Permacultura: modello di progetto comunitario per 25 – 500 famiglie

di Dann Zealley, The Permaculture Research Institute of Australia  – 31 gennaio 2012

Introduzione

Nel 2008 ho trascorso 6 settimane in Venezuela. Ho un amico venezuelano che crede, come me, che la permacultura potrebbe e dovrebbe essere la forza guida di un cambiamento positivo. Entrambi riteniamo che la Rivoluzione Bolivarista, il cui paladino più famoso è il carismatico Hugo Chavez, dalla personalità controversamente colorita, nonostante molti seri “problemi di crescita”, offra il modello più pragmatico per la trasformazione sociale dell’umanità in direzione di un mondo davvero giusto ed ecologicamente sostenibile. Da quando Chavez è stato eletto nel 1998 hanno già avuto luogo enormi cambiamenti. Nonostante la propaganda mediatica dell’industria che afferma  il contrario, la quantità di realizzazioni è innegabile (particolarmente quando la si confronti con il drammatico declino economico e sociale delle nazioni cosiddette “sviluppate” e l’inquietante aumento del deficit di democrazia in Europa e nell’America del Nord.)*

Tuttavia un elemento che è dibattuto ma raramente messo in pratica nella rivoluzione è il ruolo che i principi ecologici devono svolgere nel contesto della costruzione del “Socialismo del ventunesimo secolo”. Sono introdotte lampadine ecologiche per sostituire quelle inefficienti ad incandescenza e piccoli (piccolissimi) progetti di energia rinnovabile sono avviati in aree remote per alimentare i villaggi. Sono introdotti progetti di agricoltura organica. Ma non c’è una visione coerente a supporto di queste iniziative diversa dalla retorica politica ambientalista che cattura voti (particolarmente in questo 2012 che è un anno elettorale). Ciò è dovuto al fatto che la visione ecologica deve ancora avere un impatto sostanziale sulla visione socio-politica della rivoluzione. I principi ecologici devono guidare il motore del cambiamento nella rivoluzione, non solo essere passeggere di treno del progresso politico e sociale. I principi ecologici devono essere al centro del movimento bolivarista, non alla periferia. I principi ecologici devono essere l’elemento maggiormente definitorio del socialismo, non un’idea aggiunta.

Più significativamente i principi ecologici devono informare i nostri progetti per l’uso sostenibile della terra e delle risorse e le interazioni sociali in un modo quanto più pratico possibile, in modo che le persone di ogni livello di vita siano in grado di partecipare, prosperare e interagire con tutte le forme di vita che ci sono compagne nel rispetto che esse sicuramente meritano come membri della famiglia della Madre Terra. Fino a quando, come società, non considereremo non solo tutti gli umani, bensì tutte le forme di vita come parte delle nostre famiglie e non come merci, saremo vittime di conflitti che minacciano la nostra stessa esistenza. Questo concetto incorpora l’assioma del Che di un amore rivoluzionario applicato in un contesto universale. Questo concetto deve essere definito nel modo più pratico quando progettiamo l’uso della terra, le interazioni sociali ed economiche e l’interazione con il mondo della natura. Come ha proclamato Marx, dobbiamo interagire con tutto il mondo della natura come se fossimo parte del suo metabolismo, non come un male antagonista che attacca il suo ospite. Qui sta la distinzione fondamentale tra socialismo e capitalismo.

Ma il socialismo ha bisogno della guida dei principi ecologici come bussola per progredire e i principi ecologici necessitano del quadro sociale che solo il socialismo può offrire al fini di sostenere l’integrità che alimenta la vita di tutto il lavoro dell’ecologia. I 12 principi della permacultura formano il ponte filosofico tra socialismo ed ecologia in un modo più coerente e fluido di qualsiasi altra cosa io debba ancora incontrare.

Né dogmatica né escludente, la permacultura abbraccia tutto ciò che è davvero sostenibile, dalla saggezza indigena alla più recente tecnologia verde più d’avanguardia e, cosa della massima importanza, “percorre il cammino con il cuore”.

David Holmgren (co-fondatore dell’idea della permacultura) ci ha consegnato il lavoro più importante in questo campo: “Permaculture: Principles and Pathways Beyond Sustainability”, 2003, Chelsea Green [Permacultura: principi e percorsi oltre la sostenibilità].

Questo lavoro costituisce un modello del modo di pensare al mondo in un contesto davvero sostenibile. Ci mette in grado di progettare sistemi che non solo funzionino e durino ma anche si evolvano naturalmente per guarire le fratture al metabolismo della Madre Terra che il capitalismo e la religione istituzionale hanno fatto letteralmente a pezzi.

Ma abbiamo bisogno di esempi concreti che vadano oltre le scala del terreno di casa e delle piccole comunità. In questo spirito offro di seguito il mio progetto di modello di permacultura per comunità di villaggio e regionali. Originariamente è stato offerto al dipartimento per il recupero della terra del governo venezuelano (acronimo INTI) che stava (e sta) tentando di invertire l’influsso sulle campagne delle municipalità urbane sovraffollate e anche di affrontare contemporaneamente il problema critico della sovranità alimentare. La cosa buona del partire da zero in queste situazioni è che il progetto completo della permacultura è reso più facile in quanto è necessaria minor flessibilità che in progetti comunitari difettosi già esistenti in cui sono richieste maggior cura ed energia per adattarsi alle situazioni prevalenti. Anche se pensavo specificamente al Venezuela nel costruire questo progetto, penso che esso sia ampliamente applicabile su scala globale. Prego di tener presente che, a questo punto, questo è solo un modello “proposto” e non un criterio consolidato. Conseguentemente, apprezzerei moltissimo commenti e critiche (costruttive o no) per contribuire a sviluppare questo modello.

Iniziativa per il processo di recupero della terra (INTI) in Venezuela

Obiettivi

Elaborare un piano che:

1. garantisca la sostenibilità ecologica

2. garantisca la produttività economica

3. protegga da corruzione economica e politica il processo rivoluzionario etico ed organico

4. alimenti e promuova i valori del nuovo paradigma della sostenibilità

Imperativi

Prima (e, in alcuni casi, dopo) che la terra sia assegnata, devono essere realizzate o fornite le seguenti risorse e servizi:

1. Una valutazione della terra per la permacultura deve essere condotta al fine di comprendere cosa c’è con cui lavorare e quali ostacoli o problemi devono essere affrontati in modo che i criteri di cui sopra possano essere soddisfatti (idrologia, tipi di suolo, fattori climatici regionali e locali, flora e fauna esistenti, habitat limitrofi e circostanti, precedente storia naturale e conoscenza indigena dell’area (se è possibile ottenerle).

2. Dopo aver soddisfatto il primo imperativo deve essere attuato un piano idrico (potenzialmente attività di movimento terra per creare una serie di piccole dighe collegate, flussi e riserva/e).

3. Siti di energia rinnovabile, sistema/i di compostaggio e di risorse alimentari condivise.

4. Siti di risorse comunitarie condivise (produzione di energia, produzione alimentare condivisa) e di servizi condivisi (scuola/e, centro/i comunitario/i, centro/i culturale/i, centro/i ricreativo/i).

5. Interconnessione di ciascun appezzamento di terreno (acqua, energia, telecomunicazioni e trasporti).

6. Calcoli di emergenza stimano che la capacità complessiva della terra richiesta per sostenere ciascun essere umano sia di 2,2 ettari. Lavorare su una media di 2 ettari per persone e per famiglie di 3-4 persone. Tentare di limitare le assegnazioni individuali a 1 ettaro per famiglie mediamente di 3 componenti (dobbiamo ridurre la popolazione umana) e dedicare il resto (5 ettari) a infrastrutture, produzione sociale e integrazione della natura.

7. Istruzione sulla permacultura prima che gli assegnatari lavorino i loro lotti di terra, con continua consulenza per la risoluzione di problemi.

8. Nessuna segretezza! Dopo la realizzazione della fase infrastrutturale, tutti i processi devono essere concordati mediante consenso comunitario e tutte le informazioni devono essere rese pubbliche (all’esterno e all’interno), disponibili in tutti gli stadi.

9. Utilizzare solo procedure e materiali organici, vietare l’uso di tutti i prodotti sintetici (fertilizzanti, pesticidi, fungicidi).

10. Vietare l’agricoltura della “terra bruciata” (bruciare la terra per una rapida spinta in altro del carbonio che distrugge i processi biologici naturali al suolo), le monocolture e l’allevamento concentrato o su larga scala del bestiame.

Il piano

Fase 1

Iniziare la costruzione delle infrastrutture una volta completata la valutazione:

1. Durante la stagione secca attuare i lavori di movimento terra per le dighe, le strade, i sentieri, le strutture comunitarie , i siti di produzione sociale (prodotti e servizi a valore aggiunto), siti di compostaggio e corridoi naturali.

2. Installazione di infrastrutture energetiche per i progetti della comunità (turbine per le dighe, per il vento su aree non utilizzate per altre attività, recupero del biogas dalle pile di compostaggio, ecc.) e reti di comunicazione via filo.

3. Nella stagione umida quando le dighe sono colme (o si stanno riempiendo) seminare: piante condivise dalla comunità (da frutto, noci, medicinali e controllo degli insetti (ad es. Neem)), per la natura (cibo per animali selvatici e insetti utili), aromatiche e per mobilio/artigianato.

4. Bambù (ciclo di taglio 4-7 anni) per materiale da costruzione, cibo, barriera naturale, capacità di ritardo degli incendi e di prevenzione dell’erosione del suolo. Alimenti stagionali di base (granaglie, baccelli e legumi). Immettere nelle dighe e nelle riserve pesce e giacinto d’acqua per la purificazione della stessa; insetti benefici e habitat per pesci e vita naturale; concime umano e materiali da miscele di compostaggi e pacciame (carbone, funghi) per l’agricoltura. Piantare adattabili (banani, papaye, iucca, bambù) e piante pioniere (legumi che fissano l’azoto e concime verde per la formazione del terreno) in siti individuali nel corso di questa fase iniziale in modo che se ne ricavino prodotti immediati nonché l’avvio di procedure critiche per la formazione del terreno.

5. Impiegare il lavoro di potenziali interessati. Offrire cibo e alloggio temporaneo deducendo dalle paghe un terzo per l’ammortamento dei materiali e un terzo per l’ammortamento dei servizi.

6. Programmare settimane di quattro giorni di lavoro, due giorni di corsi di permacultura e un giorno da dedicare alla famiglia/tempo libero.

7. Consultare i singoli interessati dopo il completamento del corso base di permacultura riguardo a componenti specifici in relazione del progetto del sito della comunità e delle prospettive dei siti individuali.

Fase 2

Dopo aver creato l’infrastruttura di base e dopo aver consultato tutti gli interessati:

1. Trasferire i partecipanti nei singoli lotti (non più di un ettaro ciascuno).

2. Accomunare lavoro e risorse per costruire ripari di base in ciascun sito.

3. Dare priorità al concime umano, alle acque grigie e a sistemi di riciclaggio (compostaggio di concime umano per gli alberi della comunità, concime animale, scarti di cibo e residui di carbone per compostaggio da giardino, cisterne sul tetto per l’acqua piovana, filtri dei sedimenti, separazione di metalli, plastica, carta e vetro per riutilizzo o trasformazione per nuovi usi).

4. Cinque giorni di lavoro, un giorno di istruzione sulla permacultura per problemi specifici del sito e problemi emergenti, un giorno per il riposo e la famiglia.

5. Piantare policolture più specifiche nei siti individuali e incoraggiare allevamenti animali su piccola scala (pollame, animali da latte, maiali e roditori) da usare per il foraggiamento di insetti, produzione di concime e produzione alimentare (sempre integrati associazione con altri sistemi del sito).

6. Implementare la generazione di energia rinnovabile su piccola scale (dove applicabili: pannelli solari sui tetti, piccole turbine in acque in movimento sul sito, geotermia, ecc.).

Fase 3

1. Sviluppare l’infrastruttura della comunità (lavorare alla/e scuola/e, ai sistemi di comunicazione (senza fili, centro/i radio e video, cooperativa di veicoli elettrici condivisi, strutture interne di organizzazione democratica).

2. Sviluppare il potenziale di produzione sociale, come servizi cooperativi autoregolati (istruzione/ cultura, ristoranti, riparazioni tecniche ecc.) e industrie cooperative per prodotti a valore aggiunto (forno/i, mobili, artigianato, lavorazione degli alimenti, ecc.).

3. Sviluppare prodotti e utilizzi di materiali riciclati.

4. Incorporare principi socialisti/della permacultura in tutti i livelli di istruzione:
– prescrivere corsi di orticoltura al livello scolastico elementare
– prescrivere corsi più avanzati di permacultura e teorie politiche/economiche con il salire di livello degli studenti
– corsi di recupero ed avanzati per adulti
– i nuovi partecipanti (sopra i 16 anni) devono frequentare almeno un corso di 72 ore di progettazione della permacultura prima di essere accettati (nessuna eccezione, indipendentemente dall’età)
– tutti i partecipanti devono collaborare a un programma minimo settimanale di orario concordato in raccolti e attività di manutenzione comunitarie

Fase 4

La comunità aumenta l’autosufficienza ma dovrebbe anche essere in grado di far evolvere potenziali e dimensioni aggiuntive; ad esempio:

1. Taglio del bambù (su base continuativa) per materiale da costruzione, mobilio e artigianato.

2. Aumento dei surplus di risorse condivise dalla comunità (frutta, noci e alberi Neem) e di acquacultura con il diminuire del tempo necessario per la manutenzione, con l’evolversi del sistema.

3. I siti individuali evolvono diversità complementari che incorporano capacità aggiuntive con l’aumentare del tempo a disposizione dei partecipanti.

4. Attuazione di progetti di eco-risanamento per le zone cuscinetto e le aree circostanti contigue se necessario (riforestazione, recupero delle vie d’acqua, risanamento del terreno, ecc.)

5. Sviluppo di strutture di produzione/ricerca micologica per accrescere la fertilità del suolo, riduzione e controllo degli animali nocivi e delle malattie delle piante, utilizzo per ulteriore produzione di cibo e medicinali.

6. Quando la produzione in supero eccede le necessità della comunità può essere richiesta per l’utilizzo in comunità in bisogno o per lo sviluppo di comunità simili.

Perché questo piano dovrebbe funzionare

1. Il piano economico è basato su principi ecologici ed è pertanto ambientalmente stabile (se attuato correttamente).

2. Le risorse e i servizi comunitari integrati creano condizioni adatte alle transazioni economiche sostenute da strategie che abbracciano principi di solidarietà, che riducono il rischio individuale e promuovono la democrazia partecipativa interna, riducendo o eliminando la possibilità di inerzia burocratica interna.

3. La dimensione dei lotti individuali (assieme al precedente punto 2) a un ettaro, previene manipolazioni finanziarie esterne (costringere le persone a rivendere i loro lotti all’oligarchia).

4. La clausola di “non segretezza” evita che la corruzione prenda il minimo piede in qualsiasi punto, a qualsiasi livello del sistema.

5. Le iniziative educative al socialismo e alla permacultura gettano le fondamenta per spostare i valori dell’attuale paradigma disfunzionale in direzione di un paradigma che appoggia valori sostenibili.

6. Escludere tutte le grandi imprese dalla partecipazione e dall’appropriarsi della redistribuzione del surplus controllo la motivazione del profitto che è la maggiore responsabile del successo delle strategie di “divide et impera” dell’aggressione delle grandi imprese.

7. Poiché gli interessati partecipano sin dall’inizio c’è un collegamento e un riconoscimento definitivo dell’associazione tra l’interesse individuale e l’integrità della comunità e dell’ambiente.

Da Socialforge, un laboratorio di creazione sociale
www.socialforge.org
Originale: The Permaculture Research Institute of Australia
Fonte: http://permaculture.org.au/2012/01/31/community-design-template-for-25-500-families/
Traduzione di Giuseppe Volpe
(c) 2011 – Socialforge – Licenza Creative Commons BY-NC-SA 3.0

Scarsità ed abbondanza II (dibattito)

Dibattito sul testo “Abbondanza di cibo contro abbondanza di ricette”, con commenti di Michel Bauwens, Franz Nahrada e Wofgang Hoeschele al documento di Brian Davey del 17 novembre 2010

Michel Bauwens: Come l’abbondanza immateriale può assistere un’economia stabile

Brian Davey ha scritto un testo molto stimolante, pubblicato [in italiano] qui, che ammonisce contro il parificare l’abbondanza di cultura immateriale con l’abbondanza di produzione materiale.

Si tratta di un argomento molto importante sul quale fondamentalmente concordiamo.  Ciò nonostante io credo anche che Brian Davey non comprenda l’importanza dell’abbondanza immateriale nel risolvere la crisi della scarsità materiale.

Rivediamo rapidamente i punti sui quali posso facilmente dirmi d’accordo.

Sì, non possiamo ingenuamente sperare che l’era dell’abbondanza materiale continui con la stessa forza, senza riconoscere le scarsità materiali che si stanno facendo di giorno in giorno più gravi.  Una seria contrazione del livello industriale standard di produzione materiale è più che probabile.

Sì, l’infrastruttura Internet è essa stessa un’infrastruttura materiale costosa.

Sì, non possiamo ingenuamente presumere che “abbondante” energia rinnovabile sostituisca del tutto, o almeno in misura significativa, la sovrabbondanza di combustibili fossili cui ci siamo abituati. Le rinnovabili non sono soluzioni magiche e hanno sia limiti assoluti sia problemi concreti di concentrazione per i bisogni umani.

Dunque, in conclusione, sono d’accordo che sia molto pericoloso mettere fare un unico fascio dell’ “abbondanza immateriale” e dell’abbondanza materiale.  E questo è infatti un argomento che ho costantemente sostenuto nel mio intervento: che il presente sistema combina pseudo-abbondanza, una fiducia errata nell’infinita abbondanza del mondo materiale, ritenendo che la crescita infinita sia compatibile con un pianeta finita, con l’idea della necessità della scarsità artificiale nel mondo dell’innovazione della cultura e dell’innovazioni immateriali, rendendo molto difficile agli umani condividere e collaborare liberamente. Ho sostenuto che quella che ho chiamato la civiltà sostitutiva, centrata sui commons e le dinamiche paritarie, che sussume sia il mercato sia lo stato, capovolgerà quel sistema operativo sbagliato in uno che riconosce sia la scarsità reale del mondo materiale sia l’abbondanza di scambi culturali in un contesto digitale.

La mia tesi chiave sarebbe che un transizione riuscita a un’economia

stabile, o anche una decrescita, dipende dalla cooperazione globale e dalla struttura di rete disponibile.

Alcuni punti ovvi:

– Internet è uno strumento chiave della collaborazione umana e della rapida innovazione. L’umanità affronterà molte sfide e, anche se le situazioni locali sono diverse, ci sono anche importanti cose in comune, il che significa che gli esseri umani dovrebbero apprendere gli uni dagli altri. Tale apprendimento, in cui ogni innovazione potenziale è istantaneamente disponibile al resto dell’umanità, è ciò che promette la cultura libera (un termine sbagliato, nel senso che significa la vastissima collaborazione degli esseri umani riguardo a una serie di problemi). Naturalmente, esposto in questo modo, si tratta di un ottimismo esagerato. D’altro canto si pensi a come la conoscenza sarebbe trasmessa senza Internet, senza la stampa e persino senza la scrittura.  Nell’affrontare sfide globali, molte delle quali sono urgenti, abbiamo alternative? Possiamo permetterci di non mobilitare l’intelligenza collettiva transnazionale? Possiamo permetterci che le località restino totalmente isolate? Non è necessario adorare la velocità al fine di capire che essa ha effettivamente un certo ruolo da svolgere e che l’isolamento a causa di alti costi per operazione, comunicazione e coordinamento non sarebbero una cosa buona in quel contesto di urgente risoluzione di problemi.

– Le comunità globali aperte  di sapere, codice e progettazione seguono una logica diversa da quella delle imprese capitaliste.  Mentre l’innovazione capitalista progetta in funzione di grandi impieghi di capitale (per eliminare la competizione), di produzione centralizzata e di catene internazionali di valore per il consumo attraverso l’obsolescenza programmata, le comunità di progettazione aperta progettano per la produzione distribuita (non solo ‘fab lab’ (1) bensì un riorientamento generale della produzione che ruoti intorno a una tecnologia appropriata che utilizzi una fabbricazione aperta e distribuita) senza obsolescenza programmata.

– Internet è uno strumento di socializzazione paritaria e non gerarchica.  Brian nota quanto è stata diverso il Congresso di Berlino sui Commons, nel suo dialogo aperto e nella sua tolleranza per la diversità di opinioni, rispetto ai vecchi scontri per la verità nella sinistra cui era abituato in gioventù.  Ma c’è un motivo per questo e precisamente che il processo di socializzazione tra pari, in un contesto di abbondanza culturale, allena a questo tipo di collaborazione.

– Condividere infrastrutture e accesso a risorse comuni, come ad esempio i trasporti, funziona soltanto con una condivisione del sapere molto diffusa a basso costo di coordinamento.  Ad esempio la condivisione di biciclette falliva sistematicamente prima dell’avvento dei media digitali, ma ora in molte città rappresenta praticamente una routine. Ci sono enormi possibilità di ridurre la necessità di produzione materiale (di proprietà individuali) attraverso la condivisione di infrastrutture che dipendano da infrastrutture internet.

– Le comunità locali isolate sono forme svantaggiata dal nanismo che, anche se ecologicamente a minor impatto, dovrebbero confrontarsi con le imprese transnazionali e con gli stati-nazione competitivi.  Ciò è una garanzia di conflitto sociale, ovvero di possibili confronti violenti riguardanti risorse scarse.  D’altro canto una produzione locale che si accompagni a comunità di progettazione aperta e alla condivisione globale della conoscenza può facilmente superare, nella collaborazione, le capacità di coordinamento delle imprese transnazionali, mentre le comunità  [ ‘phyles’ nell’originale] transnazionali, ovvero le reti di valore coordinate che sono responsabili della propria sussistenza, possono offrire fraternità e solidarietà in un’era di stati assistenziali in declino. La collaborazione “attivata digitalmente” apre possibilità di nuove reti di governance globale che possono affrontare sfide globali in modo che non sono possibili né alle comunità locali né agli stati nazione.

Dunque la conclusione è che l’abbondanza materiale non è contrapposta alle economie materiali sostenibili, ma è una condizione per una transizione più agevole a tale stato di cose.  Anche se dobbiamo riconoscere che una tale infrastruttura è costosa e potrebbe non sopravvivere a un crollo ecologico, non è qualcosa che dobbiamo desiderare ma qualcosa che, se possibile, dovrebbe essere evitato. Tra le scelte d’investimento dell’umanità, la possibilità della cooperazione globale e dell’intelligenza collettiva transnazionale, non dovrebbe essere scartata, ma sarebbe una delle scelte migliori.  Questo naturalmente non significa che la stessa informatica non possa diventare molto più ecologica [verde] di quanto è ora. E’ difficile immaginare come un’economia stabile, di decrescita o “dalla culla alla culla” [cradle to cradle] si possa conseguire senza lacrime e sangue, senza l’uso dell’intelligenza collettiva.

Il nodo cruciale della questione è questo: siamo indubbiamente di fronte alla fine dell’abbondanza materiale basata sui combustibili fossili.  Ma questa trasformazione può aver luogo nel modo brutto, ovvero mediante un ridimensionamento terribile e costoso che può condurre a nuove forme di neotribalismo e neofeudalesimo patologici.  Questo è il percorso probabile se scegliamo il localismo isolato, senza accesso al mutuo coordinamento globale che ora è possibile conseguire.  Non serve avere colture organiche locali se ci si trova di fronte a bande nomadi di armati che vogliono la tua produzione. Oppure la nostra società si può trasformare passando a un livello di complessità più elevato, ricavando una sintesi tra un’economia stabile e una vita sociale e culturale globale molto ricca di mutuo coordinamento su scala planetaria e una ricca creazione di produzione relocalizzata.

La visione paritaria promette almeno, se realizzabile, questa nuova sintesi, un connubio della materialità locale e dell’immaterialità globale, invece di un ritorno a un localismo regressivo in un contesto di conflitti civili, tra imprese e tra stati nazione, per le risorse materiali che scarseggiano.

(1) [Letteralmente ‘laboratori di fabbricazione’, ma si potrebbe tradurre anche come ‘laboratori magici’ (da ‘fab’ = fabulous): fabbriche in grado di produrre idealmente qualsiasi cosa partendo da un progetto in formato elettronico (CAD) affidato a una macchina laser a controllo numerico che provvede alla realizzazione materiale. Il primo ‘fab lab’ è stato il ‘rep rap’ – n.d.t.]

Franz Nahrada: Quali sono le condizioni dell’abbondanza?

Ci sono pochi altri punti da fissare.  L’argomentazione “ecologica” tradizionale utilizzata dal Club di Roma si limita solitamente ad aggregare aspetti quantitativi dei processi produttivi con capacità riproduttive senza considerare la loro interazione; è cioè un po’ mal coordinata e mal costruita rispetto alle condizioni economiche attuali.

Michael Braungart ha tradotto ciò in un’immagine semplice: quando si ha una produzione materiale mal progettata che produce scarti, ogni attività ulteriore di questa produzione materiale aumenterà alla fine la scarsità complessiva.  Ma se i prodotti sono progettati per essere essi stessi parti di cascate di riutilizzo e riconversione [up-cycling], ciascuna attività aggiuntiva accrescerà la base per altre attività e creerà abbondanza.

C’è un fattore qualitativo che determina l’interazione tra le nostre crescenti informazioni e il mondo materiale: è la capacità di ideare e progettare cicli che si autoalimentino e si autosostengano e soluzioni per cui gli sforzi umani non vadano persi una volta compiuti ma conseguano sistematicamente utili sistemici da tali apporti.

Il modo di produzione capitalista-industriale è stato incentrato su una concezione monodimensionale del valore che si traduce in un meccanismo di risorse – prodotto [input – output] di cosiddetta efficienza. McLuhan ha osservato una volta che per questo meccanismo non ha importanza quale sia il prodotto che ne esce, che si tratti di cornflakes o di Cadillac, fintantoché il risultato può tradursi in denaro.  Nel modo di produzione automatizzato post-industriale la riproduzione ci richiederà di creare finalmente misure economiche e misure che riflettano l’assioma che il valore di ciascun processo è multidimensionale.

Per esempio non è assolutamente privo d’importanza dove la produzione ha luogo. Se il calore eccessivo di una centrale di server [server farm] che è necessario per il funzionamento dell’infrastruttura Internet viene utilizzato per il riscaldamento di un insediamento umano, c’è un guadagno sistemico semplicemente dalla progettazione in tal senso. Tutto allora è deciso dallo spazio, dal tempo e dall’interagibilità delle cose.  Ciò impone un balzo gigantesco in intelligenza e informazioni in alcun modo facile da realizzare.  Dobbiamo studiare modelli possibili e apprendere riguardo alla loro complessa interazione come condizione essenziale per decidere.

Sarebbe utile analizzare la nostra società attuale come produttrice costante di sprechi, sia sprechi immediati sia sprechi sistemici.  La risposta  può non essere facile da trovare ma non sta nei numeri bensì nell’interazione delle cose.  La natura è un grande sistema di abbondanza (molto più di uno “stato stabile”) ovvero non produce scarti.  Dobbiamo imparare da essa ed essere partecipi dei suoi cicli, affinarli e assecondarli invece di astenerci da attività.  Questa è la svolta importante che possiamo definire e realizzare insieme.

Wolfgang Hoeschele: Economia dell’abbondanza

Nel suo documento per il dibattito Brian Davey esprime la sua preoccupazione (che io condivido) per l’imminente grave scarsità di risorse e la sua opinione che chi parla di “abbondanza” non prende sul serio la scarsità di risorse ed è perciò eccessivamente ottimista circa il futuro del mondo.  Egli ipotizza inoltre che queste persone provengano da precedenti nei “commons culturali e scientifici” e considera tali precedenti parte del motivo del loro eccessivo ottimismo.

Anche se io non posso parlare per chiunque promuova idee di abbondanza, posso certamente parlare per me stesso, visto che ho scritto un libro sulla “Economia dell’abbondanza”. Brian Davey sicuramente non ha avuto l’opportunità di leggere tale libro che è stato appena pubblicato e probabilmente non era a conoscenza della sua esistenza  prima del Congresso Internazionale sui Commons. In questo spazio vorrei sintetizzare parte delle idee che avanzo nel libro per dimostrare che promuovere una “economia dell’abbondanza” è qualcosa di molto diverso dall’ignorare la scarsità di risorse, non implica un ottimismo eccessivo e non richiede una formazione nell’industria informatica (alla quale io non appartengo, essendo un geografo abituato a trattare problemi molto “terra terra” di utilizzo delle risorse).

La produzione della scarsità

Innanzitutto vorrei sottolineare che le risorse materiali possono essere abbondanti anche se esistono in quantità finita.  Le risorse materiali sono abbondanti se sono utilizzate in modi che non le esauriscano o le degradino (ad esempio, respirare l’aria) o se ce n’è una quantità molto superiore a quella necessaria per le persone (ad esempio, i banchi di pesca in luoghi in cui si pesca solo un piccola parte del prodotto sostenibile).

Un problema fondamentale dell’economia attuale è che non vede valore nelle risorse abbondanti perché non si possono vendere con un alto margine di profitto; ad esempio non si può confezionare l’aria da respirare e poi venderla a qualcuno; dove il pesce è abbondante si può vendere ma solo a un prezzo modesto. In altre parole, è riconosciuto solo il valore di scambio e non il valore d’uso. Per gli imprenditori è perciò vantaggioso rendere scarse le risorse abbondanti in modo che possano essere vendute a un prezzo più elevato e generare maggior valore di scambio. La tesi che sostengo nel mio libro è che l’attività di rendere scarse le risorse abbondanti non è lasciato all’iniziativa individuale, ma è compiuto da istituzioni che generano scarsità.  La scarsità può essere prodotta manipolando la domanda o l’offerta di un bene in modo tale che la domanda superi l’offerta. In questo senso c’è scarsità anche quando c’è un’enorme quantità di produzione. Si può sempre descrivere la cosa in questi termini: la nostra economia attuale massimizza l’inefficienza del consumo in modo da generare la domanda necessaria a giustificare un produzione in crescente aumento. In un simile contesto, l’accresciuta efficienza della produzione non fa nulla per affrontare i problemi della scarsità di risorse.

Un buon esempio riguarda i trasporti.  La mobilità – la capacità di andare dove si ha bisogno di andare – è massimamente abbondante e la maggior parte delle persone possono raggiungere la loro destinazione quotidiana a piedi o in bicicletta o mediante trasporti pubblici.  In questo modo tutti possono permettersi la mobilità che è disponibile ai bambini piccoli (appena possono spostarsi in modo indipendente), ai vecchi (che possono utilizzare i trasporti pubblici se non possono più camminare, andare in bicicletta o guidare), a tutti i membri delle famiglie con un’auto sola e alle persone con disabilità che impediscono loro di guidare o camminare o andare in bicicletta (che tuttavia sono in grado di usare il trasporto pubblico).  In queste condizioni di abbondanza sarebbe possibile per la maggior parte delle persone non possedere un’auto propria ma affidarsi alle auto in comune [car-sharing] o ai servizi di taxi nelle occasioni relativamente rare in cui abbiano necessità di un veicolo a motore.  Le condizioni che sostengono la mobilità abbondante – città compatte con strade aperte al movimento a piedi, in bicicletta e alla socializzazione – sostengono anche più bassi investimenti pro capite in infrastrutture e, nel complesso, un minor uso di risorse che amplino indiscriminatamente città progettate per la dipendenza dalle automobili.

Quindi l’abbondanza non consiste nel fatto che tutti abbiano un’automobile, bensì nel fatto che tutti siano in grado di spostarsi a basso costo, senza dipendere da catene di beni complesse e insostenibili, mentre la “scarsità” consiste nel fatto che tutti vogliano un’auto, o ne abbiano necessità, indipendentemente dal fatto che possano permettersela o meno.

Il fatto che così tante città non supportino una mobilità abbondante è il risultato di sforzi concertati dell’industria automobilistica, dell’industria del petrolio, degli interessi immobiliari e di vari settori economici associati, che insieme hanno influenzato i governi affinché costruissero o ricostruissero città e infrastrutture dei trasporti al servizio dei “bisogni” delle automobili (si noti che gli oggetti inanimati non hanno bisogni).  Ho rilevato che parlare di come queste istituzioni generino scarsità e le alternative creino abbondanza suscita grande entusiasmo e creatività nei gruppi per il cambiamento, come in un seminario che ho tenuto di recente:  http://shareable.net/blog/abundant-mobility-one-towns-resources

La scarsità è generata anche da regimi iniqui di proprietà. Ad esempio se poche persone (capitalisti, aristocrazia terriera e simili) sono proprietarie dei mezzi di produzione (che questi consistano in terreni, acqua, accesso a banchi di pesca o a zone di caccia, fabbriche o qualsiasi altra cosa) mentre altri sono vincolati a vendere il proprio lavoro al fine di ricavare un reddito, allora i proprietari hanno interessi a mantenere scarsa l’occupazione, per conservare un esercito di lavoratori disoccupati che mantiene basse le paghe. Sappiamo tutto questo da Marx; non è nulla di nuovo.

Ci sono inoltre importanti “mezzi di produzione” che tradizionalmente non sono di proprietà di nessuno ed è vantaggioso per gli industriali utilizzarli come beni naturali gratuiti e inquinarli o degradarli in altro modo.  Tra questi vi sono l’aria e l’acqua pulite; inquinarle crea scarsità presso tutti coloro la cui salute ne è colpita negativamente.  Allora diventano necessari grandi investimenti per pulire l’aria e l’acqua, a vantaggio di quegli stessi industriali che fabbricano le attrezzature necessarie.  La proprietà comune delle risorse naturali (commons delle risorse naturali), così come dei luoghi di lavoro (commons delle cooperative di lavoro) e della conoscenza (commons della scienza) è essenziale per smontare questo modo di produzione della scarsità e creare invece abbondanza.

A livello di psicologia individuale la scarsità è la conseguenza del non sapere quando “il troppo stroppia”, del volere sempre di più.  Questo modo di pensare drogato è promosso da una cultura consumista e dall’insicurezza e dalla paura del futuro; superare tale tossicodipendenza richiede esattamente quelle “relazioni umane positive in comunità amorevoli che generano sensazioni di pace, di appagamento, di amore, felicità e altre gratificazioni psichiche che si sottraggono alla quantificazione” che Roberto Verzola cita nel suo documento.

Un’economia dell’abbondanza non è un’economia che presuppone che l’abbondanza esista necessariamente, bensì un’economia che analizza i modi di produzione della scarsità, quali quelli che ho citato più sopra, e che evidenzia modi per contrastarli.  Proprio così come la scarsità è costruita socialmente (ed è molto reale, così come è reale un edificio costruito dall’uomo) anche l’abbondanza deve essere creata.  Nella situazione attuale, si tratta di un compito che intimidisce; se riusciremo a portarlo a compimento prima di trovarci di fronte alla catastrofe ecologica, non lo so. Tuttavia sento profondamente che l’idea di generare abbondanza evidenzi il cammino che dobbiamo intraprendere se vogliamo avere una qualche speranza di evitare il disastro.  Dunque il valore delle mie proposte non dipende da ottimismo o pessimismo; dipende dal fatto che esse siano o meno vie d’uscita dalle difficoltà attuali.

Da Socialforge – Un laboratorio di creazione sociale

http://www.socialforge.org

Fonte: http://p2pfoundation.net/Abundance_of_Food_vs_the_Abundance_of_Recipes

Originale: p2pfoundation

Traduzione di Giuseppe Volpe

© 2012 Socialforge – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

Scarsità ed abbondanza I

 Abbondanza di cibo contro abbondanza di ricette

di Brian Davey – 17 novembre 2010

Contributo di Brian Davey di Feasta, in risposta alla tensione al Congresso di Berlino sui Commons tra Abbondanza e Scarsità, sottotitoli di Franz Nahrada.

Brian Davey:

All’inizio della sessione finale del congresso internazionale sui Commons, i partecipanti sono stati invitati a esprimere le proprie preoccupazioni, critiche e riserve. Io mi sono alzato a dire grosso modo quanto segue:

I partecipanti che costituiscono il congresso forse avrebbero dovuto concentrarsi di più su tipo di epoca in cui stiamo vivendo.  Al congresso sono sembrate esserci due visioni generali e la differenza tra esse non è stata espressa sufficientemente nel corso del dibattito.

I Commons come scialuppa di salvataggio …

Da un lato ci sono quelli per i quali i Commons sono istituzioni paragonabili a scialuppe di salvataggio per il controllo collettivo su risorse vitali in un mondo in crisi; un mondo in cui la produzione probabilmente si ridurrà a causa del cambiamento climatico galoppante, dando fondo all’energia, all’acqua e ad altre risorse. In larga misura si tratta di persone la cui attenzione è principalmente concentrata su Commons naturali: l’atmosfera e il clima, l’acqua e gli oceani, la terra e i sistemi ecologici.

… oppure come nuovo modo di produzione.

D’altro canto ci sono quelli per i quali i Commons rappresentano un modo interamente nuovo di produzione paritaria [peer-to-peer] che, quando non più limitata dai vincoli imposti dalle restrizioni della proprietà intellettuale, ha il potenziale di introdurci in un mondo di abbondanza, non solo fornendo servizi liberi d’informazione come Wikipedia, creati collettivamente e disponibili a tutti, ma alla fine estendendosi anche ai processi di produzione fisica, attraverso progetti open source di beni materiali e la diffusione di nuove idee da coltivare.  In breve, saremmo all’inizio di un’era di abbondanza … I partecipanti che la pensano così tendono a essere quelli coinvolti in Commons intellettuali e culturali, ad esempio quelli impegnati nello sviluppo di software, ecc.

Limiti contro abbondanza

Finito il congresso ho pensato che questi temi fossero così importanti che ho scritto questo documento successivo.  Permettetemi di iniziare osservando che il movimento per l’ambiente è da lungo impegnato in un dibattito con la politica e l’economia convenzionale che si riassume più o meno così:

Gli ambientalisti sostengono che stiamo realmente raggiungendo, e oltrepassando, i limiti fisici della crescita e della “capacità di sostegno” degli ecosistemi del pianeta.  Contemporaneamente la corrente di pensiero convenzionale sostiene che non dobbiamo preoccuparci di cose simili perché la tecnologia e l’ingegno umano ci faranno superare le difficoltà, cosicché la crescita potrà continuare indefinitamente nel futuro.

Ora, al Congresso di Berlino sui Commons, non ho notato nessuno che sostenesse la crescita continua. E tutti quelli che ho incontrato al congresso mi sono sembrati consapevoli del cambiamento climatico e del picco del petrolio e del gas. Ciò nonostante, la tesi dell’”abbondanza” mi è sembrata essere, almeno in parte, una variante riconfezionata della posizione secondo cui “l’ingegno umano ci farà superare le difficoltà”, con l’interessante derivazione che l’ingegno e la creatività umana ci farebbero superare le difficoltà SE il tentativo dell’industria di appropriarsi del sapere e di privatizzarlo mediante la proprietà intellettuale (brevetti, diritti d’autore, royalties, ecc.) potesse essere abbandonato in modo tale che la creazione intellettuale possa aver luogo come vero processo collettivo e tutti e ciascuno possano essere liberi di prendere le idee, i progetti, il software e le creazioni altrui, correggerli, integrarli, adattarli e svilupparli ulteriormente, contribuire ad essi, e così via, senza dover pagare un prezzo esorbitante per tale privilegio.

Ora, secondo me, queste idee possono essere spinte troppo in là.  Ma prima che io spieghi il perché, voglio spiegare perché ho ritenuto stimolante questo punto di vista e che isoli alcuni nuclei di verità.

Quarant’anni fa, nella mia gioventù trotzkista, ero solito partecipare a congressi che erano praticamente al polo opposto rispetto a questo.  I partecipanti a questi vecchi congressi si preoccupavano di decidere ed accordarsi su quale fosse “l’analisi corretta”, il modo corretto di interpretare il mondo e su cosa dovesse essere fatto al riguardo. La “analisi corretta” in qualche modo sembrava essere quello che pensavano le persone che ti erano più vicine,  perché avevi elaborato le idee insieme con loro e se non eri d’accordo … beh … ti sarebbe risultato spiacevole andare a tutti i congressi e scoprire di essere l’unico strano che diceva qualcosa di diverso.

Ma, ovviamente, altri, spesso provenienti da altri luoghi, persone che avevano avuto altri rapporti personali, tipicamente avevano elaborato un’idea leggermente diversa di cosa era “corretto”. Dunque ciò significava, per loro, che tu sbaglia e, per te, che sbagliavano loro.

Il congressi basati su questo modo di rapportarsi con “la verità” erano frustranti e improduttivi.  Ricordo persone che osservavano, con frustrazione, come le altre fazioni non si spostassero di un millimetro dal loro modo di pensare e, indubbiamente, dal mio punto di vista, non lo facevamo neppure noi. La differenza era un problema: le idee diverse degli altri erano “sbagliate” me non eravamo sempre nel “giusto”.

Non posso dire che tutti abbiano avuto la stessa esperienza al Congresso Internazionale sui Commons.  Almeno alcuni sono sembrati finire preda della frustrazione , ma la mia esperienza personale è stata di partecipanti che si sono trovati a loro agio con le differenze e preparati a discutere in modo rilassato  con persone  con un punto di vista diverso, e questo è stato molto  confortante.

In realtà quando si adotta questa accettazione rilassata delle differenze, la mia esperienza è stata che si tende a scoprire che le persone con idee diverse sono già consapevoli del nostro punto di vista; possono non essere  d’accordo sul nostro punto di vista come spiegazione migliore, ma a volte lo accettano come plausibile e come possibile ottica alternativa.

In effetti mi sono sentito [al Congresso] come se mi fossi trovato in un dibattito in cui i  partecipanti che avevano idee diverse erano considerati utili per mettere alla prova le proprie idee, utili per vedere una prospettiva diversa che in precedenza non si sarebbe potuto non  considerare.  C’è stata la sensazione che le idee e le ottiche non siano fisse e giuste o sbagliate, ma sempre in sviluppo e le idee degli altri che si differenziavano  sono state utili nel contribuire a un ulteriore sviluppo delle proprie.

Qui, penso, abbiamo l’idea emergente di una dimensione di “messa in comune” dei “Commons del sapere”.  Sospetto che derivi dalla mia esperienza di elaborare le cose in procedure di gruppo nella progettazione del software o nella produzione culturale.  Qui si ha un’apertura mentale che proviene dall’esperienza della progettazione del software open source e dallo sviluppo di gruppo delle idee, in cui i “bachi” sono considerati inevitabili, in cui essi sono risolti in processi collettivi, in cui qualcun altro può forse sviluppare creativamente qualcosa che si è fatto e la creazione intellettuale è un processo intrinsecamente collettivo.

Così io penso che ciò che ho sperimentato è stato effettivamente un “modo di produzione” collettivo all’opera, in cui “mettere in comune” significa partecipazione attiva alla produzione, insieme con i propri pari.  E ciò è non egoistico, non competitivo e non preoccupato di arraffare diritti di proprietà e vantaggi personali che, dopotutto, rallenterebbero e danneggerebbero il processo collettivo.

L’idea che fare le cose in questo modo sia molto più agevole e più creativo la posso davvero accettare … sino a un certo punto. Posso così accettare anche, fino a un certo punto, che sia  possibile che il  concepire reazioni alla crisi ecologica ed economica, sia qualcosa di sviluppato e progettato collettivamente e poi applicato alla produzione materiale. Sono consapevole, per esempio, che nella progettazione di “auto ecologiche”  sono coinvolti processi open source.

Questa idea può essere ampliata ulteriormente dall’ideazione e progettazione alla produzione materiale.  Così non sarebbero soltanto il software e le opere culturali a poter essere creati senza proprietà intellettuale in processi paritari, bensì anche i prodotti concreti, fatti di “roba”: veicoli, mobili, orti. (Produrre paritariamente [peer-to-peer] significa, qui, co-produrre senza un intermediario o un’organizzazione, come un datore di lavoro, che gestisca l’intero processo e poi rivendichi il prodotto del gruppo come proprio).

Al suo grado di massimo sviluppo ciò porta all’idea che i progetti open source dovrebbero essere presi e utilizzati da chiunque nei luoghi di lavoro della comunità locale.  Questi luoghi di “infrastruttura libera” opererebbero come centri di risorse e sarebbero dotati di macchine governate da computer che sarebbero in grado di creare veri prodotti materiali partendo dal progetti digitali (cosiddetti “Fab Lab”, vedere http://tangiblebit.com/).

Bene, è qui che la teoria dei Commons intellettuali si trasforma in produzione materiale.  Tuttavia a questo punto penso che dobbiamo tornare alla Terra.  Poiché questo sono visioni del futuro cui ho difficoltà a credere e voglio spiegare il perché.

Costi energetici

La documentazione del Congresso di Berlino sui Commons ha utilizzato una terminologia a proposito della “logica generativa dei Commons” per riferirsi al modo in cui i Commons possono essere e sono produttivi. Tuttavia, come evidenziato da alcuni, anche i Commons digitali sono basati su una infrastruttura ingorda di energia, e anche se possono esserci progettisti benintenzionati impegnati in progetti open source che cercano di ridurre l’utilizzo di energia e di prodotti materiali nella manutenzione dell’infrastruttura internet, i Commons digitali non sono affatto un pasto gratis. Così, ad esempio, produrre un personal computer costa 1800 KWh di energia e dunque consuma 11 volte il suo stesso peso in combustibili fossili prima ancora di essere utilizzato … e ciò anche prima che cominciamo a tener conto di tutti gli altri computer e di tutti i server molto più grandi cui avrà necessità di essere connesso e l’energia che l’intero insieme assorbe per funzionare.

Limiti materiali

Ma, per me, ci sono alcuni importanti problemi che vanno molto oltre quelli dell’energia utilizzata per creare e gestire internet e la sua infrastruttura. Anche se è vero che una parte considerevole dei costi finanziari di molti prodotti deriva al processo di progettazione, e che questi costi sono più elevati a motivo delle imposizioni riguardanti la proprietà intellettuale e l’addebito del costo dell’utilizzo della proprietà intellettuale, ciò nonostante la creatività che è liberata dai Commons del sapere che operano senza i vincoli della proprietà intellettuale non può, in sé e per sé stessa, cancellare i limiti alla crescita che sono stati il problema centrale per gli economisti ecologici.

E’ dunque da questa posizione che trovo difficile seguire interamente, ad esempio, Roberto Verzola dei Verdi delle Filippine che ha scritto un documento per il Congresso di Berlino intitolato “Abbondanza e Logica Generativa dei Commons”. Sì, sono d’accordo con Roberto sul fatto che internet sta producendo un’abbondanza di “informazioni e conoscenza”, ma l’abbondanza di informazioni non è la stessa cosa che l’abbondanza materiale.

Tanto per cominciare l’abbondanza di conoscenza e informazioni di cui uno dispone può restare ignota, o ignorata, o altrimenti disattesa da persone e istituzioni che necessitano di tali informazioni e dovrebbero conoscerle affinché siano concretamente utilizzate.

Di fatto c’è molta più informazione e conoscenza nel mondo di quanta possa essere oggetto della nostra attenzione ed esiste un intero insieme di istituzioni per attirare l’attenzione sui programmi degli interessi potenti che operano in modi non sostenibili e per distrarre l’attenzione dalle screditare le informazioni e le conoscenze riguardanti cose sui cui è necessaria un’azione urgente cercando di screditare e calunniare tali informazioni e conoscenze. Così, ad esempio, c’è stata abbondanza di informazioni e conoscenze per decenni sui tipi di sviluppo economico non sostenibile e sulle alternative sostenibili, ma c’è anche stata una struttura politica di potere economico che si è sentita in grado di ignorarle e di sedurre il grosso della popolazione dei paesi ricchi affinché dedicasse la propria attenzione ai consumi, agli acquisti, a stili di vita da celebrità, agli sport e agli svaghi distraenti.  Al tempo stesso c’è stata una campagna ampiamente riuscita per fuorviare deliberatamente la gente riguardo al cambiamento climatico e ad altri problemi.  Così, anche se c’è una grande quantità di informazioni, c’è anche un mucchio di ignoranza … ignor – anza, cioè.  Questa canalizzazione dell’attenzione di massa è basata su una conoscenza molto sofisticata della psicologia umana; in realtà il fondatore dell’attuale industria delle pubbliche relazioni e del marketing,  Edward Bernays,  ha ripetutamente attirato la sua attenzione sui suoi rapporti con Sigmund Freud e sul suo utilizzo di concetti che manipolano la predisposizione emotiva delle masse affinché si adatti all’élite al potere (compresi banchieri e baroni dell’energia).

In secondo luogo, anche se l’abbondanza di informazione fosse utilizzata utilmente per la ricerca di soluzioni ai nostri problemi, questa abbondanza di informazione potrebbe solo in misura limitata essere convertita in un’abbondanza di beni materiali o, più accuratamente, essa ha un potenziale limitato di mitigazione del declino cui la produzione sarà costretta dal declino dell’energia.

Consentitemi di essere attento a notare che Roberto è ben consapevole del picco del petrolio, ma non sono del tutto d’accordo con il suo punto di vista quando nel suo documento afferma:

Il grosso dell’acqua, del carbone, del ferro, del silicio e di altri minerali sulla Terra così come dell’energia proveniente dal sole è anch’esso una fonte di abbondanza.”

“L’abbondanza di minerali della Terra non è rinnovabile e deve essere amministrata in modo diverso dall’energia solare rinnovabile.”

“Con la produzione di petrolio che tocca il suo picco, per esempio, finirà il petrolio abbondante a buon prezzo. Il picco del petrolio dovrebbe impartirci una lezione indimenticabile quanto alla gestione dell’abbondanza. Quelli che non coglieranno la lezione opteranno per ulteriore carbone, energia nucleare e biocarburanti. Quelli che la coglieranno si rivolgeranno alle rinnovabili pulite, all’efficienza energetica e a una “discesa” pianificata. Le Città di Transizione stanno aprendo la via.”

“L’energia solare rende possibile altre risorse energetiche abbondanti quali l’acqua, il vento e il legno. Nel 2009, le rinnovabili hanno fornito il 25% della potenza energetica totale mondiale, grazie all’impennata dell’interesse della Cina per il biogas, l’energia solare e quella fotovoltaica. Lo stesso vale per la Germania. Le celle fotovoltaiche sono prodotte con silice semiconduttrice, il materiale base della rivoluzione digitale. (Ricordate quanto erano costosi gli schermi LCD dieci anni fa? Se il fotovoltaico seguirà una tendenza al ribasso dei prezzi simile ad altri beni digitali, possiamo aspettarci presto un’Era Solare. Anche l’idrogeno dall’acqua promette un’altra risorsa abbondante di energia.”

“Di passaggio, permettetemi di citare ancora un’altra fonte di abbondanza: le reti di relazioni umane positive in comunità amorevoli, che generano sentimenti di pace, appagamento, amore, felicità e altre gratificazioni psichiche che si sottraggono alla quantificazione.”

(Da “Abbondanza e Logica Generativa dei Commons” di Roberto Verzola, discorso di apertura dei Verdi delle Filippine per il Flusso III.)

Il messaggio di Roberto mi sembra essere: “Sì, ci sarà il picco del petrolio e sarà un problema, ma sarà un problema solo se in risposta saranno adottate le tecnologie energetiche sbagliate.  Se abbracciamo l’efficienza energetica e le tecnologie energetiche rinnovabili che scendono rapidamente di prezzo, allora non ci saranno problemi, ci sarà abbondanza, e questo senza citare un’abbondanza non misurabile di buoni sentimenti derivanti da relazioni umane positive.” (Esattamente cosa intenda Roberto con il termine “discesa” non mi è chiaro).

Da economista ecologico trovo queste idee inquietanti in questo tipo di congresso.  Sembrano contraddire al 100% le tesi sui “Limiti della Crescita” sviluppate in origine dagli studi commissionati dal Club di Roma negli anni ’70 e successivamente aggiornate e confermate studio dopo studio.

Posso accettare in pieno la possibilità di un’abbondanza non misurabile di buone sensazioni derivanti da relazioni umane positive … anche se il fatto che  tale possibilità si realizzi in qualche modo dipende dal nostro successo, o mancanza di successo, nel ri-sviluppare i Commons e la messa in comune come base delle relazioni umane … tuttavia la nozione di un’abbondanza di abbondanza materiale io davvero non la ritengo credibile.  Questo significa voler ignorare il fatto che il Pianeta Terra ha una capacità di sostegno ecologico limitata e tutti gli studi dimostrano che l’abbiamo considerevolmente oltrepassata.

Argomenti a sostegno

Torniamo alle questioni di fondo. Innanzitutto come spieghiamo e misuriamo quale produzione materiale ha luogo? Un buon modo per farlo consiste nel prendere la quantità di energia che è applicata ai processi economici, aggiustare la misura dell’energia in rapporto all’efficienza con la quale l’energia è trasferita alla trasformazione di materiali e di “roba” che viene incorporata nei prodotti. Così si ottiene una misura della quantità di “lavoro” impiegato nella produzione materiale, dove il termine “lavoro” non è un riferimento al lavoro umano bensì alla fisica dell’applicazione dell’energia alla trasformazione e al trasporto dei materiali, processi fisici che sono soggetti alle leggi della termodinamica.

Così la quantità di produzione materiale nell’economia è collegata a quanta energia viene utilizzata E a quanto efficientemente è utilizzata.

Infatti questo modo di considerare la produzione, e la crescita della produzione, funziona più che bene quando è applicato a dati reali. Due autori, Ayres e Warr, hanno utilizzato quest’ottica allo studio della crescita nell’economia USA. Tra il 1900 e il 1975 essa offre una spiegazione quasi perfetta dell’andamento della crescita della produzione materiale.

Vedere http://www.helsinki.fi/iehc2006/papers2/Warr.pdf  [Questo link sostituisce quello indicato nell’originale e che pare non più attivo http://www.iea.org/work/2004/eewp/ayres-paper1.pdf – il contenuto dovrebbe essere lo stesso – n.d.t.]

Ora vi è ancora spazio in questo modello perché l’ingegno umano migliori l’efficienza con cui l’energia è trasferita alla produzione.  E c’è dello spazio per la produzione immateriale, che potrebbe aumentare. Ma la produzione immateriale deve essere inserita e incorporata nei processi materiali e anche nelle cose; persino un taglio di capelli richiede forbici, un locale, una sedia, illuminazione …

E quando si tratta di produrre cose materiali, non si può continuare ad accrescere l’efficienza del trasferimento di energia ai processi produttivi, e neppure si può continuare ad aumentare gli apporti di energia, specialmente in una fase della storia in cui la concentrazione di energia resa possibile dal bruciare fonti di energie costituite da combustibili fossili comincia a scemare a causa dell’esaurimento, al superamento del picco della produzione di petrolio, del picco del gas, del picco del carbone … (per non citare il picco dell’uso dell’atmosfera che abbiamo superato da un po’ di tempo).

Il limite delle fonti rinnovabili (di energia)

Ma che dire delle energie rinnovabili? Possono essere la base dell’ “abbondanza”, cioè la tesi di Roberto con la quale non concordo?

Dobbiamo affrontare il fatto chiave che c’è un limite assoluto alla quantità di energia solare e di energie rinnovabili disponibili, indipendentemente da quanto ingegnosamente ed economicamente progettiamo l’infrastruttura per impossessarcene e indipendentemente da quanto siamo in gamba come giardinieri e progettisti di permacoltura per impossessarcene attraverso le piante.

La “logica generativa dei Commons” deve vedersela con il fatto che l’energia della luce solare grezza a mezzogiorno di un giorno senza nuvole è di 1000 W per metro quadrato, ma si tratta di 1000 W per metro quadrato di are orientata verso il sole, non per ogni metro quadrato di terra.  Per ricavare l’energia per metro quadrato di terra in Inghilterra, dove vivo, dobbiamo correggere i nostri calcoli in funzione dell’inclinazione tra il sole e la terra, che riduce l’intensità del sole di mezzogiorno a circa il 60% del suo valore all’equatore. E naturalmente non è sempre mezzogiorno. E ovviamente in Inghilterra, e i molti altri luoghi, il cielo è spesso nuvoloso. In una tipica località inglese il sole splende solo nel 34% delle giornate diurne.

Globalmente la radiazione solare in arrivo è pari a 122 Petawatt, quantità che è di un ordine di grandezza di quattro volte superiore rispetto all’energia primaria totale utilizzata dall’umanità, ma data la bassa densità con cui ricade sull’intero pianeta, raccoglierla per i processi produttivi è un processo a costosa intensità energetica.  Molte delle idee attuali per raccogliere l’energia solare per l’uso umano presuppone che possiamo farlo mediante biomasse e piante in base alla fotosintesi.  Forse la permacoltura ha davvero molto da offrirci, ma non può risolvere il fatto che in Inghilterra, considerata la copertura delle nuvole e tutti gli altri problemi, ci sono solo 100 watts che ricadono in media su ogni metro di terreno piatto da raccogliere mediante le piante.  Né l’ingegno umano e la logica generativa dei Commons può fare molto riguardo al fatto che le piante migliori, ad esempio, in Europa, possono convertire soltanto il 2% di tale energia solare in carboidrati.

E in più è bene ricordare che gli esseri umani si impossessano già del 30-40% della Produzione Primaria Netta del pianeta (biomassa) sotto forma di cibo, foraggi, e combustibile con il legno e i residui dei raccolti che forniscono il 10% dell’utilizzo globale umano dell’energia.  Anche un aumento relativamente contenuto che porti l’umanità a utilizzare la biomassa fino al 50% della produzione di biomassa del pianeta comprometterebbe e distruggerebbe apporti estremamente importanti dell’ecosistema.  Infatti, a causa della crisi del clima,  abbiamo bisogno di utilizzare la biomassa per togliere l’anidride carbonica dall’atmosfera.  Lo spazio di manovra, ammesso che esista, è molto scarso.

Cose simili si possono dire delle risorse di energie rinnovabili. Sì, fanno parte del futuro; sì, fanno parte di ciò che è necessario; sì, l’ingegno può accrescere la loro efficienza nel raccogliere energia. Ma no, non possono e non potranno mai fornire “abbondanza” se per abbondanza intendiamo abbondanza di produzione materiale.

Con l’attuale utilizzo umano dell’energia, globalmente a circa 13 Terawatt nel 2005 come parametro, dobbiamo prendere atto del fatto che, dopo l’energia solare

“Nessun’altra risorsa energetica rinnovabile può offrire più di 10 TW. Stime generose di fattibilità tecnica massima (le percentuali economicamente accettabili sarebbero molto inferiori) sono meno di 10 TW per l’eolico, meno di 5 TW per le onde oceaniche, meno di 2 TW per l’energia idroelettrica e meno di 1 TW per l’energia geotermica, quella delle maree e quella delle corrente oceaniche.” (Vaclav Smil “Energy in Nature and Society: General Energetics of Complex Systems” MIT Press, 2008, pagg. 382-383).

Riconsideriamo dunque la tesi. L’abbondanza materiale esige abbondanza di energia per compiere il lavoro fisico della trasformazione e del trasporto della materia per trasformare buone idee e progetti in prodotti disponibili agli utilizzatori.  Al momento l’umanità utilizza circa 13 TW di energia e la disponibilità di tale quantità è destinata a ridursi in misura molto spettacolare.  Indipendentemente da quanto abili noi siamo, la quantità che possiamo sostituire con le rinnovabili è anch’essa rigidamente limitata … un’infrastruttura di energia rinnovabile richiederà una quantità considerevole di energia per essere realizzata e dovrà concentrare flussi di energia naturale dispersa su vaste aree geografiche. Inoltre questi flussi naturali di energia sono essi stessi soggetti a limiti assoluti di disponibilità.

Conclusione

La mia conclusione è che, parlare di abbondanza sia un messaggio molto fuorviante.  I Commons hanno molto da offrirci, condividere idee senza i vincoli della proprietà intellettuale ci aiuterà, ci aiuteranno anche la condivisione di energia e produzione scarse e accordi e infrastrutture di produzione di gruppo, condividere potrà portarci a relazioni umane con molte gratificazioni psicologiche ed emotive. In tal senso possiamo descrivere i Commons come “aventi una logica generativa”. Ma l’ “abbondanza” non è un messaggio con il quale concordo, se intesa si intende, o si implica vada intesa, abbondanza di produzione materiale.  Secondo me l’uso del termine “abbondanza” è un’immagine fuorviante del futuro verso il quale ci stiamo dirigendo.

L’abbondanza di informazioni su come potremmo fare le cose non è la stessa cosa che l’abbondanza di cose; è un’abbondanza di ricette, non un’abbondanza di cibo.

Da Socialforge – Un laboratorio di creazione sociale

http://www.socialforge.org

Fonte: http://p2pfoundation.net/Abundance_of_Food_vs_the_Abundance_of_Recipes

Originale: p2pfoundation

Traduzione di Giuseppe Volpe

© 2012 Socialforge – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

Nasce la moneta municipale in Francia

da Repubblica, 12 gennaio 2012
Due bocconiani in odore di eresia creano una moneta per l’economia reale
Massimo Amato e Luca Fantacci hanno messo a punto una valuta complementare all’euro. Nelle loro intenzioni il bonùs dovrà avviare un circolo virtuoso, creando nuove risorse per acquistare i prodotti delle imprese che aderiranno a un sistema di credito cooperativo. L’esperimento partirà a Nantes, in Francia

di CINZIA SASSO

MILANO – Nascerà in Europa una nuova moneta più democratica dell’euro? Riuscirà l’economia reale – fatta di scambi tra prodotti diversi regolati dal semplice dare e avere – a soppiantare le scatole vuote della finanza che hanno precipitato il mondo in una crisi senza precedenti? Sarà possibile, per guardare avanti, tornare indietro ai tempi del baratto, seppure rivisto e corretto? La folle idea, partita dalle aule dell’Università Bocconi, sta per diventare realtà in Francia, a Nantes, dove Jean Marc Ayrault, il sindaco socialista della città, anche consigliere del candidato presidente Francoise Hollande, ha affidato a due professori italiani il compito di tradurre in realtà un progetto rivoluzionario, quello di implementare una nuova moneta. Potrebbe chiamarsi «bonùs» e diventare una divisa complementare all’euro, su modello di quanto esiste già (dal 1934, nata per superare la crisi del ’29) a Basilea con il «wir». In un momento in cui la crisi finanziaria e la stretta creditizia rischiano di soffocare le economie, il «bonùs» dovrebbe realizzare un sistema di credito cooperativo tra aziende allo scopo di rafforzare l’economia locale e avviare un circuito virtuoso che consenta di avere più risorse a disposizione per acquistare prodotti delle imprese che fanno parte del sistema.

Il progetto nasce dagli studi di Massimo Amato, 48 anni, filosofo e professore di storia delle crisi finanziarie, e Luca Fantacci, 40, che insegna storia e scenari economici internazionali, due eretici della Bocconi, già autori, nel 2009, di un libro tradotto in molte lingue e ignorato in via Sarfatti, “Fine della finanza, da dove viene la crisi e come si può pensare di uscirne”. Solo in Francia, dove Amato ha trascorso due anni come assistant professor all’Institut d’Etudes Avancéès di Nantes, è stato possibile passare dalla teoria alla pratica e avviare il processo che, nel giro di un anno, dopo che già la Banca di Francia ha approvato il progetto, dovrebbe portare alla realizzazione del nuovo sistema monetario. Ciuffo alla Sgarbi, francese perfetto, Amato spiega il nuovo sistema su TEDx 1, citando Aristotele e Keynes. Perché questa idea si ispira esattamente alle teorie dell’economista britannico proposte a Bretton Woods nel ‘44. «E oggi – dice Amato – siamo in un momento di crisi ancora più pesante di quanto fosse in quel dopoguerra ed è indispensabile trovare un equilibrio diverso. Bisogna cancellare la finanza e tornare a un sistema che si basi sull’economia reale, sulla produzione e sullo scambio di beni effettivi». A Nantes è stata individuato l’istituto (il Credit Municipal, di proprietà del Comune) che sarà il modello di questa nuova banca che farà solo servizio pubblico e non avrà interessi privati. Sarà il Credit a tenere i conti degli scambi fra le imprese e fra queste e i privati (i quali, nell’idea di Amato e Fantacci, avranno lo stipendio diviso tra euro e «bonùs»). Mentre oggi è difficile avere credito, con il «bonùs», paradossalmente, non servirà denaro per avere credito perché il circuito creditizio sarà concepito come una camera di compensazione all’interno della quale ognuno dispone di un conto corrente e muove i propri scambi, anche dando servizi in cambio di prodotti. La nascita della nuova moneta sarà anche l’inizio della fine delle banche? Se si guarda all’esempio di Basilea, in Svizzera, la risposta è no. Però, conclude Amato, servirà a togliere alle banche il monopolio di qualcosa che non è loro, il denaro.

(12 gennaio 2012)

Alcune riflessioni sui Commons

Documento per la Conferenza internazionale sui Commons tenutasi a Berlino il 31 ottobre 2010, preparato dal Comitato Direttivo (Michael Bauwens, David Bollier, Beatriz Busaniche, Silfe Helfrich, Julio Lambing, Jeike Loeschmann) per stimolare il dibattito e la riflessione.

Tesi chiave: I Commons (*) sono ciò che rende possibile ogni altro obiettivo sociale, compresi gli obiettivi ambientali che sono, essenzialmente, sociali.

Flusso I : I Commons come Sfida all’Economia Classica

A. I commons non riusciranno a contrastare l’economia contemporanea e la struttura istituzionale convenzionale se non:

  • metteranno in discussione le convinzioni chiave sottostanti l’economia tradizionale e le correlazioni comportamentali indotte dalle strutture istituzionali prevalenti;
  • reinterpreteranno il significato di proprietà dalla proprietà privata alla tutela collettiva; e
  • svilupperanno concetti coerenti che siano anche empiricamente dimostrabili e convincenti alternative alla convenzionale “somma finale” numerica;

B. Le caratteristiche intrinseche dei commons sono l’abbondanza e la diversità.

  • Se rispettiamo la diversità e ci organizziamo per l’abbondanza, i commons (ri)produrranno costantemente abbastanza per tutti.
  • Ogni qualvolta possiamo – in caso di risorse e generosità non rivali – il prodotto dei commons dovrebbe essere universalmente disponibile; quando ciò non è possibile – nel caso di risorse rivali – il prodotto dei commons dovrebbe essere distribuito equamente.

C. Una società realizzabile si basa sulla cooperazione e la co-produzione anziché sulla divisione classica del lavoro che separa i produttori e fornitori di risorse dagli utilizzatori di esse e che tratta la natura, la comunità e la cultura come esternalità sfruttabili.

D. I mercati non sono la sola fonte di creazione della ricchezza. I commons, che sono ricettivi alle voci popolari democratiche e alla pressione delle nostre risorse biotiche, possono funzionare come economie parallele all’economia monetaria, comprese le economie di sussistenza e le economie del dono. Un altro modo promettente per fare questo consiste nello sviluppare piattaforme software su base comunitaria. Nel tempo tali piattaforme di comunicazione si possono ampliare a nuovi tipi di scambio sociale, ad esempio a monete digitali, esterne alle monete nazionali e ai mercati convenzionali. Tali processi rafforzerebbero le comunità urbane e rurali resistenti e consentirebbero loro di prendere nelle proprie mani la riproduzione del sostentamento.

E. L’intero sistema economico delle società moderne dipende profondamente dallo stato, che crea intere industrie e provvede a strutture regolamentari. La richiesta di beni e servizi da parte dello stato è un altro esempio. Di fatto l’approvvigionamento pubblico e lo sviluppo infrastrutturale fanno la parte del leone nelle nostre economie. Perciò è urgentemente necessaria una svolta verso approvvigionamenti basati sui beni comuni. Ciò comprende, ad esempio, vantaggi fiscali per il sapere, le informazioni e le infrastrutture generate liberamente o procedure di gara basate su criteri stabiliti che rafforzino la partecipazione delle comunità interessate.

F. C’è necessità di identificare e comunicare chiaramente i “criteri vincenti” dei commons e/o una tassonomia generale di commons riusciti. Ma sviluppare indicatori per la messa in comune creativa e produttiva è notoriamente difficile. E’ perciò essenziale contribuire allo sviluppo di metri di misura inclusivi che riconoscano criteri chiave per una creazione di ricchezza più vasta.

Flusso II: I Commons sfidano il Duopolio Stato/Economia

A. I commons sono il terzo elemento, in aggiunta allo stato e al mercato, che richiedono sostegno strutturale e intellettuale.

B. I commons offrono un ricco insieme di modelli di governo e la loro natura costitutiva si sforza di conseguire un nuovo stile di appropriazione e partecipazione sociale. Nonostante la loro diversità e la loro dipendenza da certe leggi o dal sostegno dello stato, i commons tendono ad essere stabili e a facilitare l’autonomia sociale e un’efficace amministrazione delle risorse. Ciò nonostante un commons vincente è sempre il prodotto di uno sforzo e di una lotta continui.

C. “I commons al di là del mercato e dello stato” non significa necessariamente senza mercato e senza stato, se consideriamo la loro ricca storia, l’enorme diversità e dispersione geografica. Ma significa necessariamente che le persone e i loro commons, con il sostegno di uno stato partner, divengono il centro della creazione della ricchezza. I commons mirano a creare un’economia etica vibrante di nuove forme di mercato che non ignorano le esternalità naturali e sociali, ma le includono nella propria logica di funzionamento.

D. Gli aventi titolo ai commons trascendono la cittadinanza basata sullo stato-nazione e le società civili nazionali. E la loro identità va oltre quella di consumatori passivi per arrivare a quella di co-produttori responsabili. I detentori di commons sono radicati in un’enorme varietà di comunità reciprocamente dipendenti. Una delle idee centrali a proposito dei commons è quella che la protezione e la creazione di ricchezza comune sia non solo di beneficio per gli stessi detentori dei beni comuni ma lo sia per le società locali e per quella globale cui essi pure appartengono. L’idea centrale dei commons è: ho bisogno degli altri e gli altri hanno bisogno di me.

E. Ciò di cui abbiamo bisogno non è soltanto di una regolamentazione statale, bensì di una maggiore responsabilità e rispondenza nei confronti delle comunità coinvolte riguardi ai criteri del benessere. Questa è la chiave. Invece di ridimensionare lo stato rafforzando la logica del mercato, una politica basata sui promuove il ridimensionamento della scala e del campo dei mercati rafforzando “istituzioni relative ai beni comuni”. Ciò significa creare istituzioni progettate per operare come fiduciarie dei commons e come attivatrici di essi. Nuove tecnologie sociali e reti distribuite – che devono essere basate sull’uso sostenibile dell’energia – possono stimolare questo processo.

F. I Commons globali implicano un nuovo tipo di multilateralismo che emancipi gli abitanti locali al ruolo di cittadini e metta gli stati-nazione in condizioni di collaborare più efficacemente per superare i problemi di azione collettiva globale.

Flusso III: La Logica Generativa dei Commons

A. Per costruire i commons dobbiamo costruire comunità robuste che a loro volta richiedono forme cooperative e deliberative di comunicazione e di decisione. Le comunità servono anche da palestre di apprendimento per lo sviluppo delle competenze e degli atteggiamenti e ottiche necessarie per la messa in comune.

B. I commons, come forma auto-organizzata di produzione paritaria [peer-to-peer o P2P] seguono una logica propria. La produzione paritaria presuppone l’equipotenza dei propri partecipanti, è basata sulla collaborazione libera, mira alla creazione di beni comuni e cerca di essere al servizio del maggior bene di tutti. Crediamo che questo modo di produzione sia almeno altrettanto produttivo che i modelli che ignorano i commons. E in termini di perseguimento della ricchezza sociale e della riproduzione della diversità, i modelli di produzione su base comunitaria possono riuscire anche meglio di quelli basati sull’imposizione, il controllo e/o la vendita.

C. La produttività non può essere semplicemente una misura artificiale dei risultati di un’impresa; deve tenere conto di tutti i costi, compresi quelli celati delle sovvenzioni, i danni all’ambiente e altri tipi di valori non quantificabili, non di mercato di cui i commons tengono conto di routine.

D. I commons significano prendere la vita nelle proprie mani. Il sapere è la chiave per farlo, ma il sapere è più che l’accesso al sapere e l’accesso al sapere è qualcosa di più che la costruzione di infrastrutture tecniche. La rapida diffusione del sapere e dell’innovazione a tutti coloro che ne hanno necessità richiede:

  • la condivisione di informazioni, codici, competenze e progettualità attraverso piattaforme accessibili universalmente o a base comunitaria;
  • la competenza per la comprensione e la riflessione, e
  • la loro appropriazione per modellare i nostri habitat sociali.

Concepire il sapere come un commons garantisce una giusta condivisione dell’innovazione, senza gli attriti e gli occultamenti causati alla condivisione da eccessive regole sulla proprietà intellettuale.

E. Le strutture istituzionali possono articolare e rendere possibili nuovi commons, ma possono anche
danneggiare i collegamenti e l’etica sociale che sono indispensabili ai commons. Perciò una sfida chiave
nell’ideare effettive politiche a base comunitaria consiste nell’equilibrare correttamente questi due
interessi. La burocratizzazione dei commons non è un commons, ma un paradosso a proposito del quale
occorre che prestiamo attenzione.

Per il successo di una politica orientata al commons sono imperativi un’alleanza e un onesto scambio di
esperienze e saperi tra tutti coloro che lavorano ai commons sociali, ecologici, sociali e culturali.

[…]

(*) NdT: Viene mantenuto il termine inglese ‘commons’ non risultando ancora sufficientemente attestata una traduzione italiana che non risulti limitativa o fuorviante; il termine da considerarsi il candidato migliore è ‘comunanza/e’; storicamente il concetto risale a una storia di secoli di risorse utilizzate in comune da una collettività, prevalentemente terreni agricoli o risorse boschive. Residuano ancora realtà di questo tipo in alcune regioni italiane, tuttavia stanno scomparendo per l’abbandono dell’agricoltura, silvicoltura su piccola scala. Personalmente considero una specie di rivalsa della storia il fatto che una realtà di sussistenza delle classi umili del passato possa riproporsi, reinterpretata alla luce di nuove analisi concettuali e potenzialità tecnologiche, come efficace alternativa al dominante sistema di produzione/distribuzione capitalista. Peraltro la lunga storia dei commons come comunanza di uso di risorse materiali, compresa a volte la distribuzione equa del loro sfruttamento, testimonia che il/i commons non sono necessariamente, come a volte si sostiene, limitati alla condivisione di attività/prodotti immateriali anche se l’esperienza moderna di maggiore successo risulta quello del Software Libero o Open Source.

Da Socialforge – Un laboratorio di creazione sociale

www.socialforge.org

Fonte: http://p2pfoundation.net/Some_Thoughts_on_the_Commons

Originale: P2P Foundation

Traduzione di Giuseppe Volpe

(c) 2012 – Socialforge Licenza Creative Commons BY-NC-SA 3.0

Che cosa è Oekonux?

Dieci paradigmi sviluppati dal Progetto Oekonux

di Stefan Meretz, Keimform 29/12/2011

NdT: Questo documento, pubblicato da Stefan Meretz sul blog Keimform tra il 20 ottobre ed il 29 dicembre 2011, descrive il lavoro teorico di ricerca svolto nel corso di dieci anni sul software libero e sulla produzione paritaria su base comunitaria dal progetto tedesco Oekonux (http://www.oekonux.org). Il documento è stato preparato per essere pubblicato sulla rivista Critical Studies in Peer Production (CSPP).

Abstract

Il progetto Oekonux cerca di creare nuove basi per analizzare un fenomeno storico nuovo: l’emergere della produzione paritaria, a partire dalla creazione del software libero. Se è valida l’ipotesi iniziale che il software libero sia la forma germinale di un nuovo modo di produzione oltre il capitalismo, sarebbe necessario sviluppare nuovi modelli epistemologici per essere in grado di analizzarlo adeguatamente. Ciò richiede la comprensione e la critica di vecchie nozioni analitiche in quanto prodotti storici del modo capitalista sopravvissuto di produzione del nostro sostentamento, comprese quelle che mirano ad essere in opposizione al capitalismo. In questo documento presento dieci modelli che sono emersi dai dibattiti del Progetto Oekonux. Essi dimostrano cosa significhi andare oltre gli schemi di analisi tradizionalmente di conferma o tradizionalmente di contrasto, o “di sinistra”. Anche se ricavati dai dibattiti del Progetto Oekonux, questi modelli non sono mai stati presentati in maniera così concentrata. Ovviamente non tutti i modelli saranno condivisi dagli altri partecipanti a tali dibattiti, perché alla fin fine si tratta di conclusioni mie personali ricavate da oltre dieci anni di discussioni.

Introduzione

In questo testo cercherò di offrire una qualche introduzione alle idee principali che sono state sviluppate dalla fondazione del progetto Oekonux nel 1999. Non c’è un insieme fisso di pensieri e personalmente ho la mia ottica personale riguardo alle idee Oekonux.

Perché il progetto Oekonux è così rilevante per il dibattito sulla produzione paritaria su base comunitaria? Ci sono due motivi. Primo: Oekonux ha sviluppato molte delle idee con le quali molti ricercatori hanno familiarità da molti anni prima che esse arrivassero a un pubblico più vasto. Oekonux è stato fondato come un progetto di riflessione sul software libero, ma era presente sin dall’inizio la questione della generalizzazione delle osservazioni sul software libero ad altri settori dei beni immateriali e materiali. Quando Yochai Benkler (2006) coniò il termine produzione paritaria su base comunitaria (NdT: in inglese, commons’ based peer production) non fece che condensare in un’espressione accattivante un dibattito durato anni, ma le intuizioni non erano molto nuove e suonavano molto familiari ai partecipanti al Oekonux. Conseguentemente il termine è stato adottato dal progetto Oekonux.

Secondo: i partecipanti a Oekonux si sono spinti molto più in là di altri nel mettere in discussione il modo accettato di pensare. Sono state sviluppate nuove tesi che non solo hanno rifiutato gli schemi del dibattito tradizionale nelle scienze informatiche, in sociologia e in economia, ma anche negli approcci politici e teorici emancipativi. Stefan Merten, il fondatore di Oekonux che proviene da precedenti di anarco-marxista, rifiuta provocatoriamente “le ideologie di sinistre e le altre ideologie capitaliste” (Merten 2011) per l’analisi della produzione paritaria. Questo suona molto post-moderno, ma l’intenzione era molto diversa: tutti i mezzi di emancipazione dovranno svilupparsi proprio davanti ai vostri occhi, ma dobbiamo anche afferrarli teoricamente. Gli schemi tradizionali della sinistra non sono adatti a questo, perché aderiscono al modo di produzione determinato per il quale è condotta l’analisi.

Per molti, tradizionalisti di ogni schieramento, questa è stata una provocazione enorme. E ci sono stati molti scontri politici e culturali all’interno del progetto. Ma c’è stato anche un nucleo di persone che ha costantemente portato più avanti l’approccio Oekonux. Nel seguito cerco di descrivere alcuni modelli Oekonux, che ovviamente rappresentano la mia interpretazione del dibattito Oekonux. Quando uso il passato parlando di Oekonux non è perché il progetto non esista più. Esiste ancora e la rivista Critical Studies in Peer Production (NdTRivista di Studi Critici sulla Produzione Partecipativa)non è l’unico prodotto collaterale del progetto; ce ne sono stati molti altri, cosicché la concentrazione si estende a diversi progetti ispirati da Oekonux.

In un’intervista a Joanne Richardson, Stefan Merten (2001) ha descritto Oekonux come un progetto per valutare il software libero nel suo “potenziale per una società diversa oltre il lavoro, il denaro, lo scambio”. Qui egli offre le parole chiave su cui è stato costruito il pensiero Oekonux. Le riproporrò e le amplierò per illustrare perché e come le principali idee contraddicano così fortemente il pensiero tradizionale di sinistra, specialmente quando Oekonux è stato avviato nel 1999 (Merten 1999).

Paradigma 1: Oltre lo Scambio

Il software libero o, più in generale, la produzione paritaria su basi comunitarie non riguarda lo scambio. Dare e ricevere non vanno in coppia. Nell’ottica di oggi questo potrebbe non sembrare sorprendente, ma lo è stato agli inizi del progetto Oekonux. Ancor oggi gli approcci tradizionali della sinistra tradizionale sono basati sull’assunto che si sia autorizzati a ricevere qualcosa solo se si è disponibili e in grado di dare qualcosa in cambio, perché se tutti si limitassero a prendere allora la società morirebbe. Questa posizione potrebbe essere riferita a una penosa tradizione socialista (e cristiana) secondo cui chi non è disponibile a lavorare non dovrebbe mangiare. Tuttavia il software libero ha dimostrato chiaramente che gli sviluppatori non hanno bisogno di essere obbligati a fare quello che amano fare (vedere paradigma 5).

Un approccio importante che ha cercato di afferrare i nuovi sviluppi del software libero, seppur restando incollato al vecchio modo di pensare, è stato l’approccio dell’ “economia del dono”. Tuttavia non è un caso che l’espressione corretta sia ritenuta essere “l’economia dello scambio di doni”. Chi dà può aspettarsi di ricevere qualcosa in cambio, perché ciò è un dovere morale nelle società basate sullo scambio di doni. Questo tipo di dovere personale reciproco non esiste nel software libero. Anche se uno sviluppatore afferma di volere “dare qualcosa in cambio”, questo dare non è una precondizione per ricevere qualcosa. In generale, la produzione paritaria su base comunitaria si basa su contributi volontari incondizionati.

In un’ottica di sinistra, il dare e ricevere disaccoppiato potrebbe essere possibile solo in una terra mitica in un futuro lontano chiamato Comunismo, se ma fosse possibile. Ma mai oggi, perché prima che il comunismo sia possibile, è necessaria una fase intermedia poco gradevole chiamata socialismo aggrappata al dogma dello scambio (vedere paradigma 8). Storicamente il “socialismo realmente esistente” che ha cercato di attuare tale necessità è fallito, cosa che accadrà con tutti gli approcci socialisti che accettino il dogma dello scambio.

Se non si vuole rinunciare allo scambio, il capitalismo è l’unica opzione che rimane.

Paradigma 2: Oltre la Scarsità

E’ un malinteso comune che le cose materiali siano scarse mentre non lo siano quelle immateriali. Sembra giustificato mantenere i beni materiali sotto forma di merci mentre è richiesto che i beni immateriali siano gratuiti. Tuttavia questo assunto trasforma una proprietà sociale in una proprietà naturale. Nessun bene prodotto è scarso per natura. La scarsità è una conseguenza del fatto che i beni sono prodotti sotto forma di merci e pertanto la scarsità è un aspetto sociale della merce creata per il mercato. Nell’era digitale ciò è evidente a proposito dei beni immateriali, in quanto possiamo constatare chiaramente le misure adottate per rendere artificialmente scarsi tali beni. Tali misure includono leggi (basate sulla cosiddetta “proprietà intellettuale”) e barriere tecniche per evitare il libero accesso ai beni. Sembra essere meno ovvio per i beni materiali, perché siamo abituati alla non accessibilità dei beni materiali se non paghiamo per essi. Ma le misure sono le stesse: leggi e barriere tecniche, accompagnate dalla distruzione continua di merci per mantenerle rare abbastanza da ottenere un prezzo adatto sui mercati.

Inoltre sembra ovvio che dipendiamo tutti da beni materiali che possono non essere disponibili in quantità sufficienti. Anche i beni immateriali dipendono da un’infrastruttura materiale, al minimo i nostri cervelli (nel caso del sapere) che pure devono essere alimentati. Ciò è decisamente vero e tuttavia non ha nulla a che fare con la “scarsità naturale”. Poiché tutti i beni di cui abbiamo necessità devono essere prodotti, l’unica questione è come debbano essere prodotti in senso sociale. La forma di merce è un’opzione, la forma di risorsa comune è un’altra. Le merci devono essere prodotti in misura scarsa per realizzare il loro prezzo sul mercato. Le risorse comuni possono essere prodotte in base ai bisogni di che utilizza una determinata capacità produttiva. Possono esserci limitazioni contingenti, ma i limiti sono sempre stati soggetti alla creatività umana per essere superati.

Forse alcune limitazioni non potranno mai essere superate, ma questo, di nuovo, non è un motivo per rendere i beni artificialmente scarsi. In questi rari casi si possono utilizzare accordi sociali per organizzare un utilizzo responsabile della risorsa o del bene limitati. Il movimento per i beni comuni ha imparato che sia le merci rivali sia quelle non rivali possono essere prodotte come beni comuni, ma richiedono un trattamento sociale diverso. Mentre le merci non rivali si conviene siano accessibili gratuitamente per evitarne il sottoutilizzo, ha senso evitare il sovrautilizzo delle merci rivali trovando regole o misure adatte o a organizzare un uso sostenibile o a ampliare la produzione collettiva e così la disponibilità della merce rivale.

La scarsità è un fenomeno sociale che è inevitabile se i beni sono prodotti in forma di merce. Spesso la scarsità è confusa con i limiti che possono essere superati mediante gli sforzi e la creatività umana.

Paradigma 3: Oltre la Merce

Nei suoi studi Elinor Ostrom rilevò che “né lo stato né il mercato” sono mezzi efficaci per la gestione delle risorse comuni (1990). Basandosi sull’economia tradizionale ella analizzò le pratiche relative alle risorse comuni naturali e in conclusione dimostrò semplicemente errati i dogmi liberali. I mercati non sono un buon modo per allocare le risorse e lo stato non è un buon modo per redistribuire la ricchezza e gestire le conseguenze distruttive dei mercati. Risultati migliori si hanno se le persone si organizzano in base alle proprie necessità, esperienze e creatività e trattano le risorse e i beni, non come merci bensì come un serbatoio comune di risorse.

Questo è esattamente quel che accade nel software libero. E’ interessante che ci siano voluti tanti anni per comprendere che il software libero è una risorsa comune e che è fondamentalmente identico a ciò di cui Elinor Ostrom e altri parlavano tanto tempo prima. Un aspetto debole della ricerca tradizionale sulle risorse comuni e della prima fase del software libero è stato che non esisteva una chiara nozione di merce e non merce. E’ stato il progetto Oekonux che ha affermato chiaramente: il software libero non è una merce. Questa massima è strettamente collegata all’intuizione che il software libero non è oggetto di scambio (v. paradigma 1).

I critici di sinistra hanno sostenuto che l’essere ‘non merce’ è qualcosa di limitato al regno dei beni immateriali, come il software. Dal loro punto di vista il software libero è solo una “anomalia” (Nuss, Heinrich 2002) mentre i beni “normali” nel capitalismo devono essere merci. Questo assioma, tuttavia, è strettamente legato all’accettazione del dogma della scarsità (v. paradigma 2). Inoltre esso tratta il capitalismo come una specie di modo normale e naturale di produzione in condizioni di “scarsità naturale” (dal loro punto di vista). Quest’ottica capovolge completamente le relazioni reali. Il capitalismo si è potuto stabilire soltanto appropriandosi delle risorse comuni, privando le persone del loro tradizionale accesso alle risorse al fine di trasformarle in lavoratori. Questa appropriazione delle risorse comuni è un processo in corso. Il capitalismo può esistere solo separa costantemente le persone dalle risorse, rendendole artificialmente scarse. Una merce – per quanto attraente possa apparire nei centri commerciali – è il risultato di un processo violento in corso di appropriazione e spossessamento.

Lo stesso processo si verifica nel software. Il software proprietario è un modo di spossessare la comunità scientifica e di sviluppo del proprio sapere, esperienza e creatività. Il software libero è stato inizialmente un atto difensivo di mantenimento della comunitarietà delle risorse comuni. Tuttavia, poiché il software è in prima linea nello sviluppo di forze produttive, si è rapidamente trasformato in un processo creativo di superamento dei limiti e dell’alienazione del software proprietario. In un settore speciale il software libero ha creato un nuovo modo di produzione che è destinato ad estendersi ad altri settori. (v. paradigma 10).

I beni che non sono resi artificialmente scarsi e non sono oggetti di scambio non sono merci bensì risorse comuni.

Paradigma 4: Oltre il Denaro

Poiché il denaro ha senso solo per le merci, una “non merce” (v. paradigma 3) implica che non vi sia coinvolto denaro. Il Software Libero va dunque oltre il denaro. D’altro canto vi è naturalmente una quantità di denaro che gira intorno al Software Libero: gli sviluppatori sono pagati, le aziende spendono denaro, attorno al Software Libero si creano nuove imprese. Questo ha confuso molti, anche a sinistra. Si attengono a un modo di pensare del tipo “o questo o quello”, essendo incapaci di interpretare queste considerazioni come un processo contraddittorio di sviluppo parallelo in un periodo di transizione sociale (v. paradigma 10).

Il denaro non è uno strumento neutro; il denaro può comparire in situazioni sociali diverse. Può essere denaro proveniente da stipendi/salari, essere denaro investito (capitale), profitto, contante ecc. Funzioni diverse devono essere analizzate in modo diverso. Nel Software Libero non è coinvolta la forma di merce e dunque il denaro, nello stretto senso di vendere una merce per un certo prezzo, non esiste. Tuttavia Eric Raymond ha spiegato come far soldi utilizzando una “non merce”; combinandola con un bene scarso. In una società capitalista dove solo pochi beni si sono sottratti al regno delle merci, è fuori questione che tutti gli altri beni continueranno a esistere come merci. Sono mantenuti scarsi e sono combinati con un bene senza prezzo. Utilizzando un’ottica di valorizzazione non si tratta di nulla di nuovo (ad esempio fare regali per attrarre clienti). Usando un’ottica di riconoscimento di una forma germinale in questa modalità si avvia un nuovo modo di produzione da sviluppare all’interno del vecchio modello tuttora esistente.

Ma perché le imprese danno denaro se tale denaro non è un investimento nel senso tradizionale, ma una specie di donazione, ad esempio per pagare gli sviluppatori del Software Libero? Perché la IBM ha messo un miliardo di dollari nel Software Libero? Perché sono state costrette a farlo. Economicamente parlando hanno dovuto svalutare un settore d’affari per salvare altre aree reddituali. Devono bruciare soldi per creare un ambiente costoso per le proprie vendite (ad esempio di hardware dei server). Poiché l’appropriazione di beni comuni è una precondizione del capitalismo, è vero anche il contrario. Estendere i beni comuni a un campo attualmente dominato dalle merci significa che quel campo è sostituito dai beni liberamente disponibili.

Tuttavia le “quattro libertà” del Software Libero – utilizzo, studio, modifica e redistribuzione – (Free Software Foundation, 1996) non parlano di “libero” nel senso di “gratuito”. Gli slogan del tipo “libero come in ‘libertà’, non libero come in ‘birra gratis’” sono una moltitudine. Ciò va assolutamente bene e non contraddice la massima “oltre il denaro”, perché le quattro libertà non dicono nulla a proposito del denaro. Le quattro libertà riguardano la libera disponibilità, riguardano l’abbondanza. Dunque l’assenza di denaro è un effetto indiretto. Beni abbondanti, e quindi non scarsi, non possono essere merci (vedi paradigma 2) e non possono produrre denaro. Tuttavia far soldi non è vietato di per sé.

C’è stata una quantità di tentativi di integrare la circolazione comunitaria libera del Software Libero (non oggetto di scambio, non merce) all’interno del tradizionale paradigma economico, che è basato sullo scambio e la merce. Il più notevole è stata la “economia dell’attenzione”, che affermava che i produttori non scambiano beni bensì attenzione (Goldhaber, 1997). Si era concluso che l’attenzione fosse la nuova moneta. Ma è stato solo un tentativo disperato di restare attaccati a vecchi termini che né hanno funzionato correttamente, né hanno offerto intuizioni nuove, e così non è stato rilevante. Tralascio qui svariati altri tentativi simili.

Essere oltre il denaro ha come conseguenza diretta non essere merce.

Paradigma 5: Oltre il Lavoro

Il Software Libero, e i beni comuni in generale, sono oltre il lavoro. Ciò può essere compreso solo se si afferra il concetto di ‘lavoro’ come attività produttiva specifica di una certa forma storica di società. Vendere la forza lavoro – cioè la capacità di lavorare – a qualche capitalista che la utilizza per produrre un valore superiore a quello della forza lavoro è qualcosa di unico nella storia. Ciò ha due conseguenze importanti.

Primo: trasforma l’attività produttiva – che è sempre stata usata dagli uomini per provvedere alla propria sussistenza – in lavoro alienato. Tale alienazione non è imposta attraverso il dominio personale, ma mediante una coercizione strutturale. Nel capitalismo gli esseri umano possono sopravvivere solo se pagano per la propria sussistenza, il che costringe le persone a guadagnare soldi. Guadagnare soldi si può attuare o vendendo la propria forza lavoro o acquistando e valorizzando la forza lavoro di altri. Il risultato è un processo distorto in cui esigenze strutturali prescrivono quello che una persona deve fare (vedi paradigma 6) .

Secondo: crea l’homo oeconomicus, l’individuo isolato che cerca la massimizzazione del proprio utile, se necessario anche a spese di altri. Gli economisti tradizionali asseriscono quindi che l’homo oeconomicus è l’archetipo dell’essere umano, il che confonde un risultato storico specifico con un presupposto naturale.

Invece che sul lavoro il Software Libero si basa sulla ‘Selbstentfaltung’ [NdT Espressione/realizzazione/gratificazione di sé stessi]. Il concetto tedesco di Selbstentfaltung non è facile da tradurre. Da un lato parte dal “grattarsi un prurito”(Eric Raymond), “fare quello che proprio davvero si vuol fare” (Fritjof Bergmann) e “divertirsi un mucchio” (lo sviluppatore del Software Libero). Dall’altro, esso integra altri compagni di sviluppo per ricercare la soluzione migliore possibile. Questo si traduce anche in un grande coinvolgimento, passione e sforzo, non soltanto nel cogliere i frutti dei rami più bassi. Include una reciprocità positiva con gli altri che perseguono lo stesso obiettivo in modo tale che la Selbstentfaltung di uno sia la precondizione della Selbstentfaltung degli altri. Non per caso ciò richiama il Manifesto Comunista in cui “il libero sviluppo di ciascuno è la condizione del libero sviluppo di tutti” (Marx, Engels 1848). Tuttavia il Software Libero non è un obiettivo di una società futura, bensì una caratteristica inalienabile dell’avvio di un nuovo modo di produzione in direzione di quella nuova società libera.

Invece di vendere le energie individuali a fini alienati, ciò che solitamente è definito ‘lavoro’, il Software Libero è basato sulla Selbstentfaltung, che è lo sviluppo libero di tutte le forze produttive delle persone.

Paradigma 6: Oltre le Classi

Il capitalismo è una società di divisioni. Acquisti contro vendite, produzione contro consumo, lavoro contro capitale, lavoro concreto contro lavoro astratto, valore d’uso contro valore di scambio, produzione privata contro distribuzione sociale ecc. Lo sviluppo capitalista è mosso dalle contraddizioni tra queste parti separate. Tra esse, il lavoro e il capitale sono una delle contraddizioni e tuttavia sembra si tratti di quella più rilevante. Una persona sembra essere classificata in base al suo essere venditore o acquirente di lavoro, lavoratore o capitalista. Tuttavia, di fatto il lavoro e il capitale non sono proprietà degli individui bensì funzioni sociali opposte come tutte le altre divisioni che il capitalismo genera.

Perciò non è vero che solo uno dei lati delle varie divisioni rappresenta quello generale o progressista. Al contrario, entrambe le parti della divisione dipendono l’una dall’altra. Il lavoro produce capitale e i capitale crea lavoro. E’ un ciclo alienato di riproduzione permanente delle forme capitaliste. Così entrambe le parti di queste divisioni, ad esempio il lavoro e il capitale, sono funzioni necessarie del capitalismo. Il cosiddetto antagonismo di lavoro e capitale è in realtà una modalità puramente immanente dello sviluppo storico del capitalismo. La classe lavoratrice non rappresenta un’emancipazione, in nessun modo.

Il Software Libero e la produzione paritaria in generale non generano classi; sono, piuttosto, al di là di tale modalità. Rappresentano una forma germinale (v. paradigma 10) di un nuovo modo di produzione che, in generale, non si basa sulle divisioni ma sull’integrazione di bisogni, comportamenti e desideri diversi come potente forma di sviluppo. Lo sfruttamento non esiste, perché non esistono la vendita e l’acquisto del lavoro e il denaro può svolgere un ruolo solo in partite di retroguardia relative a società antiquate chiamate “capitalismo”.

Selbstentfaltung come essere umano che si sviluppa è la fonte di una transizione sociale in direzione di una società libera, non di un’appartenenza di classe.

Paradigma 7: Oltre l’Esclusione

Una delle divisioni fondamentali che il capitalismo genera è la divisione tra quelli che sono all’interno e quelli che non vi sono. Lo schema interno/esterno non è una separazione di classe (v. paradigma 6) e non è soltanto una grande divisione. E’ un meccanismo strutturale di inclusione ed esclusione in tutte le linee possibili della società: tra chi ha un lavoro e chi non lo ha, tra i ricchi e i poveri, tra gli uomini e le donne, tra la gente di colore e i bianchi, tra i capi e i subordinati, tra i proprietari dei mezzi di produzione e i non proprietari, tra i membri della previdenza sociale e i non membri, ecc. Deve essere riconosciuta come un principio strutturale fondamentale del capitalismo. L’inclusione di una parte implica l’esclusione dell’altra. Per il singolo ciò significa che ogni progresso personale è realizzato a spese di altri che restano fermi o regrediscono.

In generale i beni comuni sono oltre il meccanismo di esclusione. Nel Software Libero, per esempio, quante più persone attive aderiscono a un progetto, tanto più rapidamente e meglio può essere conseguito un obiettivo. Qui il rapporto tra le persone non è strutturato su basi di inclusione/esclusione ma attraverso una reciprocità inclusiva (Meretz 2012). Chi gestisce un progetto cerca di includere quante più persone attive possibile, si sforza di ottenere un’atmosfera creativa, e cerca di risolvere i conflitti in modo tale che quante più persone possibili possano seguire il “consenso grezzo” ed il “codice che gira” (NdT Il riferimento è al motto delle comunità informatiche in rete che si trova in una presentazione IETF del 1992: We reject: kings, presidents and voting. We believe in: rough consensus and running code. “Rigettiamo re, presidenti e voti. Crediamo invece nel consenso grezzo e nel codice che gira”).

Se il consenso non è possibile allora la soluzione migliore è una divisione, una opzione rischiosa ma valida per verificare direzioni di sviluppo diverse. Se si guarda alle divisioni esistenti (ad esempio tra Kde e Gnome) molte di esse collaborano strettamente o mantengono un’atmosfera di cooperazione. Sì, ci sono altri esempi di contrasti reciproci. Ma queste divisioni improduttive sono principalmente dovute al fatto che vi svolgono un ruolo importante interessi alienati. Oracle ha tentato di attuare un regime di dominio e controllo dopo aver acquistato OpenOffice come parte della pacchetto Sun. La scissione a LibreOffice da parte di molti sviluppatori importanti è stata un atto di autodifesa e di autodeterminazione per conservare il loro ambiente di Selbstentfaltung. Non vogliono tornare indietro al vecchio “modo di lavorare” allo sviluppo (v. paradigma 5).

Mentre il capitalismo è strutturalmente basato sul meccanismo di esclusione, la produzione paritaria su base comunitaria crea e fa progredire l’inclusione.

Paradigma 8: Oltre il Socialismo

Il socialismo, così come definito da Karl Marx nella “Critica del programma di Gotha” (Marx, 1875) è una società produttrice di merci governata dalla classe lavoratrice. Storicamente ciò è stato realizzato dal cosiddetto “socialismo reale”. Ci sono state molte critiche dei paesi a socialismo reale (mancanza di democrazia, ecc.) dall’interno della sinistra. Ciò nonostante buona parte della sinistra condivide l’assioma che sia inevitabile una fase intermedia tra una società libera (che può essere chiamata comunismo) e il capitalismo. L’idea generale è che la classe lavoratrice, una volta al potere, possa ricostruire l’intera economia secondo i propri interessi, che rappresentano la maggioranza della società. In breve: prima viene il potere, poi seguirà un nuovo modo di produzione, al fine di costruire una società davvero libera. Questa idea storicamente è fallita.

Il motivo di tale fallimento non sta in carenze o differenze tattiche interne. E’ invece dovuto al concetto irrealistico della trasformazione storica qualitativa. Mai nella storia la questione del potere è stata al primo posto; è sempre stato un nuovo modo di produzione, emerso dalla vecchia maniera di produrre, che ha preparato la transizione storica. Il capitalismo si è inizialmente sviluppato dall’artigianato delle città medievali, poi integrato in fabbriche e che alla fine ha portato al sistema della grande industria. La questione del potere è stata risolta “per strada”. Ciò non sminuisce il ruolo della rivoluzione, ma le rivoluzioni si limitano a realizzare e promuovere ciò che già si stava sviluppando. Le rivoluzioni della Primavera Araba non creano nulla di nuovo, ma cercano di realizzare i potenziali di una normale società democratica borghese.

Questa analisi degli sviluppi storici (discussi in maggiore dettaglio nel paradigma 10 deve essere applicata alla situazione attuale. La transizione storica non può essere realizzata impossessandosi del potere politico – per via parlamentare o mediante azioni di piazza – bensì sviluppando un nuovo modo di produzione. Il criterio per essere “nuovi” si può derivare dalla negazione del vecchio modo di produzione. Invece di merci, produzione di beni comuni. Invece di scambi mediati dal denaro, libera distribuzione. Invece di lavoro, Selbstentfaltung. Invece di meccanismi di esclusione, potenziale inclusione di tutti. Si deve comunque essere attenti perché non tutti gli sviluppi del capitalismo devono essere aboliti. Piuttosto certi proseguiranno, anche se in forma trascesa.

La produzione paritaria su base comunitaria trascende il capitalismo ed anche il socialismo basato sulle merci.

Paradigma 9: Oltre la Politica

Poiché la produzione paritaria su base comunitaria riguarda principalmente un nuovo modo di produzione, è fondamentalmente un movimento apolitico. Qui la politica è intesa come rivolgersi allo stato e alle sue istituzioni per richiedere cambiamenti in una qualche direzione desiderata. Tali politiche sono basate su interessi che nel capitalismo sono generalmente contrapposti. Se una società è strutturata secondo schemi di inclusione/esclusione (v. paradigma 7) allora è necessario organizzare interessi comuni ma parziali al fine di conseguirli a spese degli interessi comuni parziali di altri. In questo senso i beni comuni sono oltre la politica, poiché fondamentalmente non operano nel regno degli interessi bensì in quello dei bisogni.

E’ importante distinguere tra bisogni e interessi. I bisogni devono essere organizzati sotto forma di interessi se la modalità normale di attuazione è l’esclusione degli interessi di altri. I beni comuni, d’altro canto, sono basati solo sulla varietà dei bisogni dei partecipanti, che operano come fonte di creatività. La mediazione di questi bisogni diversi fa parte del processo della produzione paritaria. Non è dunque necessario che i partecipanti organizzino ulteriormente i loro bisogni come interessi e cerchino di attuarli politicamente. Essi, invece, ottengono ciò direttamente.

Un aspetto che chiarisce questo è la questione delle gerarchie. Normalmente le gerarchie fanno parte della produzione capitalista delle merci. Perciò un tema comune della sinistra era il rifiuto di ogni gerarchia per evitare il dominio. Ciò ignora il fatto che le gerarchie in quanto tali non generano dominio, ma piuttosto la funzione che le gerarchie hanno in un determinato contesto. In un’impresa le gerarchie esprimono interessi diversi, ad esempio gli interessi dei lavoratori e quelli dell’amministrazione (v. paradigma 5). Tuttavia in un progetto di produzione paritaria una gerarchia può esprimere livelli diversi di competenza o responsabilità diverse, che sono condivise da coloro che accettano qualcuno in una posizione di guida. Essere un gestore non significa perseguire interessi diversi a spese dei membri del progetto. Un tale progetto non prospererebbe. Al contrario un gestore desidera fortemente integrare quanti più membri attivi e competenti possibile. Ciò non evita i conflitti, ma i conflitti sono risolti sulla base comune degli obiettivi del progetto.

La produzione paritaria su base comunitaria non richiede di articolare i bisogni delle persone sotto forma di interessi contrapposti e perciò è oltre la politica.

Paradigma 10: Forma germinale

Ultimo ma non di secondaria importanza, il paradigma più importante è la forma germinale, ovvero il modello a cinque stadi (Holzkamp, 1983). E’ un modello per comprendere l’esistenza concomitante di fenomeni di qualità diverse. Quando si discute della produzione partecipativa, il dibattito è spesso dominato da due gruppi: quelli che sono a favore della produzione paritaria e cercano di dimostrare che la produzione paritaria è anticapitalista e quelli che considerano la produzione paritaria solo una modernizzazione del capitalismo. La sfida sta nel vederla in entrambi i modi. Il modello della forma germinale realizza questo considerando l’emergere e lo svilupparsi della produzione partecipativa su base comunitaria come un processo che si sviluppa nel tempo secondo contraddizioni che gli sono proprie.

Normalmente l’applicazione del modello a cinque stadi è una procedura retrospettiva in cui il risultato dello sviluppo analizzato è ben noto. Presupponendo mentalmente il risultato di una transizione a una società libera basata sulla produzione paritaria su base comunitaria, l’emergere di questo risultato può essere ricostruito utilizzando il modello. Ecco uno schizzo molto alla buona dei cinque stadi applicati al caso della produzione paritaria:

1. Forma germinale: Appare una nuova funzione. In questo stadio la nuova funzione non deve essere interpretata come un germe o un seme ricco che racchiude tutte le proprietà dell’entità finale che deve limitarsi a crescere. Piuttosto in questa fase la forma germinale mostra solo i principi del nuovo, ma non è il nuovo in sé stessa. Così la produzione paritaria su base comunitaria non è il nuovo in sé, bensì l’aspetto qualitativamente nuovo che mostra è la mediazione orientata al bisogno tra pari (basata sulla Selbstentfaltung, vedere paradigma 5) . Nel corso di questo stadio ciò è visibile solo a livello locale.

2. Crisi: solo se l’intero vecchio sistema cade in una crisi la nuova forma germinale può lasciare la propria nicchia. Il modo capitalista di produzione e mediazione sociale attraverso le merci, i mercati, il capitale e lo stato ha portato l’umanità a una crisi profonda. E’ entrato in una fase di successivo disfacimento ed esaurimento di risorse sistemiche accumulate storicamente. Le ricorrenti crisi finanziarie rendono evidente questo a chiunque.

3. Funzione di svolta: la nuova funzione abbandona la sua condizione di forma germinale nella nicchia e acquista rilevanza per la riproduzione del vecchio sistema. L’ex forma germinale ha ora due facce. Da un lato può essere utilizzata nell’interesse del vecchio sistema e dall’altro la sua logica peculiare è, e rimane, incompatibile con la logica del vecchio sistema dominante. La produzione paritaria è utilizzabile a fini di contenimento dei costi e di creazione di nuovi ambienti per attività commerciali, ma si basa su uno sviluppo non mercificato nell’ambito delle proprie attività (v. paradigma 3). La cooptazione e l’assorbimento in cicli di normale produzione di merci sono possibili (De Angelis, 2007) e solo se la produzione paritaria è in grado di difendere i suoi principi peculiari di comunitarietà e le sue capacità di creare reti su tale terreno, sarà raggiunto lo stadio successivo. Il Software Libero, come esempio di produzione paritaria, è chiaramente a questo stadio.

4. Passaggio al predominio: La nuova funzione diviene prevalente. La vecchia funzione non scompare immediatamente, ma retrocede, come funzione precedentemente dominante, in segmenti marginali. La produzione paritaria su base comunitaria ha ora raggiunto una densità di rete a livello globale cosicché i collegamenti di input-output sono chiusi in circuiti autonomi. Una produzione privata separata con la successiva mediazione del mercato utilizzando il denaro non è più richiesta. La mediazione sociale basata sui bisogni organizza la produzione e la distribuzione. L’intero sistema ha ora modificato qualitativamente il proprio carattere.

5. Ristrutturazione: La direzione dello sviluppo, le strutture che ne costituiscono la spina dorsale e le logiche funzionali fondamentali sono cambiate. Questo processo abbraccia un numero sempre maggiore di campi sociali che si rifocalizzano in direzione del nuovo modo di mediazione sociale basato sui bisogni. Lo stato è spogliato, emergono nuove istituzioni, che non hanno più il carattere uniforme di Stato, ma sono strumenti dalla Selbstentfaltung collettiva (v. paradigma 5). Possono emergere nuove contraddizioni, può avviarsi un nuovo ciclo di sviluppo.

Questo è soltanto un modello epistemologico, non uno schema d’azione immediata. Il principale vantaggio è la possibilità di sottrarsi a infruttuosi dibattiti su “o questo o quello”. Consente di pensare all’emergere di un nuovo modo di produzione utile per il vecchio sistema mantenendone la funzione trascendente, come fenomeno concomitante, in direzione di una società libera.

Il modello della forma germinale adattato nel contesto Oekonux è una concettualizzazione dialettica della transizione storica.

Conclusione

Lungi dall’essere una teoria coerente della transizione storica verso una società libera, riteniamo che questi paradigmi descrivano abbastanza bene il lavoro teorico di Oekonux perché non rientrano in nessuno degli approcci tradizionali. Ci potrebbe essere qualche accordo con uno o l’altro approccio, e la maggior parte dei partecipanti al progetto Oekonux non saranno d’accordo con tutti i paradigmi descritti, ma nessun singolo approccio è in grado di rispondere a tutte le sfide in una sola volta in modo coerente.

Questo non è casuale. Da una parte, la formazione di una nuova società non può essere interamente compresa nei termini di una società già pienamente sviluppata la cui storia è in corso di realizzazione. Dall’altra parte, ci sono aspetti generali che continuano a esistere in tutte le società, ma che subiscono una riconfigurazione. Altri aspetti si dissolvono completamente. Ed, infine, alcuni aspetti sono influenzati in un modo che difficilmente avranno qualcosa in comune con la loro origine. Queste tre forme di transizione – la conservazione, la dissoluzione e l’influenza – descrivono il significato di ciò che G.W.F. Hegel chiama abrogazione (Aufhebung). Con i dieci paradigmi di transizione sociale presentati in questo testo cerchiamo di soddisfare tale requisito.

Ringraziamenti

Un grazie speciale a Stefan Merten e Mathieu O’Neil per l’aiuto nella revisione. Tomislav Knaffl ha offerto suggerimenti utili.

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Da Socialforge – Un laboratorio di creazione sociale

http://www.socialforge.org

Fonte: http://keimform.de/2011/peer-production-and-societal-transformation

Originale: Keimform.de

Traduzione di Giuseppe Volpe

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