle riforme suscettibili di condurre ad una risocializzazione della moneta, cf. Chesnais (2011), Lordon (2009), Vercellone (2013).

 

* Traduzione di Francesca Martinez Tagliavia. Si tratta di una versione leggermente modificata di un articolo che sarà pubblicato sulla rivista “Terrains/Théories” nell’autunno 2013.

La moneta (del) comune. Intervento di Stefano Lucarelli

Summer School: la moneta (del) comune, commenti a Christian Marazzi

di STEFANO LUCARELLI

Il tema della rendita e del biopotere è stato immediatamente declinato da Christian Marazzi come un problema che risponde a una domanda che credo si possa formulare nel modo seguente: di che moneta ha bisogno la soggettività costituente per non essere assoggettata?

I passaggi logici che vanno dai concetti di rendita e di biopotere fino ad una domanda del genere li do per scontati. Ricordo solo che quando ci riferiamo alla rendita lo facciamo a un certo livello dello sviluppo capitalistico – che abbiamo definito capitalismo cognitivo e finanziarizzato. Essa va dunque compresa tenendo conto del fenomeno del divenire rendita del profitto. Il biopotere è un’espressione presente in Foucault che chiama tutti in causa, poiché rinvia alla dicotomia soggettività/assoggettamento, quella dicotomia che caratterizza una forma della sovranità a questo stadio di sviluppo del capitalismo, che sempre Foucault ha chiamato governamentalità. Intendo qui la governamentalità come una peculiare evoluzione della sovranità che cerca di imbrigliare le soggettività, lasciando le briglie in talune circostanze, per valutare e conoscere la produttività, la creatività, che si può dare al di fuori delle forme tradizionali del comando, per poi ritirare le briglie. In tal senso la governamentalità partecipa di una certa forma di libertà, che presuppone che noi (in quanto soggettività costituenti) ci liberiamo da questa modalità di partecipazione ad una forma non autentica (cioè capitalistica poiché funzionale al regime di accumulazione contemporaneo) di libertà.

Di che moneta ha bisogno la soggettività costituente per non essere assoggettata, per non limitarsi ad una libertà non autentica? Ciò che qui è innanzitutto rilevante è che ci poniamo questa domanda in un momento in cui l’Europa monetaria va sgretolandosi a causa delle sue contraddizioni monetarie e istituzionali, o meglio istitutive, o ancora meglio biopolitiche. La stessa Banca Centrale Europea partecipa della governamentalità, la subisce. Di questo ha già parlato Christian Marazzi. Queste carenze istituzionali vanno analizzate in un particolare orizzonte, l’orizzonte dei movimenti sociali che dovrebbero sottrarsi a qualsiasi ripiego sovranista, nel pieno di un processo costitutivo che deve restare aperto. E che quindi comporta una comprensione cosciente della moneta innanzitutto, e della moneta, si è detto, come Comune. Dire moneta come Comune significa nominare un processo in divenire; pertanto siamo dinanzi ad una espressione che si accompagna a stati confusionali che dobbiamo fronteggiare.

Il punto di partenza che ho deciso di assumere per la comprensione della moneta è antico ma non per questo inutile: mi sono posto pertanto il problema dell’uso proprio e dell’uso improprio della moneta. Per questo voglio leggere e commentare un brano tratto dall’opera di Aristotele. Aristotele parte da una costatazione: la moneta sembra la ricchezza stessa. Se la moneta fosse effettivamente ricchezza sarebbe il più perfetto oggetto del desiderio. Ma la sua natura è di essere interamente legge.

«Infatti, il più delle volte si ritiene che la ricchezza consista in una quantità di moneta, giacché è la moneta ciò su cui sembra concentrarsi il commercio. E tuttavia, accade una buona volta che la moneta appaia invece come peculiare “nonsenso”, cioè come qualcosa la cui natura è di essere interamente legge – e non qualcosa che sorga da sé e in vista di sé -, dal momento che, quando coloro che ne fanno uso l’hanno effettivamente scambiata, essa non ha più alcun valore, e nemmeno è di una qualche utilità per le necessità della vita. E in effetti, un uomo ben provvisto di moneta può trovarsi a mancare degli alimenti a lui necessari. Ma sarebbe davvero assurdo che la ricchezza fosse tale che un uomo ben provvisto di essa si trovasse a morire di fame, come Mida nel mito: al quale, per via della sua ingorda preghiera, tutto ciò che gli veniva offerto si trasformava in oro.»[1]

Quindi moneta e legge hanno dei tratti comuni. Quali? Quali sono gli elementi specifici di una legge. Stiamo riferendoci alla legge in senso aristotelico, cioè a qualcosa che non può essere limitato alla sovranità intesa come imposizione di un certo comportamento ad una popolazione. Quando la moneta è usata in modo proprio, essa ha la stessa costitutiva inappropriabilità che è propria della legge. Se una legge non è semplicemente un comando volto a realizzare una coazione a ripetere, nessuno deve appropriarsene. Si potrebbe anche dire nel modo seguente: un processo costituente moltitudinario deve sempre lasciare aperti spazi di mediazione. Affinché la moneta non si muti in un dispositivo di assoggettamento essa deve mantenere una costitutiva inappropriabilità. La legge, proprio perché sempre inappropriabile, lascia aperto il desiderio persistente di farla propria. Qui sta il tratto del Comune, che è radicalmente altro dal gesto di imposizione. È possibile immaginare una moneta di questo tipo? Una moneta che lasci la soggettività libera dall’assoggettamento. Cioè, detto in altri termini, esiste la possibilità che la moneta non sia “denaro come capitale”, “denaro come comando monetario”? Il denaro, come ci insegna la lettura dei Grundrisse, «è la dimostrazione che il movimento del valore è pura precarietà, che la sua solidità è solo tendenziale e riesce solo a determinarsi nel continuo alternarsi fra medietà sociale del lavoro necessario e sua sovradeterminazione forzosa» (Antonio Negri, Marx oltre Marx, Feltrinelli, 1979, p. 51). Il denaro è qui ciò che la moneta non deve essere. Siamo di fronte ad un uso improprio della moneta, sebbene appropriato per la struttura capitalistica fondata sullo sfruttamento. Da uno sfruttamento che è costituito immediatamente dal modo in cui si convive con il denaro stesso. Cosa è la precarietà del valore? Esattamente la tensione riferita alla rendita sociale, su cui Christian Marazzi si è soffermato in conclusione del suo intervento. La precarietà del valore ci dà subito, immediatamente, al livello del denaro, l’immagine di un riconoscimento di una lotta per determinare ciò che è valore. Il riconoscimento comune di ciò che è valore comporta sempre la possibilità di un’appropriazione violenta (un’espropriazione), cioè il piegarsi alle esigenze della valorizzazione capitalistica. La solidità del denaro è solo tendenziale e riesce solo a determinarsi nel continuo alternarsi fra medietà sociale del lavoro necessario e sua sovradeterminazione forzosa. Il lavoro necessario non è semplicemente lavoro astratto che all’interno del processo produttivo viene imposto dal tipo di socializzazione capitalistica, dalla capacità di mettere in relazione i soggetti assoggettandoli, ma può essere riconosciuto come soggettività rivoluzionaria, come lavoro vivo che abbiamo imparato a non appiattire solamente all’interno delle mura della fabbrica a questo stadio del capitalismo. Dal lavoro vivo espresso come soggettività può partire una messa in discussione dei processi di valorizzazione capitalistici, anche del criterio di valore, quindi anche del denaro per riaffermare una diversa moneta.

Gli aspetti inaggirabili della moneta, nel suo uso proprio, quel suo partecipare alla costitutiva inappropriabilità e al desiderio persistente di farla propria che fa sì che la moneta e la legge siano considerate un tuttuno da Aristotele, andrebbero declinati secondo il metodo della tendenza antagonista. Ora il punto è che istituire una moneta comune che determina antagonismo, io credo che sia una contraddizione; ma non solo una contraddizione logica, proprio una contraddizione reale. Quindi stiamo procedendo bene: la contraddizione reale è porsi dinanzi al problema della moneta pretendendo di istituire una moneta comune che determini l’antagonismo. Proprio per questo, proprio perché la sfida delle soggettività, la sfida di una moltitudine è nell’istituzione di una moneta comune che determini un antagonismo, può aprire ad un processo istitutivo di una moneta che preservi l’antagonismo, quello che nell’epoca fordista era fossilizzato negli spazi di mediazione conquistati dalle lotte. Che tipo di spazi di mediazione possiamo aprire?

Su questo piano la moneta ha dei tratti comuni con il linguaggio, che nasce proprio dal desiderio di appropriarsi dell’interdetto e che comunque deve mantenere una libertà. Nel momento in cui il linguaggio viene fossilizzato ed imposto non è più un linguaggio, ma è un linguaggio di tipo orwelliano, rappresentato ottimamente nel film di Kubrick Arancia Meccanica. Il linguaggio del potere, la regola che blocca dinanzi alle possibilità creative.

A questo punto giunge la frattura: io non conosco delle pratiche rivoluzionarie, anche di fronte a questa crisi, che dal basso pretendano di costituire una moneta nel senso su indicato. L’immagine di una moneta che colga la sfida del metodo della tendenza antagonista è davvero difficile da rendere: una misura che mantenga in sé esplicitamente l’espressione di una dismisura che ogni volta va svelata, al di là delle pratiche sovrane presenti nel capitalismo. Vi è un suggerimento presente in Foucault, che rinvia a un saggio provocatorio di Klossowski, La moneta vivente, un testo su cui non ho però avuto modo di riflettere adeguatamente. Si tratta di un punto di vista che non funziona allo stesso modo della critica dell’economia politica, sebbene sia anch’esso critico della storia data. Credo che porre il problema di una moneta vivente voglia dire cercare di rappresentare – non certo nel senso politico­-istituzionale, ma quantomeno dal punto di vista estetico (della percezione sensoriale) – una moneta che rompa con l’uso capitalistico della moneta, che aspiri ad istituire una misura che serba in sé una dis-misura che ogni volta va svelata, e che non legittimi le pratiche sovrane dello sviluppo capitalistico.

Devo allora fermare il mio ragionamento al punto in cui sta il mio lavoro di economista. Presento dunque in questa sede un lavoro di ricerca al quale sto partecipando, e che è coordinato da Massimo Amato e Luca Fantacci, due studiosi dell’Università Bocconi per nulla bocconiani, i quali sono impegnati a Nantes nell’implementazione di una moneta che funzioni a partire dal principio del clearing. Si tratta di una moneta comune.

La domanda di partenza, la percezione del problema, è la stessa: cosa caratterizza il comando monetario? Il denaro, la moneta capitalistica, il comando monetario nel capitalismo cognitivo-finanziarizzato diremo noi, è improntato al principio della liquidità. Come scrive André Orléan, «il mondo della liquidità è un mondo artificiale, regolato dalle convenzioni. Esso istituisce una temporalità e delle forme di valutazione che rompono con i tempi produttivi e i vincoli della gestione delle imprese. […] Il capitale ha una natura contraddittoria. Esso è l’articolazione di due logiche specifiche, l’impresa e la speculazione. Per noi, la forma “mercato finanziario” non è allora una forma neutra. La liquidità esprime la volontà di autonomia e di dominio della finanza»[2]. Ecco ciò che è il principio della liquidità a questo stadio del capitalismo: un principio che ha guidato una struttura istituzionale in cui diviene centrale la compravendita dei debiti e dei crediti, dei privati e, poi, di conseguenza, degli Stati. Cosa accade se nel capitalismo diventa centrale il ruolo dei mercati finanziari, cioè se il risparmio collettivo è drenato dalle Borse? Accade che il finanziamento dell’economia si sposta dal settore bancario a quello borsistico. Ne deriva che, come ha ribadito Christian Marazzi nel suo intervento, la Banca Centrale si trova in qualche modo costretta ad assecondare la domanda di liquidità proveniente da posizioni debitorie via via crescenti. Il principio della liquidità amplia la gamma della creazione monetaria secondo le logiche dei mercati finanziari, logiche convenzionali in cui alle ondate di euforia seguono prolungati momenti di panico, nei quali – nel nome della liquidità – domina la tesaurizzazione. Oggi, anche grazie agli interventi paventati dal Governatore Centrale Mario Draghi, le convenzioni finanziarie si vanno riorganizzando mentre si consolida il divenire rendita – credo si possa dire così – degli stessi Stati nazionali. Infatti quando la possibilità di realizzare plusvalenze si fonda su una bolla del debito sovrano, si assiste alla completa etero-direzione della finanza pubblica nazionale. In questa dinamica la tecnocrazia è funzionale alle logiche finanziarie che scommettono su quei processi di riconoscimento della rendita sociale che partecipano della dismisura espressa dalle soggettività. La disgregazione dello Stato Sociale presente (ma soprattutto futuro) è la base su cui si fonda il rilancio della operatività dei mercati finanziari. Perché ho parlato di Stato Sociale futuro? L’operaismo ci ha insegnato che il welfare state, prima di degenerare nella lottizzazione legittimata dal sistema dei partiti e funzionale alla disgregazione delle rivendicazioni sociali più coscienti, è una struttura istituzionale che si afferma solo a partire dalle lotte di classe. In tal senso esso è anche il frutto di una capacità di immaginare un’altra società, di godere dunque di una rendita sociale. In questo processo costituente sta anche la necessità un’espansione monetaria necessaria a finanziare lo sviluppo sociale (parafrasando Schumpeter la moneta è qui il complemento di una particolare innovazione che non è prodotta dal sistema industriale, ma dalla società). Il rovesciamento di questa moneta in denaro, in comando monetario sulla composizione di classe (nella terminologia presente in Primo Maggio) è sempre possibile.

Contro il principio della liquidità si erge il principio del clearing, un principio chiaramente espresso da John Maynard Keynes a Bretton Woods nel 1944[3]. Christian Marazzi ha notato che la moneta del Comune non ha a che fare con la moneta comune. Tuttavia egli è approdato al termine del suo intervento ad una rilettura di Keynes in chiave rivoluzionaria, ad una nuova declinazione del keynesismo di cui abbiamo bisogno: un keynesismo che conduca ad investire nella cultura, nella socialità, nella sanità, nell’istruzione, cioè in un modello antropogenetico.

In ogni scritto di Keynes si può riscontrare un’innata pratica rivoluzionaria, una vera e propria potenza costituente, la stessa che si può riscontrare nelle sperimentazioni linguistiche di Virginia Woolf, negli atteggiamenti provocatori di Vanessa Bell, nelle picconate che Lytton Strachey riserva alla società vittoriana nelle sue biografie sugli Eminent Victorians… insomma Keynes è prima di tutto un Bloomsbury, e da omosessuale scandalizzerà lo stesso Bloomsbury group quando deciderà di sposarsi con una donna, la ballerina russa Lydia Lopokova.

La sua prima opera A Treatise on Probability è caratterizzata dall’idea che dinanzi all’incertezza ciò che conta non è tanto il calcolo delle probabilità in senso classico, ma il funzionamento degli effettivi processi cognitivi e di credenza associati all’uso dei concetti di causa e caso. La logica della probabilità è studiata da Keynes da un punto di vista pratico – direi del potere costituente della parola – è il punto di vista del discorso ordinario, non quello del linguaggio artificiale della logica formale. D’altro canto la stessa General Theory è una trappola teoretica tesa agli economisti ortodossi, i quali a partire da semplici identità contabili impossibili da rifiutare sul piano logico (X=C+I), si trovano ingarbugliati in categorie psicologiche per loro del tutto nuove, come la propensione marginale al consumo, o la trappola della liquidità, o la stessa efficienza marginale del capitale, che li costringono a riconoscere le funzioni sociali degli aggregati economici, l’intreccio fra capitalismo ed incertezza radicale, sino a giungere – senza di fatto nominarle – alle classi sociali tra loro in conflitto. Nella General Theory, in un certo modo, Keynes si fa beffa della scienza economica, riempendola di categorie politiche pronte a mandarla in tilt. Come ha scritto Toni Negri nel suo John M. Keynes e la teoria capitalistica dello stato nel ’29 (in AA.VV. Operai e Stato, Feltrinelli 1975, p. 86): «quando si dice domanda si dice classe operaia, si dice movimento di massa che ha trovato una identificazione politica, si dice possibilità di insurrezione e di sovversione del sistema».

Keynes indica la necessità di tenere a bada i bisogni relativi, cioè quei bisogni che esistono soltanto in quanto la loro soddisfazione ci fa sentire superiore ai nostri simili. Egli si adopera per costruire l’adeguata struttura istituzionale volta a perseguire l’eutanasia del potere oppressivo e cumulativo del capitalista di sfruttare il valore di scarsità del capitale, unico contesto in cui poter governare la socializzazione di una certa ampiezza degli investimenti, senza che lo Stato si assuma la proprietà degli strumenti di produzione. Non solo, giunge ad immaginare un sentiero di sviluppo in cui un’equa distribuzione dei redditi, un elevato tasso di accumulazione del capitale e un giusto controllo demografico possano condurre gli uomini a cambiare il proprio codice morale considerando spregevole l’amore per il denaro. Poco importa a mio modo di vedere che questa progettualità sia anche sorretta dalla paura che nel pieno della crisi economica il conflitto di classe possa condurre ad una crisi sociale e politica.

Per tutti questi motivi non escluderei a priori che il principio del clearing riscontrabile in Keynes sia la strada da seguire per istituire la moneta appropriata al modello antropogenetico richiamato da Christian Marazzi nel suo intervento (la moneta del Comune).

Il progetto di moneta locale così come è stato pensato per Nantes dall’equipe coordinata da Massimo Amato e Luca Fantacci si compone di un circuito creditizio e di un circuito monetario, integrati[4]. Una delle condizioni necessarie affinché questa struttura funzioni è che vi sia un tasso di interscambio locale fra le imprese che non sia trascurabile. La moneta che viene istituita è una moneta locale, con un tasso di cambio fisso 1:1 nei confronti dell’Euro che tuttavia non è convertibile in altre valute. Nel concreto è una moneta di conto che non svolge la funzione di riserva di valore.

Il circuito creditizio è concepito come una camera di compensazione per agevolare gli scambi fra le imprese. La camera di compensazione, o clearing union è una banca municipale (specificamente prevista nel sistema giuridico francese), una banca che offre semplicemente il servizio di coordinare le imprese nelle loro compravendite. Presso la clearing union ciascuna impresa ha un conto corrente, denominato in moneta locale, che può essere utilizzato per pagare e ricevere pagamenti da altre imprese partecipanti. Ciascuna impresa è creditrice o debitrice nei confronti di tutte le altre attraverso la camera di compensazione. Detto in altri termini si viene a costituire una struttura volta alla compensazione multilaterale dei pagamenti.

Per ogni singola impresa, il saldo può dunque essere, di volta in volta, negativo o positivo. Tuttavia, l’obiettivo è che vi siano tendenzialmente conti in pareggio. Per assicurare il raggiungimento tendenziale di questo obiettivo, sono fissati massimali sugli squilibri ed è previsto che siano pagati oneri non solo sui saldi negativi ma anche, simmetricamente, sui saldi positivi; infatti crediti eccessivi creano sempre debiti eccessivi per qualcun altro (si tratta dello stesso meccanismo progettato da Keynes a Bretton Woods in un contesto macroeconomico in cui il problema era quello dei rapporti commerciali far Stati diversi.).

Alternativamente, le imprese hanno la possibilità di utilizzare i saldi positivi per remunerare i propri lavoratori, alimentando così il circuito monetario locale (vedi la Figura 1 sotto).

A questo livello del ragionamento si pone la possibilità di pensare ad un primo spazio politico di mediazione (e di rivendicazione), in cui possa realizzarsi fra lavoratori ed imprese una contrattazione di secondo livello in moneta locale: il salario diverrebbe nuovamente funzionale alla tenuta della domanda effettiva a livello locale, e conquisterebbe, in qualche modo, una sua indipendenza.

I lavoratori sono dotati di un borsellino elettronico che consente loro di utilizzare la moneta locale per effettuare acquisti presso le imprese partecipanti. Nella misura in cui un lavoratore non spenda tutta la sua moneta locale presso le imprese, una parte del saldo residuo è periodicamente trasferita a un’organizzazione non profit a sua scelta fra quelle che partecipano al circuito.

Emerge a questo livello del ragionamento un secondo spazio di mediazione politico – come ha suggerito Andrea Fumagalli in una discussione avvenuta a Bergamo ospitata dai compagni di BgReport. Infatti non è detto che alle associazioni non-profit del progetto originario non si possa sostituire una cassa municipale per i servizi sociali. Il precariato metropolitano potrebbe così rivendicare uno spazio di rappresentanza diretta[5]. Né è detto che debbano essere i lavoratori i soggetti su cui grava questo incentivo al de-cumulo, cioè l’esigenza di spendere la moneta: potrebbero essere direttamente le imprese a versare moneta alla cassa municipale per i servizi sociali.

In questo modo, la moneta locale entra nel secondo sottocircuito, in cui le organizzazioni non-profit (nella versione originale) e la cassa municipale per i servizi sociali (nella variante proposta da Andrea Fumagalli), anch’esse dotate di un apposito borsellino elettronico, spendono presso le imprese le somme che hanno ricevuto.

E qui si apre un’altra possibilità istitutiva laddove dalla cassa municipale per i servizi sociali dipendano gli investimenti necessari a realizzare il modello antropogenetico prefigurato da Christian Marazzi nel suo intervento. Ciò comporterebbe una moneta dotata di una temporalità diversa, sebbene sempre sottratta alle forme del comando capitalistico.

Il sistema così congegnato fa sì che la moneta locale sia sempre disponibile in misura adeguata a sostenere le esigenze degli scambi locali; circoli più rapidamente della moneta ufficiale, dal momento che chi la detiene ha sempre un incentivo a spenderla; contribuisca ad attenuare la situazione paradossale, tipica delle crisi, in cui ci sono beni invenduti e capacità di lavoro non valorizzata in presenza di bisogni insoddisfatti.

Voglio concludere questa mia nota richiamando un passo elaborato durante il lavoro di inchiesta del gruppo sulla moneta della rivista Primo Maggio: «Se riteniamo che la forma-stato oggi palesemente dispiegata abbia la sua origine nell’ideologia della crisi e nel programma restrittivo da quella indotto, che questa ideologia abbia fornito il terreno costituente dei nuovi rapporti tra partiti, che essa sia la base storicamente determinata del compromesso storico, che sia la giustificazione del potere emarginante, riuscire a ribaltare tutto questo ed imporre quindi non un ritorno alla vecchia forma conflittuale dei rapporti tra partiti ma dei ‘vincoli dal basso’ al capitale, non è cosa da poco. A maggior ragione oggi che l’imperialismo più svagato, quello di Jimmy Carter, a differenza dei ragionieri ottusi del Fmi, ha capito che in Italia il sistema di valori e di comportamenti che si vuole oggi governare accoppiando pratica dell’austerità e ordine, è più forte di quanto si creda. E che allora tanto vale (questo è l’attuale indirizzo di Carter) sganciare quattrini, iniettare denaro-comando a più non posso tramite la grande banca privata internazionale. Cominciamo a farlo diventare ‘denaro come denaro’, a trasformare questo potere sul lavoro altrui in potere sui propri bisogni, sui propri spazi di organizzazione e di cultura, molla di sviluppo della nuova composizione di classe; cominciamo a strappare al ‘sistema dei partiti’ i poteri residui sulla riproduzione delle classi ed a determinarlo dal basso invece, in modo da garantire i sistemi di valori e i comportamenti che la nuova composizione di classe ha legittimato nelle lotte degli ultimi mesi»[6].


[1] Aristotele, Politica, Libro I, 1257b 8-17, traduzione di Massimo Amato in Massimo Amato, L’enigma della moneta, Et.Al., 2010, p. 245.

[2] Cfr. André Orléan, Le pouvoir de la finance, Odile Jacob, 1999, p. 12, citato nella introduzione mia e di Andrea Fumagalli ad André Orléan, Dall’euforia al panico. Pensare la crisi finanziaria e altri saggi, ombre corte, 2010, p. 12.

[3] Cfr. John Maynard Keynes, Eutopia. Proposte per una moneta internazionale, a cura di Luca Fantacci, Et.Al., 2011.

[4] Cfr. Massimo Amato e Luca Fantacci, Come salvare il mercato dal capitalismo, Dozelli, 2012, pp. 157-191.

[5] Cfr. ad esempio Andrea Fumagalli, Lavoro. Vecchio e nuovo sfruttamento, Punto Rosso 2006, pp. 174-178.

[6] Sergio Bologna , a cura di, La tribù delle talpe, Feltrinelli, 1978, p. 40. Sul gruppo sulla moneta di Primo Maggio si può leggere il mio saggio “Sentieri interrotti: il lavoro del gruppo sulla moneta di Primo Maggio”, in Cesare Bermani, La rivista Primo Maggio (1973-1989), Roma, DeriveApprodi, 2010, pp. 111-137.

La moneta (del) comune. Intervento di Christian Marazzi

Summer School: la moneta del comune

di CHRISTIAN MARAZZI

A me sta il compito di tentare di inquadrare la situazione così come si è venuta a determinare recentemente fino alle ultime decisioni prese dalla BCE. Quando si seguono le vicende monetarie e finanziarie si viene travolti dal divenire della situazione e molto spesso non si riesce a riflettere oltre queste stesse questioni finanziarie. La colonizzazione finanziaria della mente è qualcosa di reale, ma credo che almeno su tre cose sia importante soffermarsi:

la prima questione è come si è arrivati a queste ultime misure prese dalla BCE in questi giorni e con gli effetti euforici che hanno provocato sui mercati;

la seconda ha a che fare con il rompicapo della moneta unica. Come ci posizioniamo noi di fronte al dilemma relativo alla sopravvivenza dell’Unione Monetaria Europea?;

il terzo punto credo che sia un inizio di riflessione su questa categoria che abbiamo buttato lì, ma che mi sembra potenzialmente interessante per lo meno sotto un profilo politico, la moneta del Comune.

Come si è arrivati a queste misure in sede BCE, prese quasi all’unanimità ma con l’opposizione della Bundesbank, di intervenire in modo illimitato sul mercato secondario dei titoli pubblici al massimo a tre anni, con una serie di misure collaterali. Questa decisione era già circolata tra la fine del mese di Luglio e il 2 di Agosto, al vertice di Bruxelles. Per arrivare a questo compromesso all’interno del Board della BCE, era stato necessario, per lo meno per Draghi, cedere sulla questione delle condizionalità aggiuntive da accompagnare a qualsiasi forma di aiuto ai Paesi che ne hanno bisogno, l’Italia e la Spagna. Io credo che questa concessione, necessaria per ottenere il consenso della maggioranza nel Board della BCE, sia una concessione alla Bundesbank, agli ortodossi più incalliti, e che sia importante. Credo che sia questa la cosa più importante in realtà da sottolineare. La maggiore flessibilità della politica monetaria della BCE è altrettanto importante, ma bisogna considerare che questi interventi nel mercato delle obbligazioni pubbliche e dei titoli sovrani non sono stati presi per la prima volta. Sono misure attuate già l’anno scorso, sia nei confronti dell’Italia che della Spagna. Sono state poi riprese, con l’iniezione di 1000 miliardi, fra Dicembre ed inizio Febbraio, da parte della BCE. I precedenti ci dimostrano anche che queste misure sono durate quanto sono durate. Non sono state risolutive, insomma, dei problemi strutturali che affliggono l’Eurozona. Ci siamo confrontati da due anni a questa parti con una specie di finanziarizzazione emergenziale: credo che tutti condividano la conoscenza dei problemi fondamentali dell’architettura dell’Euro, però allo stesso tempo vediamo che si continua a procedere con misure di emergenza, tentativi di guadagnare tempo; ma non sappiamo bene per cosa si stia guadagnando tempo. Qual è l’orizzonte temporale di questo processo? Siamo in presenza di misure emergenziali e del diffondersi di una netta sensazione che i problemi fondamentali dell’Eurozona non siano per niente risolti. Perché questo movimento sincopato sul piano delle politiche monetarie? Quest’ultima misura viene a coronamento di una fase in cui di nuovo l’Euro ha rischiato un collasso. Abbiamo assistito a un frazionamento dello spazio finanziario europeo. C’è stato un vero e proprio ripiegamento di tipo sovranista-bancario; è diminuito moltissimo il cross border lending, cioè il prestito tra le banche di Paesi diversi sul mercato all’ingrosso, con cui le banche si finanziano correntemente; si è assistito in questi mesi a una fuga di capitali dalla Spagna e dall’Italia molto importante. Gli operatori finanziari hanno lavorato su un’ipotesi di spaccatura dell’Euro. A partire da questa ipotesi hanno posto un premio al rischio che è molto elevato e si sono attivati per uscire dai Paesi periferici per mettersi al riparo da questa eventualità. Sappiamo che questa fuga di capitali, per un meccanismo che sta all’interno della zona Euro e che si chiama Target 2, ha comportato un aumento impressionante della posizione debitoria della BCE sulla banca maggiormente creditrice, la Bundesbank, si parla di 727 miliardi (c’è anche chi dice che questo non dovrebbe causare problemi nel caso in cui dovesse collassare l’Euro); è difficile immaginare una situazione in cui i cittadini dei Paesi indebitati non si trovino a subire le pressioni dei creditori, laddove veramente si dovesse uscire dall’Euro. Quello che voglio dire è che la BCE in questi mesi ha dimostrato di non avere più il controllo sui tassi di interesse, tanto è vero che abbiamo una divergenza fra i tassi di interesse nei vari Paesi  (quando il progetto dell’Euro doveva consistere in una convergenza dei tassi di interesse dei Paesi membri). Questo significa che la BCE non può far fronte al proprio mandato, alla stabilità del sistema, anche se esso è inteso nel senso ortodosso del controllo dell’inflazione. Da questo punto di vista la situazione è grave tanto quanto lo era l’anno scorso. Oltre all’incremento del costo del denaro per le imprese e i cittadini, vi è la consapevolezza della crescita di un movimento politico di rifiuto dell’Euro all’interno dei vari Paesi. A questo proposito io credo che un movimento anti-Euro sia molto più forte e pericoloso in Germania, cioè nei Paesi forti, non nei Paesi deboli. Nei Paesi deboli non mi pare ci sia un’avversione popolare all’Euro, se mai c’è un’avversione alle politiche di austerità indotte dal funzionamento dell’Euro. In questa situazione una mossa da parte della BCE ci voleva. Draghi è dunque stato da una parte abile, dall’altra parte a me sembra che queste misure (che vedremo quanto dureranno e che sono senza dubbio impressionanti – pensate che la Banca Svizzera sta facendo ormai da un anno interventi illimitati sul mercato dei cambi per evitare la rivalutazione del franco, interventi che al momento non si sono tradotti in inflazione immobiliare come molti di noi temevano) non reggeranno, per una ragione semplice: non sta funzionando in Inghilterra, dove questa politica di intervento da parte della Banca Centrale è in corso da tempo, non mi sembra che abbia funzionato in modo splendido neanche negli Stati Uniti dove questa politica è ricorrente. Bisogna tener conto che i benefici di questa misura sicuramente sono tutti per le grandi banche tedesche e francesi; infatti l’aumento del valore dei titoli pubblici dei Paesi periferici permette alle banche tedesche e francesi che hanno in bilancio ancora parecchi di questi titoli di rivalutarli. Abbiamo a che fare con una partita all’interno del mondo finanziario e bancario. L’aggiungersi di misure di condizionalità oltre a quelle già introdotte con il fiscal compact in questi ultimi mesi non è uno scherzo. Nessuno sa bene quali saranno queste condizionalità, credo che varieranno da Paese a Paese e che ci sarà una sorta di fine tuning, di regolazione flessibile a seconda di quante riforme, o meglio controriforme, sono state realizzate qui e là, ma, da questo punto di vista, ancora non si sa cosa potrà succedere. Vi è poi la questione della sovranità: vedremo come si pronuncerà la Corte Costituzionale tedesca di Karlsruhe il 12 Settembre, sembrerebbe già abbastanza incredibile che dovesse considerare incostituzionale la creazione di questo secondo “Fondo salva Stati”, il Financial Times scrive che uscirà un sì al Fondo ma con queste condizioni aggiuntive[1]. Certo che per un Governo tecnocratico che assume il vincolo dei mercati e che si trova a dipendere da altre condizionalità sembra incredibile: da questo punto di vista la questione della sovranità nazionale sembra non esistere. Esiste se mai un ritorno alla sovranità bancaria, ma questo tende alla frammentazione. Questo pone un problema serio: da una parte un vuoto di sovranità nazionale politico, di margini di manovra per decidere della politica monetaria, della politica economica sul piano nazionale, e dall’altra frazionamento e nazionalizzazione delle politiche bancarie, quindi ulteriore divergenza.

Io mi sono espresso più volte sull’ipotesi della rottura dell’Euro. Quando si critica l’Euro sembra che si critichi l’Europa. Ma andiamoci piano! Qui non si vuole criticare l’Europa come nostro orizzonte, come nostro spazio identitario, come nostro spazio di lotta, si critica l’Euro come “gabbia d’acciaio”, come “camicia di forza”, che, come ho appena finito di dire, non ha spazi di socializzazione né di generalizzazione della lotta di classe. D’altra parte la caduta dell’Euro sembra andare di pari passo al ritorno di una politica sovranista, al ritorno delle monete nazionali, al ritorno del Sistema Monetario Europeo, che avevamo visto tra 1979 e il 1992, monete nazionali collegate l’una all’altra con tassi fissi, aggiustabili annualmente, per dare più ossigeno alle politiche nazionali. Da una parte questo Euro, che a me non piace, dall’altra una spaccatura dell’Euro nel nome di un ritorno alle sovranità nazionali. Qui non si può dire delle due l’una. Siamo di fronte ad un problema sul quale dobbiamo esprimerci. Nei prossimi mesi sono convinto che partirà una grossa mobilitazione, e che sarà incasinata e confusa e difficile anche da definire politicamente secondo gli schemi attuali, contro le politiche introdotte dall’Euro. Come ci staremo dentro?  Da una parte credo che dovremo essere molto determinati nella critica di questo Euro, una moneta attuata e pensata secondo la teoria neoliberale, monetarista, dall’inizio alla fine, da Robert Mundell in poi, la teoria delle zone monetari ottimali, la quale è basta su delle ipotesi di cui una è particolarmente saliente: che vi sia mobilità perfetta del fattore lavoro. Questo è a mio modo di vedere il progetto dell’Euro, cioè creare un grande bacino di forza-lavoro migrante. La condizione migrante ha a che fare con quella che secondo me è una delle ragioni del mantenere in vita questo Euro. L’Euro sta determinando un effetto di dumping salariale, di fuga non solo di capitali, ma anche di persone, dai Paesi più malmessi. Questa nostra critica all’Euro è anche un’occasione di porre la questione dell’alternativa fra sovranità sovranazionale e sovranità nazionale. Viviamo in una sovranità caratterizzata dalla crisi della rappresentanza, una sovranità tecnocratica, che non ha nulla a che fare con la diversità degli interessi radicati nel mondo, nella vita, nel lavoro e nel non-lavoro. Questo significa affrontare la questione della linea di fuga (non mi piace l’espressione terza via) da questo dilemma, da questo rompicapo “Euro-non Euro”, ponendo la questione della moneta del Comune.  Voglio porre una differenza fra “moneta comune” e “moneta del Comune”. La prima (la moneta comune) ha a che fare con il piano proposto da Keynes a Bretton Woods. L’idea è quella di istaurare una moneta di conto, un Bancor sovranazionale che funga da veicolo di potere d’acquisto fra i Paesi che si scambiano beni e servizi. Non è di per sé una cosa nuova, diciamo che è meglio dell’attuale situazione, sempre che ci si muova nella direzione keynesiana. Per arrivare a questo bisognerebbe spaccare l’Euro e ritornare alle monete nazionali.

Io credo che parlare in termini di moneta del Comune sia più corretto per quanto ci riguarda perché pone la questione in termini radicalmente diversi. Cosa è la moneta del Comune? È quella moneta che dà espressione e riconosce ciò che è comune nella moltitudine, diciamo così, in uno spazio politico, sociale, demografico quale è oggi l’Europa. Quindi io non so. Ho sentito mesi fa Michael Hardt presentare il libro che ha scritto con Toni sulle diverse forme della soggettività (Comune. Oltre il privato e il pubblico, Rizzoli 2010). Costruire oggi un progetto, come dire, di insubordinazione, di mobilitazione, che riguardi l’uomo indebitato, l’uomo securizzato, o l’uomo mediatizzato, l’uomo rappresentato, credo abbia a che fare con la costruzione della “moneta del Comune”, credo sia un buon punto di partenza. Ragionare sulla “moneta del Comune” potrebbe significare partire da qui, partire da una definizione soggettiva di cosa è il Comune, di cosa è il Comune oggi. Cosa è che ci accomuna?

C’è il fatto che stiamo subendo dei processi di espropriazione, di privatizzazione di beni che sono essenziali (le public utilities sono indubbiamente uno degli obiettivi dei processi di privatizzazione perché grantiscono delle entrate continue a chi ne acquista il controllo, la possibilità di sfruttarle). Partiamo allora da qui.

Occorre però anche definire la “moneta del Comune” come processo. Niente di nuovo, ma ribadiamolo solo per non illuderci sul possibile esito di questo processo. Certo a me non dispiacerebbe immaginare un Euro con l’effige Common. La moltitudine ha bisogno di avere una sua espressione monetaria e non solo in negativo. In questo processo bisognerà confrontarsi, prendere delle scelte in termini di alleanze. Uno dei motivi per i quali in questi anni c’è stata una divergenza dal punto di vista dei debiti pubblici è stato un certo tipo di interpretazione del keynesismo. Una delle cose di cui si è parlato più lungamente è questa: i Paesi che oggi sono più compromessi dal punto di vista dell’indebitamento pubblico sono i Paesi che hanno più investito in infrastrutture legate ai trasporti, alle strade e alle ferrovie (per esempio la Grecia). Questa è una cattiva interpretazione di quello che è il keynesismo di cui noi oggi abbiamo bisogno. Noi abbiamo bisogno di investimenti, ma gli investimenti nelle così dette grandi opere sono un disastro, opere in cui il lavoro vivo, il lavoro salariato, rappresenta il 25% dei costi totali, e si concentra solo nella fase finale del processo (mediamente 10 anni). Infatti si tratta di opere ad alta intensità di capitale. Non è questo il tipo di keynesismo di cui noi oggi abbiamo bisogno. Abbiamo invece bisogno di investimenti nell’immateriale. C’è tutto un territorio nel quale investire, non nell’hardware o nel software, ma nel cognitivo, nella nostra possibilità di essere cognitivamente autonomi. Credo anche che questo tipo di keynesismo rientri perfettamente in quel modello economico antropogenetico di cui io sono sempre più convinto. Io credo che l’occidente possa tenere rispetto ai Paesi emergenti solo se investe nella cultura, nella socialità, nella formazione e nella sanità. Questi sono i quattro settori su cui indirizzare gli investimenti. Non mi sembra che si stia andando in questa direzione. Il liberismo montiano mi sembra proprio che vada nella direzione di un rilancio delle così dette grandi opere come la TAV.

Non è facile portare avanti il discorso sul capitalismo contemporaneo come capitalismo cognitivo, non tanto dinanzi alle critiche, ma proprio dal punto di vista dei soggetti: il confronto con i soggetti protagonisti della Primavera araba, oppure dei riot inglesi non conduce a facili declinazioni della categoria del “lavoratore cognitivo”. Come fare a riconoscere la produttività di questi soggetti in un’economia che ha generalizzato la conoscenza? Credo che dobbiamo comunque tenerci su questo terreno, non perché dobbiamo scegliere un soggetto (non è mai stato così anche quando si parlava di operaio massa). Più che il lavoratore cognitivo la figura più rappresentativa della nostra società mi pare essere il precario flessibile, comunque la centralità del cognitivo rispetto alle rivendicazioni dei prossimi mesi n on è da mettere in discussione.

Si parla di project bonds (meno in questi ultimi mesi), di obbligazioni emesse per poter finanziare le grandi opere. A me sembra interessante contrapporre a questi project bonds delle cose simili ma che si pongano il problema di uno sviluppo locale sostenibile. La questione ambientale è all’ordine del giorno. In questo discorso va anche compreso il tema della rendita sociale. Perché parlare di rendita sociale invece che di reddito di cittadinanza? Non tanto per cambiare cosmesi: il capitalismo finanziario è un capitalismo che produce una rendita, ma una rendita che rinvia ad una produttività dei legami sociali e della cooperazione; è un’affermazione monetaria di quello che noi consideriamo essere il nostro contributo all’economia, alla vita… un contributo che è fatto di lavoro e di sofferenza che non è riconosciuto, come non è riconosciuto il lavoro riproduttivo delle donne. Da questa prospettiva non si può pensare che i lacci alla finanza rimettano le cose a posto. Pensare ad una de-finanziarizzazione del capitalismo contemporaneo è una contraddizione in termini: il nostro problema non è certo quello di eternizzare il capitalismo finanziario, ma di partire da questo livello di sviluppo e sviluppare delle lotte che siano a questa altezza e preferibilmente proiettate in avanti. Parlare di rendita sociale è un modo di tenere insieme i due corni del dilemma: il bio-valore da una parte e la sua forma monetaria.


[1] Il 12 Settembre 2012 la Corte Costituzionale tedesca ha approvato il fondo salva Stati. Tuttavia ha posto una serie di condizioni sull’operatività del fondo; in particolare stabilisce che i due rami del Parlamento tedesco siano informati delle decisioni dell’Esm e fa sapere che l’esposizione della Germania al fondo salva Stati non deve superare i 190 miliardi di euro senza il via libera del Bundestag, la Camera Bassa. La barriera da 190 miliardi di euro al contributo della Germania all’Esm, anche se non sembra sufficiente per un bailout di Spagna e Italia, non spaventa i mercati europei che dopo la sentenza della Corte tedesca si sono subito rafforzati. A Piazza Affari il Ftse Mib testa il massimo della mattinata a quota 16.416 punti e sale dell’1,17%. In rialzo anche il Cac40 (+0,79%), il Dax (+0,40%) e l’Ibex (+1,35%). Unica eccezione il Ftse 100 (-0,30%).

Scarsità ed abbondanza II (dibattito)

Dibattito sul testo “Abbondanza di cibo contro abbondanza di ricette”, con commenti di Michel Bauwens, Franz Nahrada e Wofgang Hoeschele al documento di Brian Davey del 17 novembre 2010

Michel Bauwens: Come l’abbondanza immateriale può assistere un’economia stabile

Brian Davey ha scritto un testo molto stimolante, pubblicato [in italiano] qui, che ammonisce contro il parificare l’abbondanza di cultura immateriale con l’abbondanza di produzione materiale.

Si tratta di un argomento molto importante sul quale fondamentalmente concordiamo.  Ciò nonostante io credo anche che Brian Davey non comprenda l’importanza dell’abbondanza immateriale nel risolvere la crisi della scarsità materiale.

Rivediamo rapidamente i punti sui quali posso facilmente dirmi d’accordo.

Sì, non possiamo ingenuamente sperare che l’era dell’abbondanza materiale continui con la stessa forza, senza riconoscere le scarsità materiali che si stanno facendo di giorno in giorno più gravi.  Una seria contrazione del livello industriale standard di produzione materiale è più che probabile.

Sì, l’infrastruttura Internet è essa stessa un’infrastruttura materiale costosa.

Sì, non possiamo ingenuamente presumere che “abbondante” energia rinnovabile sostituisca del tutto, o almeno in misura significativa, la sovrabbondanza di combustibili fossili cui ci siamo abituati. Le rinnovabili non sono soluzioni magiche e hanno sia limiti assoluti sia problemi concreti di concentrazione per i bisogni umani.

Dunque, in conclusione, sono d’accordo che sia molto pericoloso mettere fare un unico fascio dell’ “abbondanza immateriale” e dell’abbondanza materiale.  E questo è infatti un argomento che ho costantemente sostenuto nel mio intervento: che il presente sistema combina pseudo-abbondanza, una fiducia errata nell’infinita abbondanza del mondo materiale, ritenendo che la crescita infinita sia compatibile con un pianeta finita, con l’idea della necessità della scarsità artificiale nel mondo dell’innovazione della cultura e dell’innovazioni immateriali, rendendo molto difficile agli umani condividere e collaborare liberamente. Ho sostenuto che quella che ho chiamato la civiltà sostitutiva, centrata sui commons e le dinamiche paritarie, che sussume sia il mercato sia lo stato, capovolgerà quel sistema operativo sbagliato in uno che riconosce sia la scarsità reale del mondo materiale sia l’abbondanza di scambi culturali in un contesto digitale.

La mia tesi chiave sarebbe che un transizione riuscita a un’economia

stabile, o anche una decrescita, dipende dalla cooperazione globale e dalla struttura di rete disponibile.

Alcuni punti ovvi:

– Internet è uno strumento chiave della collaborazione umana e della rapida innovazione. L’umanità affronterà molte sfide e, anche se le situazioni locali sono diverse, ci sono anche importanti cose in comune, il che significa che gli esseri umani dovrebbero apprendere gli uni dagli altri. Tale apprendimento, in cui ogni innovazione potenziale è istantaneamente disponibile al resto dell’umanità, è ciò che promette la cultura libera (un termine sbagliato, nel senso che significa la vastissima collaborazione degli esseri umani riguardo a una serie di problemi). Naturalmente, esposto in questo modo, si tratta di un ottimismo esagerato. D’altro canto si pensi a come la conoscenza sarebbe trasmessa senza Internet, senza la stampa e persino senza la scrittura.  Nell’affrontare sfide globali, molte delle quali sono urgenti, abbiamo alternative? Possiamo permetterci di non mobilitare l’intelligenza collettiva transnazionale? Possiamo permetterci che le località restino totalmente isolate? Non è necessario adorare la velocità al fine di capire che essa ha effettivamente un certo ruolo da svolgere e che l’isolamento a causa di alti costi per operazione, comunicazione e coordinamento non sarebbero una cosa buona in quel contesto di urgente risoluzione di problemi.

– Le comunità globali aperte  di sapere, codice e progettazione seguono una logica diversa da quella delle imprese capitaliste.  Mentre l’innovazione capitalista progetta in funzione di grandi impieghi di capitale (per eliminare la competizione), di produzione centralizzata e di catene internazionali di valore per il consumo attraverso l’obsolescenza programmata, le comunità di progettazione aperta progettano per la produzione distribuita (non solo ‘fab lab’ (1) bensì un riorientamento generale della produzione che ruoti intorno a una tecnologia appropriata che utilizzi una fabbricazione aperta e distribuita) senza obsolescenza programmata.

– Internet è uno strumento di socializzazione paritaria e non gerarchica.  Brian nota quanto è stata diverso il Congresso di Berlino sui Commons, nel suo dialogo aperto e nella sua tolleranza per la diversità di opinioni, rispetto ai vecchi scontri per la verità nella sinistra cui era abituato in gioventù.  Ma c’è un motivo per questo e precisamente che il processo di socializzazione tra pari, in un contesto di abbondanza culturale, allena a questo tipo di collaborazione.

– Condividere infrastrutture e accesso a risorse comuni, come ad esempio i trasporti, funziona soltanto con una condivisione del sapere molto diffusa a basso costo di coordinamento.  Ad esempio la condivisione di biciclette falliva sistematicamente prima dell’avvento dei media digitali, ma ora in molte città rappresenta praticamente una routine. Ci sono enormi possibilità di ridurre la necessità di produzione materiale (di proprietà individuali) attraverso la condivisione di infrastrutture che dipendano da infrastrutture internet.

– Le comunità locali isolate sono forme svantaggiata dal nanismo che, anche se ecologicamente a minor impatto, dovrebbero confrontarsi con le imprese transnazionali e con gli stati-nazione competitivi.  Ciò è una garanzia di conflitto sociale, ovvero di possibili confronti violenti riguardanti risorse scarse.  D’altro canto una produzione locale che si accompagni a comunità di progettazione aperta e alla condivisione globale della conoscenza può facilmente superare, nella collaborazione, le capacità di coordinamento delle imprese transnazionali, mentre le comunità  [ ‘phyles’ nell’originale] transnazionali, ovvero le reti di valore coordinate che sono responsabili della propria sussistenza, possono offrire fraternità e solidarietà in un’era di stati assistenziali in declino. La collaborazione “attivata digitalmente” apre possibilità di nuove reti di governance globale che possono affrontare sfide globali in modo che non sono possibili né alle comunità locali né agli stati nazione.

Dunque la conclusione è che l’abbondanza materiale non è contrapposta alle economie materiali sostenibili, ma è una condizione per una transizione più agevole a tale stato di cose.  Anche se dobbiamo riconoscere che una tale infrastruttura è costosa e potrebbe non sopravvivere a un crollo ecologico, non è qualcosa che dobbiamo desiderare ma qualcosa che, se possibile, dovrebbe essere evitato. Tra le scelte d’investimento dell’umanità, la possibilità della cooperazione globale e dell’intelligenza collettiva transnazionale, non dovrebbe essere scartata, ma sarebbe una delle scelte migliori.  Questo naturalmente non significa che la stessa informatica non possa diventare molto più ecologica [verde] di quanto è ora. E’ difficile immaginare come un’economia stabile, di decrescita o “dalla culla alla culla” [cradle to cradle] si possa conseguire senza lacrime e sangue, senza l’uso dell’intelligenza collettiva.

Il nodo cruciale della questione è questo: siamo indubbiamente di fronte alla fine dell’abbondanza materiale basata sui combustibili fossili.  Ma questa trasformazione può aver luogo nel modo brutto, ovvero mediante un ridimensionamento terribile e costoso che può condurre a nuove forme di neotribalismo e neofeudalesimo patologici.  Questo è il percorso probabile se scegliamo il localismo isolato, senza accesso al mutuo coordinamento globale che ora è possibile conseguire.  Non serve avere colture organiche locali se ci si trova di fronte a bande nomadi di armati che vogliono la tua produzione. Oppure la nostra società si può trasformare passando a un livello di complessità più elevato, ricavando una sintesi tra un’economia stabile e una vita sociale e culturale globale molto ricca di mutuo coordinamento su scala planetaria e una ricca creazione di produzione relocalizzata.

La visione paritaria promette almeno, se realizzabile, questa nuova sintesi, un connubio della materialità locale e dell’immaterialità globale, invece di un ritorno a un localismo regressivo in un contesto di conflitti civili, tra imprese e tra stati nazione, per le risorse materiali che scarseggiano.

(1) [Letteralmente ‘laboratori di fabbricazione’, ma si potrebbe tradurre anche come ‘laboratori magici’ (da ‘fab’ = fabulous): fabbriche in grado di produrre idealmente qualsiasi cosa partendo da un progetto in formato elettronico (CAD) affidato a una macchina laser a controllo numerico che provvede alla realizzazione materiale. Il primo ‘fab lab’ è stato il ‘rep rap’ – n.d.t.]

Franz Nahrada: Quali sono le condizioni dell’abbondanza?

Ci sono pochi altri punti da fissare.  L’argomentazione “ecologica” tradizionale utilizzata dal Club di Roma si limita solitamente ad aggregare aspetti quantitativi dei processi produttivi con capacità riproduttive senza considerare la loro interazione; è cioè un po’ mal coordinata e mal costruita rispetto alle condizioni economiche attuali.

Michael Braungart ha tradotto ciò in un’immagine semplice: quando si ha una produzione materiale mal progettata che produce scarti, ogni attività ulteriore di questa produzione materiale aumenterà alla fine la scarsità complessiva.  Ma se i prodotti sono progettati per essere essi stessi parti di cascate di riutilizzo e riconversione [up-cycling], ciascuna attività aggiuntiva accrescerà la base per altre attività e creerà abbondanza.

C’è un fattore qualitativo che determina l’interazione tra le nostre crescenti informazioni e il mondo materiale: è la capacità di ideare e progettare cicli che si autoalimentino e si autosostengano e soluzioni per cui gli sforzi umani non vadano persi una volta compiuti ma conseguano sistematicamente utili sistemici da tali apporti.

Il modo di produzione capitalista-industriale è stato incentrato su una concezione monodimensionale del valore che si traduce in un meccanismo di risorse – prodotto [input – output] di cosiddetta efficienza. McLuhan ha osservato una volta che per questo meccanismo non ha importanza quale sia il prodotto che ne esce, che si tratti di cornflakes o di Cadillac, fintantoché il risultato può tradursi in denaro.  Nel modo di produzione automatizzato post-industriale la riproduzione ci richiederà di creare finalmente misure economiche e misure che riflettano l’assioma che il valore di ciascun processo è multidimensionale.

Per esempio non è assolutamente privo d’importanza dove la produzione ha luogo. Se il calore eccessivo di una centrale di server [server farm] che è necessario per il funzionamento dell’infrastruttura Internet viene utilizzato per il riscaldamento di un insediamento umano, c’è un guadagno sistemico semplicemente dalla progettazione in tal senso. Tutto allora è deciso dallo spazio, dal tempo e dall’interagibilità delle cose.  Ciò impone un balzo gigantesco in intelligenza e informazioni in alcun modo facile da realizzare.  Dobbiamo studiare modelli possibili e apprendere riguardo alla loro complessa interazione come condizione essenziale per decidere.

Sarebbe utile analizzare la nostra società attuale come produttrice costante di sprechi, sia sprechi immediati sia sprechi sistemici.  La risposta  può non essere facile da trovare ma non sta nei numeri bensì nell’interazione delle cose.  La natura è un grande sistema di abbondanza (molto più di uno “stato stabile”) ovvero non produce scarti.  Dobbiamo imparare da essa ed essere partecipi dei suoi cicli, affinarli e assecondarli invece di astenerci da attività.  Questa è la svolta importante che possiamo definire e realizzare insieme.

Wolfgang Hoeschele: Economia dell’abbondanza

Nel suo documento per il dibattito Brian Davey esprime la sua preoccupazione (che io condivido) per l’imminente grave scarsità di risorse e la sua opinione che chi parla di “abbondanza” non prende sul serio la scarsità di risorse ed è perciò eccessivamente ottimista circa il futuro del mondo.  Egli ipotizza inoltre che queste persone provengano da precedenti nei “commons culturali e scientifici” e considera tali precedenti parte del motivo del loro eccessivo ottimismo.

Anche se io non posso parlare per chiunque promuova idee di abbondanza, posso certamente parlare per me stesso, visto che ho scritto un libro sulla “Economia dell’abbondanza”. Brian Davey sicuramente non ha avuto l’opportunità di leggere tale libro che è stato appena pubblicato e probabilmente non era a conoscenza della sua esistenza  prima del Congresso Internazionale sui Commons. In questo spazio vorrei sintetizzare parte delle idee che avanzo nel libro per dimostrare che promuovere una “economia dell’abbondanza” è qualcosa di molto diverso dall’ignorare la scarsità di risorse, non implica un ottimismo eccessivo e non richiede una formazione nell’industria informatica (alla quale io non appartengo, essendo un geografo abituato a trattare problemi molto “terra terra” di utilizzo delle risorse).

La produzione della scarsità

Innanzitutto vorrei sottolineare che le risorse materiali possono essere abbondanti anche se esistono in quantità finita.  Le risorse materiali sono abbondanti se sono utilizzate in modi che non le esauriscano o le degradino (ad esempio, respirare l’aria) o se ce n’è una quantità molto superiore a quella necessaria per le persone (ad esempio, i banchi di pesca in luoghi in cui si pesca solo un piccola parte del prodotto sostenibile).

Un problema fondamentale dell’economia attuale è che non vede valore nelle risorse abbondanti perché non si possono vendere con un alto margine di profitto; ad esempio non si può confezionare l’aria da respirare e poi venderla a qualcuno; dove il pesce è abbondante si può vendere ma solo a un prezzo modesto. In altre parole, è riconosciuto solo il valore di scambio e non il valore d’uso. Per gli imprenditori è perciò vantaggioso rendere scarse le risorse abbondanti in modo che possano essere vendute a un prezzo più elevato e generare maggior valore di scambio. La tesi che sostengo nel mio libro è che l’attività di rendere scarse le risorse abbondanti non è lasciato all’iniziativa individuale, ma è compiuto da istituzioni che generano scarsità.  La scarsità può essere prodotta manipolando la domanda o l’offerta di un bene in modo tale che la domanda superi l’offerta. In questo senso c’è scarsità anche quando c’è un’enorme quantità di produzione. Si può sempre descrivere la cosa in questi termini: la nostra economia attuale massimizza l’inefficienza del consumo in modo da generare la domanda necessaria a giustificare un produzione in crescente aumento. In un simile contesto, l’accresciuta efficienza della produzione non fa nulla per affrontare i problemi della scarsità di risorse.

Un buon esempio riguarda i trasporti.  La mobilità – la capacità di andare dove si ha bisogno di andare – è massimamente abbondante e la maggior parte delle persone possono raggiungere la loro destinazione quotidiana a piedi o in bicicletta o mediante trasporti pubblici.  In questo modo tutti possono permettersi la mobilità che è disponibile ai bambini piccoli (appena possono spostarsi in modo indipendente), ai vecchi (che possono utilizzare i trasporti pubblici se non possono più camminare, andare in bicicletta o guidare), a tutti i membri delle famiglie con un’auto sola e alle persone con disabilità che impediscono loro di guidare o camminare o andare in bicicletta (che tuttavia sono in grado di usare il trasporto pubblico).  In queste condizioni di abbondanza sarebbe possibile per la maggior parte delle persone non possedere un’auto propria ma affidarsi alle auto in comune [car-sharing] o ai servizi di taxi nelle occasioni relativamente rare in cui abbiano necessità di un veicolo a motore.  Le condizioni che sostengono la mobilità abbondante – città compatte con strade aperte al movimento a piedi, in bicicletta e alla socializzazione – sostengono anche più bassi investimenti pro capite in infrastrutture e, nel complesso, un minor uso di risorse che amplino indiscriminatamente città progettate per la dipendenza dalle automobili.

Quindi l’abbondanza non consiste nel fatto che tutti abbiano un’automobile, bensì nel fatto che tutti siano in grado di spostarsi a basso costo, senza dipendere da catene di beni complesse e insostenibili, mentre la “scarsità” consiste nel fatto che tutti vogliano un’auto, o ne abbiano necessità, indipendentemente dal fatto che possano permettersela o meno.

Il fatto che così tante città non supportino una mobilità abbondante è il risultato di sforzi concertati dell’industria automobilistica, dell’industria del petrolio, degli interessi immobiliari e di vari settori economici associati, che insieme hanno influenzato i governi affinché costruissero o ricostruissero città e infrastrutture dei trasporti al servizio dei “bisogni” delle automobili (si noti che gli oggetti inanimati non hanno bisogni).  Ho rilevato che parlare di come queste istituzioni generino scarsità e le alternative creino abbondanza suscita grande entusiasmo e creatività nei gruppi per il cambiamento, come in un seminario che ho tenuto di recente:  http://shareable.net/blog/abundant-mobility-one-towns-resources

La scarsità è generata anche da regimi iniqui di proprietà. Ad esempio se poche persone (capitalisti, aristocrazia terriera e simili) sono proprietarie dei mezzi di produzione (che questi consistano in terreni, acqua, accesso a banchi di pesca o a zone di caccia, fabbriche o qualsiasi altra cosa) mentre altri sono vincolati a vendere il proprio lavoro al fine di ricavare un reddito, allora i proprietari hanno interessi a mantenere scarsa l’occupazione, per conservare un esercito di lavoratori disoccupati che mantiene basse le paghe. Sappiamo tutto questo da Marx; non è nulla di nuovo.

Ci sono inoltre importanti “mezzi di produzione” che tradizionalmente non sono di proprietà di nessuno ed è vantaggioso per gli industriali utilizzarli come beni naturali gratuiti e inquinarli o degradarli in altro modo.  Tra questi vi sono l’aria e l’acqua pulite; inquinarle crea scarsità presso tutti coloro la cui salute ne è colpita negativamente.  Allora diventano necessari grandi investimenti per pulire l’aria e l’acqua, a vantaggio di quegli stessi industriali che fabbricano le attrezzature necessarie.  La proprietà comune delle risorse naturali (commons delle risorse naturali), così come dei luoghi di lavoro (commons delle cooperative di lavoro) e della conoscenza (commons della scienza) è essenziale per smontare questo modo di produzione della scarsità e creare invece abbondanza.

A livello di psicologia individuale la scarsità è la conseguenza del non sapere quando “il troppo stroppia”, del volere sempre di più.  Questo modo di pensare drogato è promosso da una cultura consumista e dall’insicurezza e dalla paura del futuro; superare tale tossicodipendenza richiede esattamente quelle “relazioni umane positive in comunità amorevoli che generano sensazioni di pace, di appagamento, di amore, felicità e altre gratificazioni psichiche che si sottraggono alla quantificazione” che Roberto Verzola cita nel suo documento.

Un’economia dell’abbondanza non è un’economia che presuppone che l’abbondanza esista necessariamente, bensì un’economia che analizza i modi di produzione della scarsità, quali quelli che ho citato più sopra, e che evidenzia modi per contrastarli.  Proprio così come la scarsità è costruita socialmente (ed è molto reale, così come è reale un edificio costruito dall’uomo) anche l’abbondanza deve essere creata.  Nella situazione attuale, si tratta di un compito che intimidisce; se riusciremo a portarlo a compimento prima di trovarci di fronte alla catastrofe ecologica, non lo so. Tuttavia sento profondamente che l’idea di generare abbondanza evidenzi il cammino che dobbiamo intraprendere se vogliamo avere una qualche speranza di evitare il disastro.  Dunque il valore delle mie proposte non dipende da ottimismo o pessimismo; dipende dal fatto che esse siano o meno vie d’uscita dalle difficoltà attuali.

Da Socialforge – Un laboratorio di creazione sociale

http://www.socialforge.org

Fonte: http://p2pfoundation.net/Abundance_of_Food_vs_the_Abundance_of_Recipes

Originale: p2pfoundation

Traduzione di Giuseppe Volpe

© 2012 Socialforge – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

Scarsità ed abbondanza I

 Abbondanza di cibo contro abbondanza di ricette

di Brian Davey – 17 novembre 2010

Contributo di Brian Davey di Feasta, in risposta alla tensione al Congresso di Berlino sui Commons tra Abbondanza e Scarsità, sottotitoli di Franz Nahrada.

Brian Davey:

All’inizio della sessione finale del congresso internazionale sui Commons, i partecipanti sono stati invitati a esprimere le proprie preoccupazioni, critiche e riserve. Io mi sono alzato a dire grosso modo quanto segue:

I partecipanti che costituiscono il congresso forse avrebbero dovuto concentrarsi di più su tipo di epoca in cui stiamo vivendo.  Al congresso sono sembrate esserci due visioni generali e la differenza tra esse non è stata espressa sufficientemente nel corso del dibattito.

I Commons come scialuppa di salvataggio …

Da un lato ci sono quelli per i quali i Commons sono istituzioni paragonabili a scialuppe di salvataggio per il controllo collettivo su risorse vitali in un mondo in crisi; un mondo in cui la produzione probabilmente si ridurrà a causa del cambiamento climatico galoppante, dando fondo all’energia, all’acqua e ad altre risorse. In larga misura si tratta di persone la cui attenzione è principalmente concentrata su Commons naturali: l’atmosfera e il clima, l’acqua e gli oceani, la terra e i sistemi ecologici.

… oppure come nuovo modo di produzione.

D’altro canto ci sono quelli per i quali i Commons rappresentano un modo interamente nuovo di produzione paritaria [peer-to-peer] che, quando non più limitata dai vincoli imposti dalle restrizioni della proprietà intellettuale, ha il potenziale di introdurci in un mondo di abbondanza, non solo fornendo servizi liberi d’informazione come Wikipedia, creati collettivamente e disponibili a tutti, ma alla fine estendendosi anche ai processi di produzione fisica, attraverso progetti open source di beni materiali e la diffusione di nuove idee da coltivare.  In breve, saremmo all’inizio di un’era di abbondanza … I partecipanti che la pensano così tendono a essere quelli coinvolti in Commons intellettuali e culturali, ad esempio quelli impegnati nello sviluppo di software, ecc.

Limiti contro abbondanza

Finito il congresso ho pensato che questi temi fossero così importanti che ho scritto questo documento successivo.  Permettetemi di iniziare osservando che il movimento per l’ambiente è da lungo impegnato in un dibattito con la politica e l’economia convenzionale che si riassume più o meno così:

Gli ambientalisti sostengono che stiamo realmente raggiungendo, e oltrepassando, i limiti fisici della crescita e della “capacità di sostegno” degli ecosistemi del pianeta.  Contemporaneamente la corrente di pensiero convenzionale sostiene che non dobbiamo preoccuparci di cose simili perché la tecnologia e l’ingegno umano ci faranno superare le difficoltà, cosicché la crescita potrà continuare indefinitamente nel futuro.

Ora, al Congresso di Berlino sui Commons, non ho notato nessuno che sostenesse la crescita continua. E tutti quelli che ho incontrato al congresso mi sono sembrati consapevoli del cambiamento climatico e del picco del petrolio e del gas. Ciò nonostante, la tesi dell’”abbondanza” mi è sembrata essere, almeno in parte, una variante riconfezionata della posizione secondo cui “l’ingegno umano ci farà superare le difficoltà”, con l’interessante derivazione che l’ingegno e la creatività umana ci farebbero superare le difficoltà SE il tentativo dell’industria di appropriarsi del sapere e di privatizzarlo mediante la proprietà intellettuale (brevetti, diritti d’autore, royalties, ecc.) potesse essere abbandonato in modo tale che la creazione intellettuale possa aver luogo come vero processo collettivo e tutti e ciascuno possano essere liberi di prendere le idee, i progetti, il software e le creazioni altrui, correggerli, integrarli, adattarli e svilupparli ulteriormente, contribuire ad essi, e così via, senza dover pagare un prezzo esorbitante per tale privilegio.

Ora, secondo me, queste idee possono essere spinte troppo in là.  Ma prima che io spieghi il perché, voglio spiegare perché ho ritenuto stimolante questo punto di vista e che isoli alcuni nuclei di verità.

Quarant’anni fa, nella mia gioventù trotzkista, ero solito partecipare a congressi che erano praticamente al polo opposto rispetto a questo.  I partecipanti a questi vecchi congressi si preoccupavano di decidere ed accordarsi su quale fosse “l’analisi corretta”, il modo corretto di interpretare il mondo e su cosa dovesse essere fatto al riguardo. La “analisi corretta” in qualche modo sembrava essere quello che pensavano le persone che ti erano più vicine,  perché avevi elaborato le idee insieme con loro e se non eri d’accordo … beh … ti sarebbe risultato spiacevole andare a tutti i congressi e scoprire di essere l’unico strano che diceva qualcosa di diverso.

Ma, ovviamente, altri, spesso provenienti da altri luoghi, persone che avevano avuto altri rapporti personali, tipicamente avevano elaborato un’idea leggermente diversa di cosa era “corretto”. Dunque ciò significava, per loro, che tu sbaglia e, per te, che sbagliavano loro.

Il congressi basati su questo modo di rapportarsi con “la verità” erano frustranti e improduttivi.  Ricordo persone che osservavano, con frustrazione, come le altre fazioni non si spostassero di un millimetro dal loro modo di pensare e, indubbiamente, dal mio punto di vista, non lo facevamo neppure noi. La differenza era un problema: le idee diverse degli altri erano “sbagliate” me non eravamo sempre nel “giusto”.

Non posso dire che tutti abbiano avuto la stessa esperienza al Congresso Internazionale sui Commons.  Almeno alcuni sono sembrati finire preda della frustrazione , ma la mia esperienza personale è stata di partecipanti che si sono trovati a loro agio con le differenze e preparati a discutere in modo rilassato  con persone  con un punto di vista diverso, e questo è stato molto  confortante.

In realtà quando si adotta questa accettazione rilassata delle differenze, la mia esperienza è stata che si tende a scoprire che le persone con idee diverse sono già consapevoli del nostro punto di vista; possono non essere  d’accordo sul nostro punto di vista come spiegazione migliore, ma a volte lo accettano come plausibile e come possibile ottica alternativa.

In effetti mi sono sentito [al Congresso] come se mi fossi trovato in un dibattito in cui i  partecipanti che avevano idee diverse erano considerati utili per mettere alla prova le proprie idee, utili per vedere una prospettiva diversa che in precedenza non si sarebbe potuto non  considerare.  C’è stata la sensazione che le idee e le ottiche non siano fisse e giuste o sbagliate, ma sempre in sviluppo e le idee degli altri che si differenziavano  sono state utili nel contribuire a un ulteriore sviluppo delle proprie.

Qui, penso, abbiamo l’idea emergente di una dimensione di “messa in comune” dei “Commons del sapere”.  Sospetto che derivi dalla mia esperienza di elaborare le cose in procedure di gruppo nella progettazione del software o nella produzione culturale.  Qui si ha un’apertura mentale che proviene dall’esperienza della progettazione del software open source e dallo sviluppo di gruppo delle idee, in cui i “bachi” sono considerati inevitabili, in cui essi sono risolti in processi collettivi, in cui qualcun altro può forse sviluppare creativamente qualcosa che si è fatto e la creazione intellettuale è un processo intrinsecamente collettivo.

Così io penso che ciò che ho sperimentato è stato effettivamente un “modo di produzione” collettivo all’opera, in cui “mettere in comune” significa partecipazione attiva alla produzione, insieme con i propri pari.  E ciò è non egoistico, non competitivo e non preoccupato di arraffare diritti di proprietà e vantaggi personali che, dopotutto, rallenterebbero e danneggerebbero il processo collettivo.

L’idea che fare le cose in questo modo sia molto più agevole e più creativo la posso davvero accettare … sino a un certo punto. Posso così accettare anche, fino a un certo punto, che sia  possibile che il  concepire reazioni alla crisi ecologica ed economica, sia qualcosa di sviluppato e progettato collettivamente e poi applicato alla produzione materiale. Sono consapevole, per esempio, che nella progettazione di “auto ecologiche”  sono coinvolti processi open source.

Questa idea può essere ampliata ulteriormente dall’ideazione e progettazione alla produzione materiale.  Così non sarebbero soltanto il software e le opere culturali a poter essere creati senza proprietà intellettuale in processi paritari, bensì anche i prodotti concreti, fatti di “roba”: veicoli, mobili, orti. (Produrre paritariamente [peer-to-peer] significa, qui, co-produrre senza un intermediario o un’organizzazione, come un datore di lavoro, che gestisca l’intero processo e poi rivendichi il prodotto del gruppo come proprio).

Al suo grado di massimo sviluppo ciò porta all’idea che i progetti open source dovrebbero essere presi e utilizzati da chiunque nei luoghi di lavoro della comunità locale.  Questi luoghi di “infrastruttura libera” opererebbero come centri di risorse e sarebbero dotati di macchine governate da computer che sarebbero in grado di creare veri prodotti materiali partendo dal progetti digitali (cosiddetti “Fab Lab”, vedere http://tangiblebit.com/).

Bene, è qui che la teoria dei Commons intellettuali si trasforma in produzione materiale.  Tuttavia a questo punto penso che dobbiamo tornare alla Terra.  Poiché questo sono visioni del futuro cui ho difficoltà a credere e voglio spiegare il perché.

Costi energetici

La documentazione del Congresso di Berlino sui Commons ha utilizzato una terminologia a proposito della “logica generativa dei Commons” per riferirsi al modo in cui i Commons possono essere e sono produttivi. Tuttavia, come evidenziato da alcuni, anche i Commons digitali sono basati su una infrastruttura ingorda di energia, e anche se possono esserci progettisti benintenzionati impegnati in progetti open source che cercano di ridurre l’utilizzo di energia e di prodotti materiali nella manutenzione dell’infrastruttura internet, i Commons digitali non sono affatto un pasto gratis. Così, ad esempio, produrre un personal computer costa 1800 KWh di energia e dunque consuma 11 volte il suo stesso peso in combustibili fossili prima ancora di essere utilizzato … e ciò anche prima che cominciamo a tener conto di tutti gli altri computer e di tutti i server molto più grandi cui avrà necessità di essere connesso e l’energia che l’intero insieme assorbe per funzionare.

Limiti materiali

Ma, per me, ci sono alcuni importanti problemi che vanno molto oltre quelli dell’energia utilizzata per creare e gestire internet e la sua infrastruttura. Anche se è vero che una parte considerevole dei costi finanziari di molti prodotti deriva al processo di progettazione, e che questi costi sono più elevati a motivo delle imposizioni riguardanti la proprietà intellettuale e l’addebito del costo dell’utilizzo della proprietà intellettuale, ciò nonostante la creatività che è liberata dai Commons del sapere che operano senza i vincoli della proprietà intellettuale non può, in sé e per sé stessa, cancellare i limiti alla crescita che sono stati il problema centrale per gli economisti ecologici.

E’ dunque da questa posizione che trovo difficile seguire interamente, ad esempio, Roberto Verzola dei Verdi delle Filippine che ha scritto un documento per il Congresso di Berlino intitolato “Abbondanza e Logica Generativa dei Commons”. Sì, sono d’accordo con Roberto sul fatto che internet sta producendo un’abbondanza di “informazioni e conoscenza”, ma l’abbondanza di informazioni non è la stessa cosa che l’abbondanza materiale.

Tanto per cominciare l’abbondanza di conoscenza e informazioni di cui uno dispone può restare ignota, o ignorata, o altrimenti disattesa da persone e istituzioni che necessitano di tali informazioni e dovrebbero conoscerle affinché siano concretamente utilizzate.

Di fatto c’è molta più informazione e conoscenza nel mondo di quanta possa essere oggetto della nostra attenzione ed esiste un intero insieme di istituzioni per attirare l’attenzione sui programmi degli interessi potenti che operano in modi non sostenibili e per distrarre l’attenzione dalle screditare le informazioni e le conoscenze riguardanti cose sui cui è necessaria un’azione urgente cercando di screditare e calunniare tali informazioni e conoscenze. Così, ad esempio, c’è stata abbondanza di informazioni e conoscenze per decenni sui tipi di sviluppo economico non sostenibile e sulle alternative sostenibili, ma c’è anche stata una struttura politica di potere economico che si è sentita in grado di ignorarle e di sedurre il grosso della popolazione dei paesi ricchi affinché dedicasse la propria attenzione ai consumi, agli acquisti, a stili di vita da celebrità, agli sport e agli svaghi distraenti.  Al tempo stesso c’è stata una campagna ampiamente riuscita per fuorviare deliberatamente la gente riguardo al cambiamento climatico e ad altri problemi.  Così, anche se c’è una grande quantità di informazioni, c’è anche un mucchio di ignoranza … ignor – anza, cioè.  Questa canalizzazione dell’attenzione di massa è basata su una conoscenza molto sofisticata della psicologia umana; in realtà il fondatore dell’attuale industria delle pubbliche relazioni e del marketing,  Edward Bernays,  ha ripetutamente attirato la sua attenzione sui suoi rapporti con Sigmund Freud e sul suo utilizzo di concetti che manipolano la predisposizione emotiva delle masse affinché si adatti all’élite al potere (compresi banchieri e baroni dell’energia).

In secondo luogo, anche se l’abbondanza di informazione fosse utilizzata utilmente per la ricerca di soluzioni ai nostri problemi, questa abbondanza di informazione potrebbe solo in misura limitata essere convertita in un’abbondanza di beni materiali o, più accuratamente, essa ha un potenziale limitato di mitigazione del declino cui la produzione sarà costretta dal declino dell’energia.

Consentitemi di essere attento a notare che Roberto è ben consapevole del picco del petrolio, ma non sono del tutto d’accordo con il suo punto di vista quando nel suo documento afferma:

Il grosso dell’acqua, del carbone, del ferro, del silicio e di altri minerali sulla Terra così come dell’energia proveniente dal sole è anch’esso una fonte di abbondanza.”

“L’abbondanza di minerali della Terra non è rinnovabile e deve essere amministrata in modo diverso dall’energia solare rinnovabile.”

“Con la produzione di petrolio che tocca il suo picco, per esempio, finirà il petrolio abbondante a buon prezzo. Il picco del petrolio dovrebbe impartirci una lezione indimenticabile quanto alla gestione dell’abbondanza. Quelli che non coglieranno la lezione opteranno per ulteriore carbone, energia nucleare e biocarburanti. Quelli che la coglieranno si rivolgeranno alle rinnovabili pulite, all’efficienza energetica e a una “discesa” pianificata. Le Città di Transizione stanno aprendo la via.”

“L’energia solare rende possibile altre risorse energetiche abbondanti quali l’acqua, il vento e il legno. Nel 2009, le rinnovabili hanno fornito il 25% della potenza energetica totale mondiale, grazie all’impennata dell’interesse della Cina per il biogas, l’energia solare e quella fotovoltaica. Lo stesso vale per la Germania. Le celle fotovoltaiche sono prodotte con silice semiconduttrice, il materiale base della rivoluzione digitale. (Ricordate quanto erano costosi gli schermi LCD dieci anni fa? Se il fotovoltaico seguirà una tendenza al ribasso dei prezzi simile ad altri beni digitali, possiamo aspettarci presto un’Era Solare. Anche l’idrogeno dall’acqua promette un’altra risorsa abbondante di energia.”

“Di passaggio, permettetemi di citare ancora un’altra fonte di abbondanza: le reti di relazioni umane positive in comunità amorevoli, che generano sentimenti di pace, appagamento, amore, felicità e altre gratificazioni psichiche che si sottraggono alla quantificazione.”

(Da “Abbondanza e Logica Generativa dei Commons” di Roberto Verzola, discorso di apertura dei Verdi delle Filippine per il Flusso III.)

Il messaggio di Roberto mi sembra essere: “Sì, ci sarà il picco del petrolio e sarà un problema, ma sarà un problema solo se in risposta saranno adottate le tecnologie energetiche sbagliate.  Se abbracciamo l’efficienza energetica e le tecnologie energetiche rinnovabili che scendono rapidamente di prezzo, allora non ci saranno problemi, ci sarà abbondanza, e questo senza citare un’abbondanza non misurabile di buoni sentimenti derivanti da relazioni umane positive.” (Esattamente cosa intenda Roberto con il termine “discesa” non mi è chiaro).

Da economista ecologico trovo queste idee inquietanti in questo tipo di congresso.  Sembrano contraddire al 100% le tesi sui “Limiti della Crescita” sviluppate in origine dagli studi commissionati dal Club di Roma negli anni ’70 e successivamente aggiornate e confermate studio dopo studio.

Posso accettare in pieno la possibilità di un’abbondanza non misurabile di buone sensazioni derivanti da relazioni umane positive … anche se il fatto che  tale possibilità si realizzi in qualche modo dipende dal nostro successo, o mancanza di successo, nel ri-sviluppare i Commons e la messa in comune come base delle relazioni umane … tuttavia la nozione di un’abbondanza di abbondanza materiale io davvero non la ritengo credibile.  Questo significa voler ignorare il fatto che il Pianeta Terra ha una capacità di sostegno ecologico limitata e tutti gli studi dimostrano che l’abbiamo considerevolmente oltrepassata.

Argomenti a sostegno

Torniamo alle questioni di fondo. Innanzitutto come spieghiamo e misuriamo quale produzione materiale ha luogo? Un buon modo per farlo consiste nel prendere la quantità di energia che è applicata ai processi economici, aggiustare la misura dell’energia in rapporto all’efficienza con la quale l’energia è trasferita alla trasformazione di materiali e di “roba” che viene incorporata nei prodotti. Così si ottiene una misura della quantità di “lavoro” impiegato nella produzione materiale, dove il termine “lavoro” non è un riferimento al lavoro umano bensì alla fisica dell’applicazione dell’energia alla trasformazione e al trasporto dei materiali, processi fisici che sono soggetti alle leggi della termodinamica.

Così la quantità di produzione materiale nell’economia è collegata a quanta energia viene utilizzata E a quanto efficientemente è utilizzata.

Infatti questo modo di considerare la produzione, e la crescita della produzione, funziona più che bene quando è applicato a dati reali. Due autori, Ayres e Warr, hanno utilizzato quest’ottica allo studio della crescita nell’economia USA. Tra il 1900 e il 1975 essa offre una spiegazione quasi perfetta dell’andamento della crescita della produzione materiale.

Vedere http://www.helsinki.fi/iehc2006/papers2/Warr.pdf  [Questo link sostituisce quello indicato nell’originale e che pare non più attivo http://www.iea.org/work/2004/eewp/ayres-paper1.pdf – il contenuto dovrebbe essere lo stesso – n.d.t.]

Ora vi è ancora spazio in questo modello perché l’ingegno umano migliori l’efficienza con cui l’energia è trasferita alla produzione.  E c’è dello spazio per la produzione immateriale, che potrebbe aumentare. Ma la produzione immateriale deve essere inserita e incorporata nei processi materiali e anche nelle cose; persino un taglio di capelli richiede forbici, un locale, una sedia, illuminazione …

E quando si tratta di produrre cose materiali, non si può continuare ad accrescere l’efficienza del trasferimento di energia ai processi produttivi, e neppure si può continuare ad aumentare gli apporti di energia, specialmente in una fase della storia in cui la concentrazione di energia resa possibile dal bruciare fonti di energie costituite da combustibili fossili comincia a scemare a causa dell’esaurimento, al superamento del picco della produzione di petrolio, del picco del gas, del picco del carbone … (per non citare il picco dell’uso dell’atmosfera che abbiamo superato da un po’ di tempo).

Il limite delle fonti rinnovabili (di energia)

Ma che dire delle energie rinnovabili? Possono essere la base dell’ “abbondanza”, cioè la tesi di Roberto con la quale non concordo?

Dobbiamo affrontare il fatto chiave che c’è un limite assoluto alla quantità di energia solare e di energie rinnovabili disponibili, indipendentemente da quanto ingegnosamente ed economicamente progettiamo l’infrastruttura per impossessarcene e indipendentemente da quanto siamo in gamba come giardinieri e progettisti di permacoltura per impossessarcene attraverso le piante.

La “logica generativa dei Commons” deve vedersela con il fatto che l’energia della luce solare grezza a mezzogiorno di un giorno senza nuvole è di 1000 W per metro quadrato, ma si tratta di 1000 W per metro quadrato di are orientata verso il sole, non per ogni metro quadrato di terra.  Per ricavare l’energia per metro quadrato di terra in Inghilterra, dove vivo, dobbiamo correggere i nostri calcoli in funzione dell’inclinazione tra il sole e la terra, che riduce l’intensità del sole di mezzogiorno a circa il 60% del suo valore all’equatore. E naturalmente non è sempre mezzogiorno. E ovviamente in Inghilterra, e i molti altri luoghi, il cielo è spesso nuvoloso. In una tipica località inglese il sole splende solo nel 34% delle giornate diurne.

Globalmente la radiazione solare in arrivo è pari a 122 Petawatt, quantità che è di un ordine di grandezza di quattro volte superiore rispetto all’energia primaria totale utilizzata dall’umanità, ma data la bassa densità con cui ricade sull’intero pianeta, raccoglierla per i processi produttivi è un processo a costosa intensità energetica.  Molte delle idee attuali per raccogliere l’energia solare per l’uso umano presuppone che possiamo farlo mediante biomasse e piante in base alla fotosintesi.  Forse la permacoltura ha davvero molto da offrirci, ma non può risolvere il fatto che in Inghilterra, considerata la copertura delle nuvole e tutti gli altri problemi, ci sono solo 100 watts che ricadono in media su ogni metro di terreno piatto da raccogliere mediante le piante.  Né l’ingegno umano e la logica generativa dei Commons può fare molto riguardo al fatto che le piante migliori, ad esempio, in Europa, possono convertire soltanto il 2% di tale energia solare in carboidrati.

E in più è bene ricordare che gli esseri umani si impossessano già del 30-40% della Produzione Primaria Netta del pianeta (biomassa) sotto forma di cibo, foraggi, e combustibile con il legno e i residui dei raccolti che forniscono il 10% dell’utilizzo globale umano dell’energia.  Anche un aumento relativamente contenuto che porti l’umanità a utilizzare la biomassa fino al 50% della produzione di biomassa del pianeta comprometterebbe e distruggerebbe apporti estremamente importanti dell’ecosistema.  Infatti, a causa della crisi del clima,  abbiamo bisogno di utilizzare la biomassa per togliere l’anidride carbonica dall’atmosfera.  Lo spazio di manovra, ammesso che esista, è molto scarso.

Cose simili si possono dire delle risorse di energie rinnovabili. Sì, fanno parte del futuro; sì, fanno parte di ciò che è necessario; sì, l’ingegno può accrescere la loro efficienza nel raccogliere energia. Ma no, non possono e non potranno mai fornire “abbondanza” se per abbondanza intendiamo abbondanza di produzione materiale.

Con l’attuale utilizzo umano dell’energia, globalmente a circa 13 Terawatt nel 2005 come parametro, dobbiamo prendere atto del fatto che, dopo l’energia solare

“Nessun’altra risorsa energetica rinnovabile può offrire più di 10 TW. Stime generose di fattibilità tecnica massima (le percentuali economicamente accettabili sarebbero molto inferiori) sono meno di 10 TW per l’eolico, meno di 5 TW per le onde oceaniche, meno di 2 TW per l’energia idroelettrica e meno di 1 TW per l’energia geotermica, quella delle maree e quella delle corrente oceaniche.” (Vaclav Smil “Energy in Nature and Society: General Energetics of Complex Systems” MIT Press, 2008, pagg. 382-383).

Riconsideriamo dunque la tesi. L’abbondanza materiale esige abbondanza di energia per compiere il lavoro fisico della trasformazione e del trasporto della materia per trasformare buone idee e progetti in prodotti disponibili agli utilizzatori.  Al momento l’umanità utilizza circa 13 TW di energia e la disponibilità di tale quantità è destinata a ridursi in misura molto spettacolare.  Indipendentemente da quanto abili noi siamo, la quantità che possiamo sostituire con le rinnovabili è anch’essa rigidamente limitata … un’infrastruttura di energia rinnovabile richiederà una quantità considerevole di energia per essere realizzata e dovrà concentrare flussi di energia naturale dispersa su vaste aree geografiche. Inoltre questi flussi naturali di energia sono essi stessi soggetti a limiti assoluti di disponibilità.

Conclusione

La mia conclusione è che, parlare di abbondanza sia un messaggio molto fuorviante.  I Commons hanno molto da offrirci, condividere idee senza i vincoli della proprietà intellettuale ci aiuterà, ci aiuteranno anche la condivisione di energia e produzione scarse e accordi e infrastrutture di produzione di gruppo, condividere potrà portarci a relazioni umane con molte gratificazioni psicologiche ed emotive. In tal senso possiamo descrivere i Commons come “aventi una logica generativa”. Ma l’ “abbondanza” non è un messaggio con il quale concordo, se intesa si intende, o si implica vada intesa, abbondanza di produzione materiale.  Secondo me l’uso del termine “abbondanza” è un’immagine fuorviante del futuro verso il quale ci stiamo dirigendo.

L’abbondanza di informazioni su come potremmo fare le cose non è la stessa cosa che l’abbondanza di cose; è un’abbondanza di ricette, non un’abbondanza di cibo.

Da Socialforge – Un laboratorio di creazione sociale

http://www.socialforge.org

Fonte: http://p2pfoundation.net/Abundance_of_Food_vs_the_Abundance_of_Recipes

Originale: p2pfoundation

Traduzione di Giuseppe Volpe

© 2012 Socialforge – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

Alcune riflessioni sui Commons

Documento per la Conferenza internazionale sui Commons tenutasi a Berlino il 31 ottobre 2010, preparato dal Comitato Direttivo (Michael Bauwens, David Bollier, Beatriz Busaniche, Silfe Helfrich, Julio Lambing, Jeike Loeschmann) per stimolare il dibattito e la riflessione.

Tesi chiave: I Commons (*) sono ciò che rende possibile ogni altro obiettivo sociale, compresi gli obiettivi ambientali che sono, essenzialmente, sociali.

Flusso I : I Commons come Sfida all’Economia Classica

A. I commons non riusciranno a contrastare l’economia contemporanea e la struttura istituzionale convenzionale se non:

  • metteranno in discussione le convinzioni chiave sottostanti l’economia tradizionale e le correlazioni comportamentali indotte dalle strutture istituzionali prevalenti;
  • reinterpreteranno il significato di proprietà dalla proprietà privata alla tutela collettiva; e
  • svilupperanno concetti coerenti che siano anche empiricamente dimostrabili e convincenti alternative alla convenzionale “somma finale” numerica;

B. Le caratteristiche intrinseche dei commons sono l’abbondanza e la diversità.

  • Se rispettiamo la diversità e ci organizziamo per l’abbondanza, i commons (ri)produrranno costantemente abbastanza per tutti.
  • Ogni qualvolta possiamo – in caso di risorse e generosità non rivali – il prodotto dei commons dovrebbe essere universalmente disponibile; quando ciò non è possibile – nel caso di risorse rivali – il prodotto dei commons dovrebbe essere distribuito equamente.

C. Una società realizzabile si basa sulla cooperazione e la co-produzione anziché sulla divisione classica del lavoro che separa i produttori e fornitori di risorse dagli utilizzatori di esse e che tratta la natura, la comunità e la cultura come esternalità sfruttabili.

D. I mercati non sono la sola fonte di creazione della ricchezza. I commons, che sono ricettivi alle voci popolari democratiche e alla pressione delle nostre risorse biotiche, possono funzionare come economie parallele all’economia monetaria, comprese le economie di sussistenza e le economie del dono. Un altro modo promettente per fare questo consiste nello sviluppare piattaforme software su base comunitaria. Nel tempo tali piattaforme di comunicazione si possono ampliare a nuovi tipi di scambio sociale, ad esempio a monete digitali, esterne alle monete nazionali e ai mercati convenzionali. Tali processi rafforzerebbero le comunità urbane e rurali resistenti e consentirebbero loro di prendere nelle proprie mani la riproduzione del sostentamento.

E. L’intero sistema economico delle società moderne dipende profondamente dallo stato, che crea intere industrie e provvede a strutture regolamentari. La richiesta di beni e servizi da parte dello stato è un altro esempio. Di fatto l’approvvigionamento pubblico e lo sviluppo infrastrutturale fanno la parte del leone nelle nostre economie. Perciò è urgentemente necessaria una svolta verso approvvigionamenti basati sui beni comuni. Ciò comprende, ad esempio, vantaggi fiscali per il sapere, le informazioni e le infrastrutture generate liberamente o procedure di gara basate su criteri stabiliti che rafforzino la partecipazione delle comunità interessate.

F. C’è necessità di identificare e comunicare chiaramente i “criteri vincenti” dei commons e/o una tassonomia generale di commons riusciti. Ma sviluppare indicatori per la messa in comune creativa e produttiva è notoriamente difficile. E’ perciò essenziale contribuire allo sviluppo di metri di misura inclusivi che riconoscano criteri chiave per una creazione di ricchezza più vasta.

Flusso II: I Commons sfidano il Duopolio Stato/Economia

A. I commons sono il terzo elemento, in aggiunta allo stato e al mercato, che richiedono sostegno strutturale e intellettuale.

B. I commons offrono un ricco insieme di modelli di governo e la loro natura costitutiva si sforza di conseguire un nuovo stile di appropriazione e partecipazione sociale. Nonostante la loro diversità e la loro dipendenza da certe leggi o dal sostegno dello stato, i commons tendono ad essere stabili e a facilitare l’autonomia sociale e un’efficace amministrazione delle risorse. Ciò nonostante un commons vincente è sempre il prodotto di uno sforzo e di una lotta continui.

C. “I commons al di là del mercato e dello stato” non significa necessariamente senza mercato e senza stato, se consideriamo la loro ricca storia, l’enorme diversità e dispersione geografica. Ma significa necessariamente che le persone e i loro commons, con il sostegno di uno stato partner, divengono il centro della creazione della ricchezza. I commons mirano a creare un’economia etica vibrante di nuove forme di mercato che non ignorano le esternalità naturali e sociali, ma le includono nella propria logica di funzionamento.

D. Gli aventi titolo ai commons trascendono la cittadinanza basata sullo stato-nazione e le società civili nazionali. E la loro identità va oltre quella di consumatori passivi per arrivare a quella di co-produttori responsabili. I detentori di commons sono radicati in un’enorme varietà di comunità reciprocamente dipendenti. Una delle idee centrali a proposito dei commons è quella che la protezione e la creazione di ricchezza comune sia non solo di beneficio per gli stessi detentori dei beni comuni ma lo sia per le società locali e per quella globale cui essi pure appartengono. L’idea centrale dei commons è: ho bisogno degli altri e gli altri hanno bisogno di me.

E. Ciò di cui abbiamo bisogno non è soltanto di una regolamentazione statale, bensì di una maggiore responsabilità e rispondenza nei confronti delle comunità coinvolte riguardi ai criteri del benessere. Questa è la chiave. Invece di ridimensionare lo stato rafforzando la logica del mercato, una politica basata sui promuove il ridimensionamento della scala e del campo dei mercati rafforzando “istituzioni relative ai beni comuni”. Ciò significa creare istituzioni progettate per operare come fiduciarie dei commons e come attivatrici di essi. Nuove tecnologie sociali e reti distribuite – che devono essere basate sull’uso sostenibile dell’energia – possono stimolare questo processo.

F. I Commons globali implicano un nuovo tipo di multilateralismo che emancipi gli abitanti locali al ruolo di cittadini e metta gli stati-nazione in condizioni di collaborare più efficacemente per superare i problemi di azione collettiva globale.

Flusso III: La Logica Generativa dei Commons

A. Per costruire i commons dobbiamo costruire comunità robuste che a loro volta richiedono forme cooperative e deliberative di comunicazione e di decisione. Le comunità servono anche da palestre di apprendimento per lo sviluppo delle competenze e degli atteggiamenti e ottiche necessarie per la messa in comune.

B. I commons, come forma auto-organizzata di produzione paritaria [peer-to-peer o P2P] seguono una logica propria. La produzione paritaria presuppone l’equipotenza dei propri partecipanti, è basata sulla collaborazione libera, mira alla creazione di beni comuni e cerca di essere al servizio del maggior bene di tutti. Crediamo che questo modo di produzione sia almeno altrettanto produttivo che i modelli che ignorano i commons. E in termini di perseguimento della ricchezza sociale e della riproduzione della diversità, i modelli di produzione su base comunitaria possono riuscire anche meglio di quelli basati sull’imposizione, il controllo e/o la vendita.

C. La produttività non può essere semplicemente una misura artificiale dei risultati di un’impresa; deve tenere conto di tutti i costi, compresi quelli celati delle sovvenzioni, i danni all’ambiente e altri tipi di valori non quantificabili, non di mercato di cui i commons tengono conto di routine.

D. I commons significano prendere la vita nelle proprie mani. Il sapere è la chiave per farlo, ma il sapere è più che l’accesso al sapere e l’accesso al sapere è qualcosa di più che la costruzione di infrastrutture tecniche. La rapida diffusione del sapere e dell’innovazione a tutti coloro che ne hanno necessità richiede:

  • la condivisione di informazioni, codici, competenze e progettualità attraverso piattaforme accessibili universalmente o a base comunitaria;
  • la competenza per la comprensione e la riflessione, e
  • la loro appropriazione per modellare i nostri habitat sociali.

Concepire il sapere come un commons garantisce una giusta condivisione dell’innovazione, senza gli attriti e gli occultamenti causati alla condivisione da eccessive regole sulla proprietà intellettuale.

E. Le strutture istituzionali possono articolare e rendere possibili nuovi commons, ma possono anche
danneggiare i collegamenti e l’etica sociale che sono indispensabili ai commons. Perciò una sfida chiave
nell’ideare effettive politiche a base comunitaria consiste nell’equilibrare correttamente questi due
interessi. La burocratizzazione dei commons non è un commons, ma un paradosso a proposito del quale
occorre che prestiamo attenzione.

Per il successo di una politica orientata al commons sono imperativi un’alleanza e un onesto scambio di
esperienze e saperi tra tutti coloro che lavorano ai commons sociali, ecologici, sociali e culturali.

[…]

(*) NdT: Viene mantenuto il termine inglese ‘commons’ non risultando ancora sufficientemente attestata una traduzione italiana che non risulti limitativa o fuorviante; il termine da considerarsi il candidato migliore è ‘comunanza/e’; storicamente il concetto risale a una storia di secoli di risorse utilizzate in comune da una collettività, prevalentemente terreni agricoli o risorse boschive. Residuano ancora realtà di questo tipo in alcune regioni italiane, tuttavia stanno scomparendo per l’abbandono dell’agricoltura, silvicoltura su piccola scala. Personalmente considero una specie di rivalsa della storia il fatto che una realtà di sussistenza delle classi umili del passato possa riproporsi, reinterpretata alla luce di nuove analisi concettuali e potenzialità tecnologiche, come efficace alternativa al dominante sistema di produzione/distribuzione capitalista. Peraltro la lunga storia dei commons come comunanza di uso di risorse materiali, compresa a volte la distribuzione equa del loro sfruttamento, testimonia che il/i commons non sono necessariamente, come a volte si sostiene, limitati alla condivisione di attività/prodotti immateriali anche se l’esperienza moderna di maggiore successo risulta quello del Software Libero o Open Source.

Da Socialforge – Un laboratorio di creazione sociale

www.socialforge.org

Fonte: http://p2pfoundation.net/Some_Thoughts_on_the_Commons

Originale: P2P Foundation

Traduzione di Giuseppe Volpe

(c) 2012 – Socialforge Licenza Creative Commons BY-NC-SA 3.0

Che cosa è Oekonux?

Dieci paradigmi sviluppati dal Progetto Oekonux

di Stefan Meretz, Keimform 29/12/2011

NdT: Questo documento, pubblicato da Stefan Meretz sul blog Keimform tra il 20 ottobre ed il 29 dicembre 2011, descrive il lavoro teorico di ricerca svolto nel corso di dieci anni sul software libero e sulla produzione paritaria su base comunitaria dal progetto tedesco Oekonux (http://www.oekonux.org). Il documento è stato preparato per essere pubblicato sulla rivista Critical Studies in Peer Production (CSPP).

Abstract

Il progetto Oekonux cerca di creare nuove basi per analizzare un fenomeno storico nuovo: l’emergere della produzione paritaria, a partire dalla creazione del software libero. Se è valida l’ipotesi iniziale che il software libero sia la forma germinale di un nuovo modo di produzione oltre il capitalismo, sarebbe necessario sviluppare nuovi modelli epistemologici per essere in grado di analizzarlo adeguatamente. Ciò richiede la comprensione e la critica di vecchie nozioni analitiche in quanto prodotti storici del modo capitalista sopravvissuto di produzione del nostro sostentamento, comprese quelle che mirano ad essere in opposizione al capitalismo. In questo documento presento dieci modelli che sono emersi dai dibattiti del Progetto Oekonux. Essi dimostrano cosa significhi andare oltre gli schemi di analisi tradizionalmente di conferma o tradizionalmente di contrasto, o “di sinistra”. Anche se ricavati dai dibattiti del Progetto Oekonux, questi modelli non sono mai stati presentati in maniera così concentrata. Ovviamente non tutti i modelli saranno condivisi dagli altri partecipanti a tali dibattiti, perché alla fin fine si tratta di conclusioni mie personali ricavate da oltre dieci anni di discussioni.

Introduzione

In questo testo cercherò di offrire una qualche introduzione alle idee principali che sono state sviluppate dalla fondazione del progetto Oekonux nel 1999. Non c’è un insieme fisso di pensieri e personalmente ho la mia ottica personale riguardo alle idee Oekonux.

Perché il progetto Oekonux è così rilevante per il dibattito sulla produzione paritaria su base comunitaria? Ci sono due motivi. Primo: Oekonux ha sviluppato molte delle idee con le quali molti ricercatori hanno familiarità da molti anni prima che esse arrivassero a un pubblico più vasto. Oekonux è stato fondato come un progetto di riflessione sul software libero, ma era presente sin dall’inizio la questione della generalizzazione delle osservazioni sul software libero ad altri settori dei beni immateriali e materiali. Quando Yochai Benkler (2006) coniò il termine produzione paritaria su base comunitaria (NdT: in inglese, commons’ based peer production) non fece che condensare in un’espressione accattivante un dibattito durato anni, ma le intuizioni non erano molto nuove e suonavano molto familiari ai partecipanti al Oekonux. Conseguentemente il termine è stato adottato dal progetto Oekonux.

Secondo: i partecipanti a Oekonux si sono spinti molto più in là di altri nel mettere in discussione il modo accettato di pensare. Sono state sviluppate nuove tesi che non solo hanno rifiutato gli schemi del dibattito tradizionale nelle scienze informatiche, in sociologia e in economia, ma anche negli approcci politici e teorici emancipativi. Stefan Merten, il fondatore di Oekonux che proviene da precedenti di anarco-marxista, rifiuta provocatoriamente “le ideologie di sinistre e le altre ideologie capitaliste” (Merten 2011) per l’analisi della produzione paritaria. Questo suona molto post-moderno, ma l’intenzione era molto diversa: tutti i mezzi di emancipazione dovranno svilupparsi proprio davanti ai vostri occhi, ma dobbiamo anche afferrarli teoricamente. Gli schemi tradizionali della sinistra non sono adatti a questo, perché aderiscono al modo di produzione determinato per il quale è condotta l’analisi.

Per molti, tradizionalisti di ogni schieramento, questa è stata una provocazione enorme. E ci sono stati molti scontri politici e culturali all’interno del progetto. Ma c’è stato anche un nucleo di persone che ha costantemente portato più avanti l’approccio Oekonux. Nel seguito cerco di descrivere alcuni modelli Oekonux, che ovviamente rappresentano la mia interpretazione del dibattito Oekonux. Quando uso il passato parlando di Oekonux non è perché il progetto non esista più. Esiste ancora e la rivista Critical Studies in Peer Production (NdTRivista di Studi Critici sulla Produzione Partecipativa)non è l’unico prodotto collaterale del progetto; ce ne sono stati molti altri, cosicché la concentrazione si estende a diversi progetti ispirati da Oekonux.

In un’intervista a Joanne Richardson, Stefan Merten (2001) ha descritto Oekonux come un progetto per valutare il software libero nel suo “potenziale per una società diversa oltre il lavoro, il denaro, lo scambio”. Qui egli offre le parole chiave su cui è stato costruito il pensiero Oekonux. Le riproporrò e le amplierò per illustrare perché e come le principali idee contraddicano così fortemente il pensiero tradizionale di sinistra, specialmente quando Oekonux è stato avviato nel 1999 (Merten 1999).

Paradigma 1: Oltre lo Scambio

Il software libero o, più in generale, la produzione paritaria su basi comunitarie non riguarda lo scambio. Dare e ricevere non vanno in coppia. Nell’ottica di oggi questo potrebbe non sembrare sorprendente, ma lo è stato agli inizi del progetto Oekonux. Ancor oggi gli approcci tradizionali della sinistra tradizionale sono basati sull’assunto che si sia autorizzati a ricevere qualcosa solo se si è disponibili e in grado di dare qualcosa in cambio, perché se tutti si limitassero a prendere allora la società morirebbe. Questa posizione potrebbe essere riferita a una penosa tradizione socialista (e cristiana) secondo cui chi non è disponibile a lavorare non dovrebbe mangiare. Tuttavia il software libero ha dimostrato chiaramente che gli sviluppatori non hanno bisogno di essere obbligati a fare quello che amano fare (vedere paradigma 5).

Un approccio importante che ha cercato di afferrare i nuovi sviluppi del software libero, seppur restando incollato al vecchio modo di pensare, è stato l’approccio dell’ “economia del dono”. Tuttavia non è un caso che l’espressione corretta sia ritenuta essere “l’economia dello scambio di doni”. Chi dà può aspettarsi di ricevere qualcosa in cambio, perché ciò è un dovere morale nelle società basate sullo scambio di doni. Questo tipo di dovere personale reciproco non esiste nel software libero. Anche se uno sviluppatore afferma di volere “dare qualcosa in cambio”, questo dare non è una precondizione per ricevere qualcosa. In generale, la produzione paritaria su base comunitaria si basa su contributi volontari incondizionati.

In un’ottica di sinistra, il dare e ricevere disaccoppiato potrebbe essere possibile solo in una terra mitica in un futuro lontano chiamato Comunismo, se ma fosse possibile. Ma mai oggi, perché prima che il comunismo sia possibile, è necessaria una fase intermedia poco gradevole chiamata socialismo aggrappata al dogma dello scambio (vedere paradigma 8). Storicamente il “socialismo realmente esistente” che ha cercato di attuare tale necessità è fallito, cosa che accadrà con tutti gli approcci socialisti che accettino il dogma dello scambio.

Se non si vuole rinunciare allo scambio, il capitalismo è l’unica opzione che rimane.

Paradigma 2: Oltre la Scarsità

E’ un malinteso comune che le cose materiali siano scarse mentre non lo siano quelle immateriali. Sembra giustificato mantenere i beni materiali sotto forma di merci mentre è richiesto che i beni immateriali siano gratuiti. Tuttavia questo assunto trasforma una proprietà sociale in una proprietà naturale. Nessun bene prodotto è scarso per natura. La scarsità è una conseguenza del fatto che i beni sono prodotti sotto forma di merci e pertanto la scarsità è un aspetto sociale della merce creata per il mercato. Nell’era digitale ciò è evidente a proposito dei beni immateriali, in quanto possiamo constatare chiaramente le misure adottate per rendere artificialmente scarsi tali beni. Tali misure includono leggi (basate sulla cosiddetta “proprietà intellettuale”) e barriere tecniche per evitare il libero accesso ai beni. Sembra essere meno ovvio per i beni materiali, perché siamo abituati alla non accessibilità dei beni materiali se non paghiamo per essi. Ma le misure sono le stesse: leggi e barriere tecniche, accompagnate dalla distruzione continua di merci per mantenerle rare abbastanza da ottenere un prezzo adatto sui mercati.

Inoltre sembra ovvio che dipendiamo tutti da beni materiali che possono non essere disponibili in quantità sufficienti. Anche i beni immateriali dipendono da un’infrastruttura materiale, al minimo i nostri cervelli (nel caso del sapere) che pure devono essere alimentati. Ciò è decisamente vero e tuttavia non ha nulla a che fare con la “scarsità naturale”. Poiché tutti i beni di cui abbiamo necessità devono essere prodotti, l’unica questione è come debbano essere prodotti in senso sociale. La forma di merce è un’opzione, la forma di risorsa comune è un’altra. Le merci devono essere prodotti in misura scarsa per realizzare il loro prezzo sul mercato. Le risorse comuni possono essere prodotte in base ai bisogni di che utilizza una determinata capacità produttiva. Possono esserci limitazioni contingenti, ma i limiti sono sempre stati soggetti alla creatività umana per essere superati.

Forse alcune limitazioni non potranno mai essere superate, ma questo, di nuovo, non è un motivo per rendere i beni artificialmente scarsi. In questi rari casi si possono utilizzare accordi sociali per organizzare un utilizzo responsabile della risorsa o del bene limitati. Il movimento per i beni comuni ha imparato che sia le merci rivali sia quelle non rivali possono essere prodotte come beni comuni, ma richiedono un trattamento sociale diverso. Mentre le merci non rivali si conviene siano accessibili gratuitamente per evitarne il sottoutilizzo, ha senso evitare il sovrautilizzo delle merci rivali trovando regole o misure adatte o a organizzare un uso sostenibile o a ampliare la produzione collettiva e così la disponibilità della merce rivale.

La scarsità è un fenomeno sociale che è inevitabile se i beni sono prodotti in forma di merce. Spesso la scarsità è confusa con i limiti che possono essere superati mediante gli sforzi e la creatività umana.

Paradigma 3: Oltre la Merce

Nei suoi studi Elinor Ostrom rilevò che “né lo stato né il mercato” sono mezzi efficaci per la gestione delle risorse comuni (1990). Basandosi sull’economia tradizionale ella analizzò le pratiche relative alle risorse comuni naturali e in conclusione dimostrò semplicemente errati i dogmi liberali. I mercati non sono un buon modo per allocare le risorse e lo stato non è un buon modo per redistribuire la ricchezza e gestire le conseguenze distruttive dei mercati. Risultati migliori si hanno se le persone si organizzano in base alle proprie necessità, esperienze e creatività e trattano le risorse e i beni, non come merci bensì come un serbatoio comune di risorse.

Questo è esattamente quel che accade nel software libero. E’ interessante che ci siano voluti tanti anni per comprendere che il software libero è una risorsa comune e che è fondamentalmente identico a ciò di cui Elinor Ostrom e altri parlavano tanto tempo prima. Un aspetto debole della ricerca tradizionale sulle risorse comuni e della prima fase del software libero è stato che non esisteva una chiara nozione di merce e non merce. E’ stato il progetto Oekonux che ha affermato chiaramente: il software libero non è una merce. Questa massima è strettamente collegata all’intuizione che il software libero non è oggetto di scambio (v. paradigma 1).

I critici di sinistra hanno sostenuto che l’essere ‘non merce’ è qualcosa di limitato al regno dei beni immateriali, come il software. Dal loro punto di vista il software libero è solo una “anomalia” (Nuss, Heinrich 2002) mentre i beni “normali” nel capitalismo devono essere merci. Questo assioma, tuttavia, è strettamente legato all’accettazione del dogma della scarsità (v. paradigma 2). Inoltre esso tratta il capitalismo come una specie di modo normale e naturale di produzione in condizioni di “scarsità naturale” (dal loro punto di vista). Quest’ottica capovolge completamente le relazioni reali. Il capitalismo si è potuto stabilire soltanto appropriandosi delle risorse comuni, privando le persone del loro tradizionale accesso alle risorse al fine di trasformarle in lavoratori. Questa appropriazione delle risorse comuni è un processo in corso. Il capitalismo può esistere solo separa costantemente le persone dalle risorse, rendendole artificialmente scarse. Una merce – per quanto attraente possa apparire nei centri commerciali – è il risultato di un processo violento in corso di appropriazione e spossessamento.

Lo stesso processo si verifica nel software. Il software proprietario è un modo di spossessare la comunità scientifica e di sviluppo del proprio sapere, esperienza e creatività. Il software libero è stato inizialmente un atto difensivo di mantenimento della comunitarietà delle risorse comuni. Tuttavia, poiché il software è in prima linea nello sviluppo di forze produttive, si è rapidamente trasformato in un processo creativo di superamento dei limiti e dell’alienazione del software proprietario. In un settore speciale il software libero ha creato un nuovo modo di produzione che è destinato ad estendersi ad altri settori. (v. paradigma 10).

I beni che non sono resi artificialmente scarsi e non sono oggetti di scambio non sono merci bensì risorse comuni.

Paradigma 4: Oltre il Denaro

Poiché il denaro ha senso solo per le merci, una “non merce” (v. paradigma 3) implica che non vi sia coinvolto denaro. Il Software Libero va dunque oltre il denaro. D’altro canto vi è naturalmente una quantità di denaro che gira intorno al Software Libero: gli sviluppatori sono pagati, le aziende spendono denaro, attorno al Software Libero si creano nuove imprese. Questo ha confuso molti, anche a sinistra. Si attengono a un modo di pensare del tipo “o questo o quello”, essendo incapaci di interpretare queste considerazioni come un processo contraddittorio di sviluppo parallelo in un periodo di transizione sociale (v. paradigma 10).

Il denaro non è uno strumento neutro; il denaro può comparire in situazioni sociali diverse. Può essere denaro proveniente da stipendi/salari, essere denaro investito (capitale), profitto, contante ecc. Funzioni diverse devono essere analizzate in modo diverso. Nel Software Libero non è coinvolta la forma di merce e dunque il denaro, nello stretto senso di vendere una merce per un certo prezzo, non esiste. Tuttavia Eric Raymond ha spiegato come far soldi utilizzando una “non merce”; combinandola con un bene scarso. In una società capitalista dove solo pochi beni si sono sottratti al regno delle merci, è fuori questione che tutti gli altri beni continueranno a esistere come merci. Sono mantenuti scarsi e sono combinati con un bene senza prezzo. Utilizzando un’ottica di valorizzazione non si tratta di nulla di nuovo (ad esempio fare regali per attrarre clienti). Usando un’ottica di riconoscimento di una forma germinale in questa modalità si avvia un nuovo modo di produzione da sviluppare all’interno del vecchio modello tuttora esistente.

Ma perché le imprese danno denaro se tale denaro non è un investimento nel senso tradizionale, ma una specie di donazione, ad esempio per pagare gli sviluppatori del Software Libero? Perché la IBM ha messo un miliardo di dollari nel Software Libero? Perché sono state costrette a farlo. Economicamente parlando hanno dovuto svalutare un settore d’affari per salvare altre aree reddituali. Devono bruciare soldi per creare un ambiente costoso per le proprie vendite (ad esempio di hardware dei server). Poiché l’appropriazione di beni comuni è una precondizione del capitalismo, è vero anche il contrario. Estendere i beni comuni a un campo attualmente dominato dalle merci significa che quel campo è sostituito dai beni liberamente disponibili.

Tuttavia le “quattro libertà” del Software Libero – utilizzo, studio, modifica e redistribuzione – (Free Software Foundation, 1996) non parlano di “libero” nel senso di “gratuito”. Gli slogan del tipo “libero come in ‘libertà’, non libero come in ‘birra gratis’” sono una moltitudine. Ciò va assolutamente bene e non contraddice la massima “oltre il denaro”, perché le quattro libertà non dicono nulla a proposito del denaro. Le quattro libertà riguardano la libera disponibilità, riguardano l’abbondanza. Dunque l’assenza di denaro è un effetto indiretto. Beni abbondanti, e quindi non scarsi, non possono essere merci (vedi paradigma 2) e non possono produrre denaro. Tuttavia far soldi non è vietato di per sé.

C’è stata una quantità di tentativi di integrare la circolazione comunitaria libera del Software Libero (non oggetto di scambio, non merce) all’interno del tradizionale paradigma economico, che è basato sullo scambio e la merce. Il più notevole è stata la “economia dell’attenzione”, che affermava che i produttori non scambiano beni bensì attenzione (Goldhaber, 1997). Si era concluso che l’attenzione fosse la nuova moneta. Ma è stato solo un tentativo disperato di restare attaccati a vecchi termini che né hanno funzionato correttamente, né hanno offerto intuizioni nuove, e così non è stato rilevante. Tralascio qui svariati altri tentativi simili.

Essere oltre il denaro ha come conseguenza diretta non essere merce.

Paradigma 5: Oltre il Lavoro

Il Software Libero, e i beni comuni in generale, sono oltre il lavoro. Ciò può essere compreso solo se si afferra il concetto di ‘lavoro’ come attività produttiva specifica di una certa forma storica di società. Vendere la forza lavoro – cioè la capacità di lavorare – a qualche capitalista che la utilizza per produrre un valore superiore a quello della forza lavoro è qualcosa di unico nella storia. Ciò ha due conseguenze importanti.

Primo: trasforma l’attività produttiva – che è sempre stata usata dagli uomini per provvedere alla propria sussistenza – in lavoro alienato. Tale alienazione non è imposta attraverso il dominio personale, ma mediante una coercizione strutturale. Nel capitalismo gli esseri umano possono sopravvivere solo se pagano per la propria sussistenza, il che costringe le persone a guadagnare soldi. Guadagnare soldi si può attuare o vendendo la propria forza lavoro o acquistando e valorizzando la forza lavoro di altri. Il risultato è un processo distorto in cui esigenze strutturali prescrivono quello che una persona deve fare (vedi paradigma 6) .

Secondo: crea l’homo oeconomicus, l’individuo isolato che cerca la massimizzazione del proprio utile, se necessario anche a spese di altri. Gli economisti tradizionali asseriscono quindi che l’homo oeconomicus è l’archetipo dell’essere umano, il che confonde un risultato storico specifico con un presupposto naturale.

Invece che sul lavoro il Software Libero si basa sulla ‘Selbstentfaltung’ [NdT Espressione/realizzazione/gratificazione di sé stessi]. Il concetto tedesco di Selbstentfaltung non è facile da tradurre. Da un lato parte dal “grattarsi un prurito”(Eric Raymond), “fare quello che proprio davvero si vuol fare” (Fritjof Bergmann) e “divertirsi un mucchio” (lo sviluppatore del Software Libero). Dall’altro, esso integra altri compagni di sviluppo per ricercare la soluzione migliore possibile. Questo si traduce anche in un grande coinvolgimento, passione e sforzo, non soltanto nel cogliere i frutti dei rami più bassi. Include una reciprocità positiva con gli altri che perseguono lo stesso obiettivo in modo tale che la Selbstentfaltung di uno sia la precondizione della Selbstentfaltung degli altri. Non per caso ciò richiama il Manifesto Comunista in cui “il libero sviluppo di ciascuno è la condizione del libero sviluppo di tutti” (Marx, Engels 1848). Tuttavia il Software Libero non è un obiettivo di una società futura, bensì una caratteristica inalienabile dell’avvio di un nuovo modo di produzione in direzione di quella nuova società libera.

Invece di vendere le energie individuali a fini alienati, ciò che solitamente è definito ‘lavoro’, il Software Libero è basato sulla Selbstentfaltung, che è lo sviluppo libero di tutte le forze produttive delle persone.

Paradigma 6: Oltre le Classi

Il capitalismo è una società di divisioni. Acquisti contro vendite, produzione contro consumo, lavoro contro capitale, lavoro concreto contro lavoro astratto, valore d’uso contro valore di scambio, produzione privata contro distribuzione sociale ecc. Lo sviluppo capitalista è mosso dalle contraddizioni tra queste parti separate. Tra esse, il lavoro e il capitale sono una delle contraddizioni e tuttavia sembra si tratti di quella più rilevante. Una persona sembra essere classificata in base al suo essere venditore o acquirente di lavoro, lavoratore o capitalista. Tuttavia, di fatto il lavoro e il capitale non sono proprietà degli individui bensì funzioni sociali opposte come tutte le altre divisioni che il capitalismo genera.

Perciò non è vero che solo uno dei lati delle varie divisioni rappresenta quello generale o progressista. Al contrario, entrambe le parti della divisione dipendono l’una dall’altra. Il lavoro produce capitale e i capitale crea lavoro. E’ un ciclo alienato di riproduzione permanente delle forme capitaliste. Così entrambe le parti di queste divisioni, ad esempio il lavoro e il capitale, sono funzioni necessarie del capitalismo. Il cosiddetto antagonismo di lavoro e capitale è in realtà una modalità puramente immanente dello sviluppo storico del capitalismo. La classe lavoratrice non rappresenta un’emancipazione, in nessun modo.

Il Software Libero e la produzione paritaria in generale non generano classi; sono, piuttosto, al di là di tale modalità. Rappresentano una forma germinale (v. paradigma 10) di un nuovo modo di produzione che, in generale, non si basa sulle divisioni ma sull’integrazione di bisogni, comportamenti e desideri diversi come potente forma di sviluppo. Lo sfruttamento non esiste, perché non esistono la vendita e l’acquisto del lavoro e il denaro può svolgere un ruolo solo in partite di retroguardia relative a società antiquate chiamate “capitalismo”.

Selbstentfaltung come essere umano che si sviluppa è la fonte di una transizione sociale in direzione di una società libera, non di un’appartenenza di classe.

Paradigma 7: Oltre l’Esclusione

Una delle divisioni fondamentali che il capitalismo genera è la divisione tra quelli che sono all’interno e quelli che non vi sono. Lo schema interno/esterno non è una separazione di classe (v. paradigma 6) e non è soltanto una grande divisione. E’ un meccanismo strutturale di inclusione ed esclusione in tutte le linee possibili della società: tra chi ha un lavoro e chi non lo ha, tra i ricchi e i poveri, tra gli uomini e le donne, tra la gente di colore e i bianchi, tra i capi e i subordinati, tra i proprietari dei mezzi di produzione e i non proprietari, tra i membri della previdenza sociale e i non membri, ecc. Deve essere riconosciuta come un principio strutturale fondamentale del capitalismo. L’inclusione di una parte implica l’esclusione dell’altra. Per il singolo ciò significa che ogni progresso personale è realizzato a spese di altri che restano fermi o regrediscono.

In generale i beni comuni sono oltre il meccanismo di esclusione. Nel Software Libero, per esempio, quante più persone attive aderiscono a un progetto, tanto più rapidamente e meglio può essere conseguito un obiettivo. Qui il rapporto tra le persone non è strutturato su basi di inclusione/esclusione ma attraverso una reciprocità inclusiva (Meretz 2012). Chi gestisce un progetto cerca di includere quante più persone attive possibile, si sforza di ottenere un’atmosfera creativa, e cerca di risolvere i conflitti in modo tale che quante più persone possibili possano seguire il “consenso grezzo” ed il “codice che gira” (NdT Il riferimento è al motto delle comunità informatiche in rete che si trova in una presentazione IETF del 1992: We reject: kings, presidents and voting. We believe in: rough consensus and running code. “Rigettiamo re, presidenti e voti. Crediamo invece nel consenso grezzo e nel codice che gira”).

Se il consenso non è possibile allora la soluzione migliore è una divisione, una opzione rischiosa ma valida per verificare direzioni di sviluppo diverse. Se si guarda alle divisioni esistenti (ad esempio tra Kde e Gnome) molte di esse collaborano strettamente o mantengono un’atmosfera di cooperazione. Sì, ci sono altri esempi di contrasti reciproci. Ma queste divisioni improduttive sono principalmente dovute al fatto che vi svolgono un ruolo importante interessi alienati. Oracle ha tentato di attuare un regime di dominio e controllo dopo aver acquistato OpenOffice come parte della pacchetto Sun. La scissione a LibreOffice da parte di molti sviluppatori importanti è stata un atto di autodifesa e di autodeterminazione per conservare il loro ambiente di Selbstentfaltung. Non vogliono tornare indietro al vecchio “modo di lavorare” allo sviluppo (v. paradigma 5).

Mentre il capitalismo è strutturalmente basato sul meccanismo di esclusione, la produzione paritaria su base comunitaria crea e fa progredire l’inclusione.

Paradigma 8: Oltre il Socialismo

Il socialismo, così come definito da Karl Marx nella “Critica del programma di Gotha” (Marx, 1875) è una società produttrice di merci governata dalla classe lavoratrice. Storicamente ciò è stato realizzato dal cosiddetto “socialismo reale”. Ci sono state molte critiche dei paesi a socialismo reale (mancanza di democrazia, ecc.) dall’interno della sinistra. Ciò nonostante buona parte della sinistra condivide l’assioma che sia inevitabile una fase intermedia tra una società libera (che può essere chiamata comunismo) e il capitalismo. L’idea generale è che la classe lavoratrice, una volta al potere, possa ricostruire l’intera economia secondo i propri interessi, che rappresentano la maggioranza della società. In breve: prima viene il potere, poi seguirà un nuovo modo di produzione, al fine di costruire una società davvero libera. Questa idea storicamente è fallita.

Il motivo di tale fallimento non sta in carenze o differenze tattiche interne. E’ invece dovuto al concetto irrealistico della trasformazione storica qualitativa. Mai nella storia la questione del potere è stata al primo posto; è sempre stato un nuovo modo di produzione, emerso dalla vecchia maniera di produrre, che ha preparato la transizione storica. Il capitalismo si è inizialmente sviluppato dall’artigianato delle città medievali, poi integrato in fabbriche e che alla fine ha portato al sistema della grande industria. La questione del potere è stata risolta “per strada”. Ciò non sminuisce il ruolo della rivoluzione, ma le rivoluzioni si limitano a realizzare e promuovere ciò che già si stava sviluppando. Le rivoluzioni della Primavera Araba non creano nulla di nuovo, ma cercano di realizzare i potenziali di una normale società democratica borghese.

Questa analisi degli sviluppi storici (discussi in maggiore dettaglio nel paradigma 10 deve essere applicata alla situazione attuale. La transizione storica non può essere realizzata impossessandosi del potere politico – per via parlamentare o mediante azioni di piazza – bensì sviluppando un nuovo modo di produzione. Il criterio per essere “nuovi” si può derivare dalla negazione del vecchio modo di produzione. Invece di merci, produzione di beni comuni. Invece di scambi mediati dal denaro, libera distribuzione. Invece di lavoro, Selbstentfaltung. Invece di meccanismi di esclusione, potenziale inclusione di tutti. Si deve comunque essere attenti perché non tutti gli sviluppi del capitalismo devono essere aboliti. Piuttosto certi proseguiranno, anche se in forma trascesa.

La produzione paritaria su base comunitaria trascende il capitalismo ed anche il socialismo basato sulle merci.

Paradigma 9: Oltre la Politica

Poiché la produzione paritaria su base comunitaria riguarda principalmente un nuovo modo di produzione, è fondamentalmente un movimento apolitico. Qui la politica è intesa come rivolgersi allo stato e alle sue istituzioni per richiedere cambiamenti in una qualche direzione desiderata. Tali politiche sono basate su interessi che nel capitalismo sono generalmente contrapposti. Se una società è strutturata secondo schemi di inclusione/esclusione (v. paradigma 7) allora è necessario organizzare interessi comuni ma parziali al fine di conseguirli a spese degli interessi comuni parziali di altri. In questo senso i beni comuni sono oltre la politica, poiché fondamentalmente non operano nel regno degli interessi bensì in quello dei bisogni.

E’ importante distinguere tra bisogni e interessi. I bisogni devono essere organizzati sotto forma di interessi se la modalità normale di attuazione è l’esclusione degli interessi di altri. I beni comuni, d’altro canto, sono basati solo sulla varietà dei bisogni dei partecipanti, che operano come fonte di creatività. La mediazione di questi bisogni diversi fa parte del processo della produzione paritaria. Non è dunque necessario che i partecipanti organizzino ulteriormente i loro bisogni come interessi e cerchino di attuarli politicamente. Essi, invece, ottengono ciò direttamente.

Un aspetto che chiarisce questo è la questione delle gerarchie. Normalmente le gerarchie fanno parte della produzione capitalista delle merci. Perciò un tema comune della sinistra era il rifiuto di ogni gerarchia per evitare il dominio. Ciò ignora il fatto che le gerarchie in quanto tali non generano dominio, ma piuttosto la funzione che le gerarchie hanno in un determinato contesto. In un’impresa le gerarchie esprimono interessi diversi, ad esempio gli interessi dei lavoratori e quelli dell’amministrazione (v. paradigma 5). Tuttavia in un progetto di produzione paritaria una gerarchia può esprimere livelli diversi di competenza o responsabilità diverse, che sono condivise da coloro che accettano qualcuno in una posizione di guida. Essere un gestore non significa perseguire interessi diversi a spese dei membri del progetto. Un tale progetto non prospererebbe. Al contrario un gestore desidera fortemente integrare quanti più membri attivi e competenti possibile. Ciò non evita i conflitti, ma i conflitti sono risolti sulla base comune degli obiettivi del progetto.

La produzione paritaria su base comunitaria non richiede di articolare i bisogni delle persone sotto forma di interessi contrapposti e perciò è oltre la politica.

Paradigma 10: Forma germinale

Ultimo ma non di secondaria importanza, il paradigma più importante è la forma germinale, ovvero il modello a cinque stadi (Holzkamp, 1983). E’ un modello per comprendere l’esistenza concomitante di fenomeni di qualità diverse. Quando si discute della produzione partecipativa, il dibattito è spesso dominato da due gruppi: quelli che sono a favore della produzione paritaria e cercano di dimostrare che la produzione paritaria è anticapitalista e quelli che considerano la produzione paritaria solo una modernizzazione del capitalismo. La sfida sta nel vederla in entrambi i modi. Il modello della forma germinale realizza questo considerando l’emergere e lo svilupparsi della produzione partecipativa su base comunitaria come un processo che si sviluppa nel tempo secondo contraddizioni che gli sono proprie.

Normalmente l’applicazione del modello a cinque stadi è una procedura retrospettiva in cui il risultato dello sviluppo analizzato è ben noto. Presupponendo mentalmente il risultato di una transizione a una società libera basata sulla produzione paritaria su base comunitaria, l’emergere di questo risultato può essere ricostruito utilizzando il modello. Ecco uno schizzo molto alla buona dei cinque stadi applicati al caso della produzione paritaria:

1. Forma germinale: Appare una nuova funzione. In questo stadio la nuova funzione non deve essere interpretata come un germe o un seme ricco che racchiude tutte le proprietà dell’entità finale che deve limitarsi a crescere. Piuttosto in questa fase la forma germinale mostra solo i principi del nuovo, ma non è il nuovo in sé stessa. Così la produzione paritaria su base comunitaria non è il nuovo in sé, bensì l’aspetto qualitativamente nuovo che mostra è la mediazione orientata al bisogno tra pari (basata sulla Selbstentfaltung, vedere paradigma 5) . Nel corso di questo stadio ciò è visibile solo a livello locale.

2. Crisi: solo se l’intero vecchio sistema cade in una crisi la nuova forma germinale può lasciare la propria nicchia. Il modo capitalista di produzione e mediazione sociale attraverso le merci, i mercati, il capitale e lo stato ha portato l’umanità a una crisi profonda. E’ entrato in una fase di successivo disfacimento ed esaurimento di risorse sistemiche accumulate storicamente. Le ricorrenti crisi finanziarie rendono evidente questo a chiunque.

3. Funzione di svolta: la nuova funzione abbandona la sua condizione di forma germinale nella nicchia e acquista rilevanza per la riproduzione del vecchio sistema. L’ex forma germinale ha ora due facce. Da un lato può essere utilizzata nell’interesse del vecchio sistema e dall’altro la sua logica peculiare è, e rimane, incompatibile con la logica del vecchio sistema dominante. La produzione paritaria è utilizzabile a fini di contenimento dei costi e di creazione di nuovi ambienti per attività commerciali, ma si basa su uno sviluppo non mercificato nell’ambito delle proprie attività (v. paradigma 3). La cooptazione e l’assorbimento in cicli di normale produzione di merci sono possibili (De Angelis, 2007) e solo se la produzione paritaria è in grado di difendere i suoi principi peculiari di comunitarietà e le sue capacità di creare reti su tale terreno, sarà raggiunto lo stadio successivo. Il Software Libero, come esempio di produzione paritaria, è chiaramente a questo stadio.

4. Passaggio al predominio: La nuova funzione diviene prevalente. La vecchia funzione non scompare immediatamente, ma retrocede, come funzione precedentemente dominante, in segmenti marginali. La produzione paritaria su base comunitaria ha ora raggiunto una densità di rete a livello globale cosicché i collegamenti di input-output sono chiusi in circuiti autonomi. Una produzione privata separata con la successiva mediazione del mercato utilizzando il denaro non è più richiesta. La mediazione sociale basata sui bisogni organizza la produzione e la distribuzione. L’intero sistema ha ora modificato qualitativamente il proprio carattere.

5. Ristrutturazione: La direzione dello sviluppo, le strutture che ne costituiscono la spina dorsale e le logiche funzionali fondamentali sono cambiate. Questo processo abbraccia un numero sempre maggiore di campi sociali che si rifocalizzano in direzione del nuovo modo di mediazione sociale basato sui bisogni. Lo stato è spogliato, emergono nuove istituzioni, che non hanno più il carattere uniforme di Stato, ma sono strumenti dalla Selbstentfaltung collettiva (v. paradigma 5). Possono emergere nuove contraddizioni, può avviarsi un nuovo ciclo di sviluppo.

Questo è soltanto un modello epistemologico, non uno schema d’azione immediata. Il principale vantaggio è la possibilità di sottrarsi a infruttuosi dibattiti su “o questo o quello”. Consente di pensare all’emergere di un nuovo modo di produzione utile per il vecchio sistema mantenendone la funzione trascendente, come fenomeno concomitante, in direzione di una società libera.

Il modello della forma germinale adattato nel contesto Oekonux è una concettualizzazione dialettica della transizione storica.

Conclusione

Lungi dall’essere una teoria coerente della transizione storica verso una società libera, riteniamo che questi paradigmi descrivano abbastanza bene il lavoro teorico di Oekonux perché non rientrano in nessuno degli approcci tradizionali. Ci potrebbe essere qualche accordo con uno o l’altro approccio, e la maggior parte dei partecipanti al progetto Oekonux non saranno d’accordo con tutti i paradigmi descritti, ma nessun singolo approccio è in grado di rispondere a tutte le sfide in una sola volta in modo coerente.

Questo non è casuale. Da una parte, la formazione di una nuova società non può essere interamente compresa nei termini di una società già pienamente sviluppata la cui storia è in corso di realizzazione. Dall’altra parte, ci sono aspetti generali che continuano a esistere in tutte le società, ma che subiscono una riconfigurazione. Altri aspetti si dissolvono completamente. Ed, infine, alcuni aspetti sono influenzati in un modo che difficilmente avranno qualcosa in comune con la loro origine. Queste tre forme di transizione – la conservazione, la dissoluzione e l’influenza – descrivono il significato di ciò che G.W.F. Hegel chiama abrogazione (Aufhebung). Con i dieci paradigmi di transizione sociale presentati in questo testo cerchiamo di soddisfare tale requisito.

Ringraziamenti

Un grazie speciale a Stefan Merten e Mathieu O’Neil per l’aiuto nella revisione. Tomislav Knaffl ha offerto suggerimenti utili.

Bibliografia

Benkler, Y. (2006), The Wealth of Networks: How Social Production Transforms Markets and Freedom. [La ricchezza delle reti: come la produzione sociale trasforma i mercati e la libertà] New Haven: Yale University Press, URL: http://cyber.law.harvard.edu/wealth_of_networks (10-10-2011)

De Angelis, M. (2007), The Beginning of History. Value Struggles and Global Capital, [L’inizio della storia. Lotte per i valori e capitale globale] London: Pluto Press.

Free Software Foundation (1996), The Free Software Definition, [Fondazione per il Software Libero: definizione del Software Libero] URL: www.gnu.org/philosophy/free-sw.html (10-10-2011)

Goldhaber, M.H. (1997), The Attention Economy and the Net,[L’economia dell’attenzione e la rete] in: First Monday, Vol. 2, No. 4, URL: http://www.firstmonday.org/htbin/cgiwrap/bin/ojs/index.php/fm/article/view/519/440 (10-10-2011)

Holzkamp, K. (1983), Grundlegung der Psychologie, [I fondamenti della psicologia] Frankfurt/Main, New York: Campus.

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Marx, K. (1875), Critique of the Gotha Programme, [Critica del programma di Gotha] URL: http://marxists.org/archive/marx/works/1875/gotha (10-10-2011)

Meretz, S. (2012), The Structural Communality of the Commons, [La comunitarietà strutturale dei beni comunitari] In: Bollier, D. et al. (2012), Self-Sustaining Abundance [Abbondanza autosostenuta] , in corso di pubblicazione.

Merten, S. (1999), Willkommen bei ‘oekonux’, [Benvenuti a Oekonux] URL: http://www.oekonux.de/liste/archive/msg00000.html (10-10-2011)

Merten, S. (2011), Leftist and other capitalist ideologies and peer production [La sinistra e altre ideologie capitaliste e la produzione paritarie] , URL: http://www.oekonux.org/list-en/archive/msg06135.html (10-10-2011)

Merten, S., Richardson, J. (2001), Free Software & GPL Society [. Stefan Merten of Oekonux interviewed by Joanne Richardson [La società del software libero e delle licenze pubbliche generali (GPL) – Stefan Merten intervistato da Joanne Richardson] , URL: http://subsol.c3.hu/subsol_2/contributors0/mertentext.html (10-10-2011)

Nuss, S., Heinrich, M. (2002), Freie Software und Kapitalismus, [Software libero e capitalismo] in: Streifzüge 1/2002, URL: http://www.streifzuege.org/2002/freie-software-und-kapitalismus (10-10-2011)

Ostrom, E. (1990), Governing the Commons. The Evolution of Institutions for Collective Action [L’amministrazione dei beni comunitari. L’evoluzione delle istituzioni per l’azione collettiva] , Cambridge: Cambridge University Press.

Da Socialforge – Un laboratorio di creazione sociale

http://www.socialforge.org

Fonte: http://keimform.de/2011/peer-production-and-societal-transformation

Originale: Keimform.de

Traduzione di Giuseppe Volpe

© 2012 Socialforge – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

Crowdfunding. Microfinanziandoci.

di Virginia Negro (https://pucherourbano.wordpress.com), 15 dicembre 2011

goteo

Abbiamo parlato del crowdsourcing, un nuovo modo di creare/ perfezionare un prodotto collettivamente.

Il crowdfunding si basa sullo stesso paradigma, questa volta però il banco chiama e in comune si mette il denaro, si investe cioè collettivamente in un progetto proposto da un singolo, o da una collettività, il cui fine può andare dalla ricerca scientifica al sostegno dell’arte, al giornalismo partecipativo.

Insomma il capitale è là fuori, tra parenti, amici, amici di amici, nel tam tam di face book, l’importante è saperci fare.  Chi meglio di un  italiano poteva elaborare l’equazione amici=capitale e inventarsi un luogo dove far incontrare donatori e progetti?

L’ informatico Alberto Falossi crea Kapipal, mette in valigia capital & pals e rima collaborazione con soluzione.  Qualcuno ci ha creduto, e pare che funzioni: Obama ha finanziato parte della sua campagna elettorale proprio con donazioni dei suoi elettori, il Louvre ha lanciato l’iniziativa Tous mecenes (tutti mecenati) per riuscire a comprare Le tre grazie di Carnach da un collezionista.

Complichiamo l’algoritmo, al neo-concetto di Kapipal aggiungiamo quello di pro comun (pro=provecho y comun=comune) eil capitale di rischio si trasforma in capitale di irrigazione (il gioco di parole in spagnolo è intraducibile : capital riesgo si trasforma in capital riego), il crowdfunding e il crowdsourcing si ibridano in un contenitore comune plasmato sia sul concetto di finanziamento collettivo che su quello di distribuzione collaborativa del lavoro. Perché l’algoritmo sia efficiente la piattaforma dovrà (far)investire in progetti che abbiano un ritorno collettivo, che generino cultura, innovazione, educazione dando nuova linfa alle risorse comuni. Perché l’algoritmo sia coerente anche la rete stessa dovrà essere “comune”, suscettibile di libero accesso e di ri-appropriazione da parte di qualunque xutente, in poche parole il codice deve essere aperto.  Questa libertà ricorsiva è garantita dalla licenza Creative commons che permette la condivisione di informazioni, conoscenze, processi e risultati. Contenuti digitali che si trasformano grazie all’uso dell’utente.

Il risultato è Goteo, un progetto aperto già nel suo Dna, di paternità attribuibile al collettivo Platoniq, che già si definisce come rete sociale di finanzi azione collettiva e collaborazione distributiva.

Goteo  rappresenta l’alternativa ( o il complemento) di finanzi azione dell’amministrazione pubblica e delle imprese private. La natura del sistema calza con le necessità del nuovo movimento sociale spagnolo nato e cresciuto positivo al virus del bene pubblico libero, che sia fisico, sovrasensibile o digitale.

Fin qui l’operazione sembra perfettamente riuscita, anche i risultati positivi e la realizzazione dei progetti sembrano confermare l’esattezza delle operazioni, la querelle sta però nella definizione stessa del progetto come l’alternativa ( o il complemento) di finanzi azione : forse un coefficiente da aggiungere ai nostri calcoli è la capacità di non dimenticare che il pubblico è un nostro diritto, e che dobbiamo non solo preservarlo e  seminarlo, prendendo coscienza della produttività del nostro essere cittadini ma anche continuare ad esigerlo goccia dopo goccia.

Solo per dare l’idea, tra gli ultimi progetti c’è Bookcamping: un archivio virtuale di libri online completamente gratuiti.

Spiegato dalla blogger Silvia Nanclares, da cui è partita l’idea.

Tu derecho a saber (clicca qui per vedere la video-presentazione del progetto), sarà una pgina web da cui poter richiedere informazioni su qualunque istituzione pubblica.

Virginia Negro