Finanziare i sussidi mediante moneta complementare

da Mainstream, 25 aprile 2013

Riceviamo e volentieri pubblichiamo il seguente contributo di Guido Ortona, Professore Ordinario di Politica Economica presso l’Università del Piemonte Orientale
(M.B.)

Vorrei sottoporre all’attenzione di coloro che sono interessati la proposta che l’Italia provveda al soccorso dei cittadini più bisognosi mediante la stampa di moneta. Prego il lettore di prendere sul serio la frase “sottoporre all’attenzione”: è possibile che la proposta sia assurda, o che non lo sia ma ci siano ostacoli molto seri, o che sia inopportuna, e in generale che abbia dei difetti che io non ho visto. Penso però che valga comunque la pena di discuterne, eventualmente per decidere che è impraticabile. Qui di seguito i dettagli.

L’Italia dovrebbe stampare una moneta parallela all’euro, chiamiamola lira, da usarsi per distribuire un sussidio di disoccupazione generalizzato. Vari interventi, su cui non mi dilungo,  suggeriscono che il valore complessivo dovrebbe essere dell’ordine di 10 miliardi di Euri all’anno. Il tasso nominale di cambio più comodo sarebbe ovviamente 1 lira = 1 Euro; la lira però non dovrebbe essere convertibile in euro né in altre valute, né dare origine a depositi fruttiferi. Inoltre non dovrebbe essere utilizzabile per pagare contributi fiscali o previdenziali (dato che altrimenti si tradurrebbe in un’altra manovra, e cioè l’emissione di euro).
E’ appena il caso di ricordare che 10 miliardi costituiscono circa due terzi dell’1% del pil. Il pericolo che la politica qui suggerita abbia seri effetti inflazionistici è quindi minuscolo, e certamente risibile di fronte al ben più grave pericolo di deflazione causata dalla costante diminuzione della domanda interna.
Che corso dovrebbe avere la nuova valuta?  Ci sono tre possibilità. La prima è che il corso sia puramente volontario. Le varie esperienze di monete locali che si stanno sperimentando un po’ dovunque sono incoraggianti, ma credo che l’accettazione volontaria non sia sufficiente per uno schema così ampio e non radicato in una specifica realtà locale. La seconda è che il corso sia forzoso. Non vedo obiezioni a questa possibilità, se non il malcontento che potrebbe generare, anche se probabilmente solo inizialmente, e possibili ostacoli giuridici nazionali o più facilmente europei. La terza possibilità, intermedia fra le due, mi pare quindi la migliore. La moneta dovrebbe  essere utilizzabile solo per due usi specifici, e cioè 1) l’acquisto di beni, sia di consumo corrente, che durevole, che di investimento presso venditori disponibili ad accettarla; e 2) il pagamento delle spese di personale da parte dei medesimi, limitatamente a una data quota; diciamo che ogni dipendente potrebbe essere pagato in lire solo per il 25% della sua retribuzione netta. Il corso della moneta sarebbe quindi garantito semplicemente dal fatto che non ci sarebbe motivo di non accettarla: i venditori sarebbero indotti ad accettarla dalla concorrenza fra di essi e dal fatto che possono utilizzarla per pagare il personale, e il personale dalla possibilità di utilizzarla per acquisti correnti. Un’occhiata ai dati suggerisce che questa strada è praticabile: una stima molto conservatrice dei redditi netti dei soli addetti al commercio è di circa 45 miliardi, quindi dieci miliardi sarebbero meno di un quarto dei loro redditi, una cifra sicuramente inferiore a quanto speso in consumi correnti. Ove necessario, ma non dovrebbe esserlo, l’accettazione della Lira potrebbe eventualmente essere incentivata garantendo a chi  riceve parte del salario o dello stipendio in Lire un (piccolo) sconto fiscale determinato dal maggior gettito conseguente all’effetto espansivo della domanda aggiuntiva che si viene a creare.
Vorrei sottolineare che considero quanto qui suggerito un palliativo per la crisi sociale italiana assai più che una soluzione. Credo (e mi pare che ormai siamo in molti a crederlo) che l’Italia sarà presto costretta a lasciare l’euro e/o a denunciare il debito pubblico; il problema è se lo faremo prima o dopo avere subito una macelleria sociale di tipo greco. In entrambi i casi si renderanno necessarie (e possibili) politiche molto più impegnative.

Guido Ortona

Avoiding Economic Collapse: A Guide to Complementary Currencies

 

As the Cyprus fiasco focuses attention once again on the faltering Euro, the public is finally questioning the value of the money in their wallets and bank accounts. But as the issue of monetary reform gains currency amongst the public, a vast array of complementary currencies are already helping people facilitate transactions without the central bank administered fiat money. Find out more in this week’s GRTV Backgrounder on Global Research TV.

Grecia, doppia valuta per salvarsi

GrandTour, 29 Marzo 2012

La strategia europea per il salvataggio greco è “disperata” e il paese dovrebbe considerare l’adozione di un doppio sistema monetario, ha detto il presidente della Banca centrale di Polonia Marek Belka al giornale tedesco Financial Times Deutschland

“Il paese dovrebbe avere un regime speciale per un tempo limitato”, Belka ha dichiarato in un’intervista pubblicata oggi.

“Non sto chiedendo di mettere la Grecia fuori dalla zona euro, ma per scopi interni potrebbe essere considerato uno strumento di pagamento da utilizzare all’interno del paese, principalmente dal settore pubblico.”   Secondo la strategia di Belka l’Europa sta spingendo la Grecia a ridurre drasticamente i prezzi dei salari per farla diventare più competitiva e accettare i pacchetti di salvataggio sono “disperati”.

Inoltre, il presidente della Banca centrale della Polonia ha detto che il doppio sistema monetario i depositi presso le banche resterebbero in euro e non perderebbero il loro valore. Ma i salari in Grecia verrebbero pagati con una nuova moneta svalutata rispetto all’euro.

Secondo Belka  questa “svalutazione nascosta” renderebbe i prodotti e i servizi greci più economici e più competitivi.   “I greci dovranno fare altri sacrifici, ma almeno avverranno in modo civile”, ha detto. “Dobbiamo rendere i servizi turistici più attraente. La Grecia deve reinventarsi”.

La Libera Scuola delle Alternative

Per una Scuola delle Alternative: : cosa sono la “decrescita” e la “critica allo sviluppo”?
di Dalma Domeneghini – 06/05/2007

Introduzione

Il testo che segue contiene la sintesi della proposta del gruppo che ha promosso le prime tre edizioni estive della “Libera Scuola delle Alternative” (Parco dell’Aspromonte – RC 2004, Parco Isola Polvese – PG 2005, Agape – TO 2006) e che ha preparato anche la quarta edizione (Agape – TO 2007); il gruppo è composto da studiosi ed ‘animatori di reti’ che hanno deciso di approfondire la riflessione sul tema della “critica allo sviluppo” tramite una scuola estiva e specifiche ricerche e seminari, per cercare di rispondere a queste domande: cosa sono la “decrescita” e la “critica allo sviluppo”?

Diciamo subito che decrescita è il termine con cui sempre più spesso si indica la posizione critica, forse la più netta, ad un sistema economico dominante la cui caratteristica fondamentale è quella di fondarsi su una crescita continua dei consumi e delle merci messe a disposizione sul mercato. Il termine che abitualmente si usa per alludere a questo aspetto è “sviluppo”, che, pertanto, può essere ampiamente considerato ai fini del ragionamento (anche se non tutti sono d’accordo) un sinonimo di crescita quantitativa illimitata.

È dalla fine della seconda guerra mondiale che l’imperativo di tutte le economie – sia capitalistiche che socialiste – è stato lo sviluppo. Dal mondo industrializzato il modello è stato esportato nei paesi del cosiddetto Terzo mondo, definiti da quel momento “sottosviluppati”, divenendo, con la globalizzazione, un obiettivo planetario. Il concetto ci è talmente familiare che non ci chiediamo più cosa significhi veramente.

Ma, già a partire dagli anni ’70 del Novecento questo modello è stato sottoposto a critiche sempre più severe. Negli ultimi anni, una serie di fenomeni quali i danni alla biosfera (in particolare i mutamenti climatici), l’esaurimento progressivo delle materie prime strategiche, il fallimento dei progetti di sviluppo nel sud del mondo supportati dalla “cooperazione internazionale”, gli effetti contraddittori della globalizzazione, hanno dato sempre più argomenti a coloro che criticano lo sviluppo. La proposta della decrescita appare la più eretica in quanto i suoi sostenitori sostengono l’urgenza, pena la catastrofe ecologica e sociale, di una decrescita volontaria, consapevole e selettiva delle produzioni e dei consumi, per scendere dalle spalle del Sud povero del mondo, ridurre la dipendenza dall’importazione di materie prime e lasciare qualche speranza alle generazioni future.

La critica allo sviluppo (e quindi a maggior ragione alla decrescita) nasce quindi dalla registrazione dei danni sempre più gravi che il modello economico dominante provoca sul piano sociale (aumento della povertà e della disuguaglianza), e dell’ambiente (grave alterazione degli equilibri ecologici) e quindi dalla sua stessa crisi come modello di riferimento ‘planetario’.

È ovvio che mettere in discussione il sistema economico dominante, un sistema che ha permesso (e permette tuttora) anche se solo a una parte molto limitata della popolazione mondiale, un livello di vista sicuramente agiato, susciti il rifiuto non solo dalle élite dominanti (economisti, imprenditori, politici ecc.), ma anche da chiunque senta minacciato il tenore di vita di cui gode.

La critica allo sviluppo significa in sostanza critica del modello socio-economico industriale e capitalistico? Si, certamente, ma in verità entra nel merito anche di quel modello socio-economico e politico che per quasi tutto il Novecento è sembrato, agli occhi di molti, essere la sua alternativa: il socialismo. In verità la parola socialismo indica cose molto diverse, ma qui non è possibile fare i necessari distinguo. Diciamo quindi solamente che, se il nocciolo del progetto socialista era costituito dall’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione e dalla sua sostituzione con la direzione dello Stato, come è accaduto nella scomparsa Unione Sovietica, questo modello non è stato meno ‘sviluppista’ di quello capitalista. Anzi, le terrificanti condizioni ecologiche dell’Europa dell’Est dimostrano che lì lo sviluppo industriale è stato ancora più pesante. In qualunque caso quel modello, là dove era stato costruito, è entrato in crisi e quindi oggi non costituisce più un alternativa reale. Esso è stato giudicato da molti nient’altro che un capitalismo di Stato che ha condiviso con il capitalismo occidentale gli stessi obiettivi e le stesse modalità di sfruttamento dell’uomo e della natura.

I critici dello sviluppo, già a partire dagli anni ’60, hanno messo in discussione quindi l’aspetto più profondo della società industriale e hanno cioè affermato che questa non può essere estesa a tutta l’umanità: è oramai evidente che il pianeta non potrà mai sostenere una popolazione planetaria (anch’essa in crescita.), in cui tutti vivono secondo il nostro stile di vita e quindi quello che probabilmente accadrà, sino al collasso ambientale che si prospetta sempre più prossimo, sia un fenomeno cui già assistiamo che vede aumentare la pressione sul pianeta da parte di pochi privilegiati e la sottrazione di risorse e la conseguente sempre maggiore esclusione, fino all’indigenza assoluta, del resto dell’umanità.

Il livello di vita della società dei consumi di massa, così come si è affermato nel Nord America e in Europa (e a cui già si affacciano Cina e India) non può essere sostenuto dal pianeta: calcolando l’impatto dei nostri consumi sulla natura (rifiuti e utilizzo delle risorse, la cosiddetta “impronta ecologica”) e estendendo il nostro stile di vita per ogni abitante del mondo, otterremmo che sarebbero necessari cinque pianeti Terra per soddisfare tutte le nuove necessità.

La critica allo sviluppo si articola però in diverse posizioni. Accanto a quella della decrescita che ci ha attratto per la sua radicalità e per la crescente diffusione che sta conoscendo, va registrata un’altra prospettiva che cerca di salvare il concetto di sviluppo mostrando che esso può essere corretto in modo che sia “sostenibile” o “durevole”. Questi due aggettivi sono diventati molto frequenti, specie il primo, nei documenti di molte agenzie internazionali tra cui l’ONU. L’aspetto essenziale del concetto di “sviluppo sostenibile” consiste nella fiducia di potere ricomporre le ragioni dell’economia e della natura. Questa formula racchiude una certa consapevolezza della necessità di un limite alla crescita, ma conserva il primo posto allo sviluppo o forse sarebbe meglio dire, senza tanti infingimenti, alla crescita.

In ultima analisi per saperne di più e per raccordare le risorse intellettuali e le pratiche che in Italia fanno riferimento alla ‘critica dello sviluppo’ abbiamo deciso di redarre una proposta di manifesto con cui rendere visibili e raccogliere in un’ottica di rete le realtà che si muovono sul tema della “critica dello sviluppo”, a partire da una proposta concreta, sul terreno specifico della formazione alle alternative alla “crescita senza fine” (sul terreno economico, sociale, culturale, ecc.).

Il progetto si propone di collegarsi in primo luogo a quanto già esiste, per verificare insieme livelli più ampi di confronto e di pratiche condivise.

*Il manifesto della scuola*

Il progetto di una “Libera Scuola delle Alternative” nasce dalla constatazione che il modello di sviluppo dominante produce anche e sempre più distruzione, degradazione e morte verso il vivente e i viventi.

I tentativi di imbrigliarlo e ‘riportarlo a ragione’ appaiono sostanzialmente falliti: mai come oggi assistiamo al suo devastante trionfo senza regole, favorito dalle organizzazioni economiche e finanziarie internazionali e dalle politiche liberiste dei governi nazionali.

Mai come oggi, però, leggiamo anche i segnali di una sua crisi profonda, di una inadeguatezza strutturale, di un’esposizione palese dei limiti intrinseci alla sua stessa espansione.

La parola ‘decrescita’ nasce da qui: dalla consapevolezza che sia necessario cambiare immaginari, premesse, prospettive di visione e di orientamento, metodologie.

Se le nostre società sono quindi chiamate a cambiamenti così profondi risulta urgente e necessario l’avvio di un intenso processo (auto)formativo che le faciliti in questo impegnativo e complesso percorso di trasformazione.

I processi di apprendimento, a questo livello, infatti, possono essere anche dolorosi, faticosi, frustranti, perché presuppongono una messa in discussione radicale delle nostre abitudini di pensiero e di azione. Per potersi ‘mettere in gioco’ in una ricerca comune così inedita, è importante essere accompagnati in questa ‘sfida’ da sostegni adeguati e da una buona dose di curiosità e creatività.

Ecco perché i metodi di studio e di apprendimento della scuola che proponiamo dovranno tendere, per coerenza, a favorire la presa di coscienza e la partecipazione, il coinvolgimento attivo di ciascuno e di tutti, la co-costruzione di sensi e significati, l’espressività nei suoi vari codici e linguaggi, una forte integrazione tra mente e corpo, teorie e pratiche, discipline e saperi.

Essi dovranno rappresentare un’alta ed evoluta mediazione del conflitto tra efficacia funzionale (mirata a contenuti e compiti) e sensibilità estetica (centrata su relazioni e contesti), mediazione oggi ancora estremizzata a tutto vantaggio dell’efficacia.

Il mercato cerca di impadronirsi di ogni conoscenza, anche ‘altra’; le istituzioni che dovrebbero occuparsi di ricerca sono disabituate a ‘leggere/ascoltare’ il territorio e i processi di apprendimento degli attori che vi intervengono; i movimenti sociali e tutti i soggetti che sviluppano esperienze alternative rischiano di non avere orizzonti comuni di riferimento ‘teorico’: la natura relazionale e cooperativa della produzione del sapere fatica ad emergere.

Proponiamo quindi una scuola in grado di leggere i bisogni dei territori, per favorirne i processi di autosviluppo sostenibile; di decostruire i quadri di riferimento tradizionali per cercare di impedire che il sistema dominante inglobi il significato di ogni pensiero ed azione sociale e ‘solidale’; di puntare sugli apprendimenti cooperativi, reticolari, tra pari per mostrare in concreto come si costruiscono le relazioni collaborative di rete; di basarsi sulla condivisone della conoscenza, considerandola ‘bene comune’, per contrastare i processi di privatizzazione e di criminalizzazione delle conoscenze sociali; di praticare percorsi non solo analitici, ma che sviluppino la capacità dei partecipanti di reinterpretare la propria soggettività.

Una scuola davvero alternativa, quindi, non solo per i temi, ma anche per i suoi metodi.

El Socialismo del Siglo XXI, en Wikipedia

De Wikipedia, la enciclopedia libre

El Socialismo del siglo XXI es un concepto ideado por Heinz Dieterich Steffan, a partir de 1996[1], y muy difundido desde el 30 de enero de 2005, por el Presidente de Venezuela, Hugo Chávez en ese entonces desde el V Foro Social Mundial. En el marco de la revolución bolivariana, Chávez ha señalado que para llegar a este socialismo habrá una etapa de transición que denomina como Democracia Revolucionaria.

Hugo Chávez expresó “Hemos
asumido el compromiso de dirigir la Revolución Bolivariana hacia el
socialismo y contribuir a la senda del socialismo, un socialismo del
siglo XXI que se basa en la solidaridad, en la fraternidad, en el amor,
en la libertad y en la igualdad”
en un discurso a mediados de 2006. Además, este socialismo no está predefinido. Más bien, dijo Chávez “debemos transformar el modo de capital y avanzar hacia un nuevo socialismo que se debe construir cada día”[2].

A su juicio por las condiciones presentes en el actual mundo globalizado, esta transición será bastante prolongada. Dentro de este concepto sería definitivamente el socialismo el camino a seguir, contrario al neoliberalismo.

Dice el gobierno venezolano y sus partidarios que habrá que realizar
una transformación profunda de la estructura social, económica y
política, pero que no se puede pretender acelerar torpemente la
dinámica de los cambios estructurales. También se ha hecho un llamado a
generar la discusión sobre el tema, para abrir cauces a este sistema de
vida propuesto y en proceso de desarrollo en la región.

Estructura Ideológica

Dieterich, en su obra Socialismo del Siglo XXI se funda en la visión de Karl Marx sobre la dinámica social y la Lucha de clases, pero supera la dialéctica que funda el pensamiento marxista, influído por el filósofo Enrique Dussel y su Filosofía de La Liberación (de hecho menciona a Dussel al principio de la obra). Dieterich es partidario de la Democracia participativa y directa, con lo que se aparta de la teoría de la Dictadura del proletariado de Marx, asumiendo posturas que pudieran llegar a asemejarse al socialismo libertario.

Heinz Dieterich critica a Marx por no haber ideado un sistema económico viable para la sociedad comunista y por establecer un modelo estático y absoluto de la sociedad ideal. En cambio, dentro de lo que denomina Socialismo del Siglo XXI no existe una estructura absoluta y final sobre lo que debe ser una sociedad sin clases sociales Lo que separa determinantemente al marxismo del Socialismo del Siglo XXI es que este último no tiene como fin la instauración de un estado por sobre los ciudadanos.

Praxis Teórica

Al contrario del marxismo,
Dieterich no establece un modelo único y absoluto para lograr una
sociedad democráctica, participativa, socialista y sin clases sociales.
Más bien establece un marco metodológico para elaborar lo que denomina El Nuevo Proyecto Histórico (NPH) con la ayuda del Bloque Regional de Poder (BRP) que serían las sociedades o comunidades que apoyen al NPH de una determinada sociedad; que actualmente sería la Revolución bolivariana de Venezuela

Economía de Equivalencias

Dieterich en el Socialismo del Siglo XXI propone un modelo económico que no esté basado en el precio de mercado, fundamento de la Economía de mercado y del Capitalismo, fuente de las asimetrías sociales y de la sobre explotación de recursos naturales, según su punto de vista.

Propone lo que denomina una Economía de valores fundado en el valor del trabajo que implica un producto o servicio y no en las leyes de la oferta y la demanda. Este valor del trabajo
se mediría sencillamente por el tiempo de trabajo que demanda un
determinado producto o servicio; además de los valores agregados a
dicho trabajo, es decir, el tiempo de trabajo que se usó para producir
las herramientas o servicios que se emplean en el trabajo mismo, lo
cual a su vez lleva a un ciclo complejo de tiempos de trabajo sumados
recíprocamente. Para solucionar el problema práctico que implica la
teoría de la Economía de valores, propone usar la llamada Rosa de Peters
La aplicación de este tipo de economía, según el punto de vista de
Dieterich, pondría fin a la explotación del ser humano contra el ser
humano y quitaría poder e influencia a los grandes capitalistas, lo
cual produciría una verdadera democracia económica y social;
donde no se impondrían los intereses de las grandes empresas por sobre
el interés general de la sociedad, algo que sucede en todas las
democracias según Dieterich.

El proyecto de Economía de valores no está profusamente detallado en el Socialismo del Siglo XXI
ni considera el grado de complejidad de determinados trabajos, que
exigen especializaciones científicas, y cuyo tiempo de trabajo no puede
ser valorado de la misma manera que los trabajos no especializados.
Tampoco considera el valor físico de producción energética por sobre el consumo energético de un determinado trabajo (en inglés conocido como EROEI),
algo fundamental para el desarrollo social, tecnológico y humano de una
sociedad. Esto proyecta una economía de equivalencias donde es igual el
trabajo de un carbonero (por ejemplo) al de un científico nuclear o al
de un psiquiatra, lo cual ha originado una de las principales criticas
a este tipo de economías, ya que el incentivo para estudiar ciencias se
pierde y el desarrollo tecnológico y científico de la civilización se
estanca

Constante Reformulación

Heinz Dieterich Steffan, al final de su obra, llama a un debate abierto y constructivo para mejorar el proyecto del Socialismo del Siglo XXI, lo cual indica que dicha ideología sigue reformulándose.

Dieterich actualmente es el asesor principal del presidente venezolano Hugo Chávez[3], lo cual lo convierte en el principal ideólogo de la Revolución bolivariana y en el actor principal de dicha revolución.

Recientemente Dieterich ha expresado que la economía mixta es el medio para llegar al Socialismo del siglo XXI[4] Lo cual indica la versatilidad pragmática de dicho socialismo.

Hugo Chávez Y El Socialismo del Siglo XXI

Actualmente el gobierno de Hugo Chávez es el único que está implementando avanzadamente el Socialismo del Siglo XXI, también mandatarios como Rafael Correa de Ecuador y Evo Morales de Bolivia han manifestado que seguirán el rumbo de este tipo de socialismo.

La idea del socialismo del Siglo XXI ha ido tomando caracteres
tradicionalmente socialistas en los últimos años, especialmente en 2005 y 2006.
Chávez ha llegado a decir que previamente “llegaba a pensar (…) en un
capitalismo con rostro humano, o el capitalismo social, una tercera vía
entre socialismo y capitalismo. El paso de los años me convenció que
eso era imposible: un capitalismo humano es una contradicción en sí
mismo”.[5]

A comienzos de 2007, el presidente venezolano mostraba sus
referencias teóricas, frente a la cúspide eclesiástica de su país
expresó «Les recomiendo a los obispos que lean a Marx, a Lenin, que
vayan a buscar la Biblia para que vean el Socialismo en sus líneas, en
el viejo y nuevo testamento, en el sermón de la montaña.»[6]. En el mismo acto, Chávez afirmó compartir ideas trotskistas, como la revolución permanente.[7].

Críticas

Existen algunos críticos al Socialismo del Siglo XXI, generalmente provienen de sectores tanto de la derecha como de la izquierda. Algunos marxistas lo consideran un socialismo falaz[8][9] y la derecha estima que se basa en ideas caducas y perimidas[10].

Desde diversos sectores sociales e ideológicos allegados a la acción
y movimientos populares de base se alega que no es posible hablar
seriamente de un socialismo del siglo XXI si antes no se realiza una
crítica profunda del “socialismo real
que existió el pasado siglo en Rusia y el Este Europeo y así como de
otros modelos estadocéntricos, porque si no se establecen las causas de
su fracaso se pueden repetir los mismos y terminar en un nuevo fracaso
que convierta la situación en algo peor que el problema que se buscaba
solucionar[cita requerida].

Referencias

  1. Entrevista a Heinz Dieterich
  2. Los errores del estalinismo burocrático frente al Socialismo del Siglo XXI y “Socialismo Siglo XXI”.
  3. El intelectual alemán que asesora a Hugo Chávez
  4. “Si
    la propiedad del Estado fuese socialismo, ya con (el rey) Carlos V
    tendríamos socialismo en América Latina, porque cuando llega la Corona
    Española a América, toda la propiedad de la tierra, el subsuelo y lo
    que está arriba es patrimonio del rey, pero eso era feudalismo, no
    socialismo. La única vía posible es una economía mixta, que tendría
    tres sujetos, el Estado, la empresa privada y la propiedad social, como
    cooperativa”
    más en Heinz Dieterich: “Economía mixta es la vía al socialismo del siglo XXI”
  5. http://www.emancipacion.org/modules.php?name=News&file=article&sid=791 Socialismo a la venezolana, adiós a la tercera vía.
  6. Chávez instó a funcionarios de la Iglesia Católica venezolana a ocupar su lugar
  7. Transcripción del discurso presidencial del 8 de enero de 2007
  8. ¡Proletarios
    del mundo, uníos y alerta contra los que en nombre del socialismo
    quieren encausarlos tras los bloques latinoamericanos de poder, los
    genios del surplus mundial, los generales descífrotas, la revolución
    por etapas y subfases de coexistencia estratégica y los saltos
    cuánticos!
    (con generales descífrotas hace referencia a Hugo Chávez) más en Algunas consideraciones acerca de “El socialismo del siglo XXI” de Heinz Dieterich Steffan
  9. Los
    especuladores y acaparadores, los grandes capitales, la burguesía
    apéndice del imperio y parasitaria de los Estados nacionales han
    encontrado en el renegado Heinz Dieterich un gran aliado.
    Recientemente, 19/02/07 (días de carnaval), en una entrevista realizada
    por un periódico de circulación nacional, Ultimas Noticia, Dieterich
    disfraza su retorica con harapos difíciles, por el pueblo, de
    identificar. En ella, dice lo siguiente: “Estatizar la propiedad
    privada no lleva al socialismo”…”Si la propiedad del Estado fuese
    socialismo, ya con (el rey) Carlos V tendríamos socialismo en América
    Latina, porque cuando llega la Corona Española a América, toda la
    propiedad de la tierra, el subsuelo y lo que está arriba es patrimonio
    del rey, pero eso era feudalismo, no socialismo. La única vía posible
    es una economía mixta, que tendría tres sujetos, el Estado, la empresa
    privada y la propiedad social, como cooperativa”
    más en Dieterich, un Zar de la manipulación
  10. En
    síntesis: tiene escaso sentido tomarse demasiado en serio el Socialismo
    del siglo XXI en un plano teórico, aunque sí cabe medir con tino su
    función política. No aporta nada nuevo en el nivel de la teoría, y en
    tanto se entiende lo que sus promotores plantean, es claro que nos
    hallamos frente a un retroceso intelectual a los postulados de aquellos
    a quienes Marx llamaba “socialistas utópicos”, es decir, al retroceso
    hacia una concepción arcaica de sociedad, con intercambios económicos
    primitivos. No obstante, como ya sugerí, el Socialismo del siglo XXI
    renueva un mito que se niega a morir.
    más en Socialismo: fracaso y mito

Enlaces externos

La razionalità del capitalismo

LA RAZIONALITÀ DEL CAPITALISMO (1)

di Cornelius Castoriadis

Potrà sembrare strano discutere ancora della “razionalità economica” del capitalismo contemporaneo in un’epoca in cui la disoccupazione ufficiale affligge in Francia tre milioni e mezzo di persone, oltre il 10% della popolazione attiva nei paesi CEE e i governi europei rispondono a questa situazione rafforzando le misure deflazioniste, come la riduzione del deficit di bilancio. La cosa diventa però meno strana, o piuttosto la bizzarria si sposta, allorché si consideri l’incredibile regressione ideologica che colpisce le società occidentali da quasi vent’anni. Cose che si consideravano a buon diritto come acquisite, ad esempio la critica distruttrice dell’economia politica accademica da parte della scuola di Cambridge tra il 1930 e il 1965 (Sraffa, Robinson, Kahn, Keynes, Kalecki, Shackle, Kaldor, Pasinetti, ecc.), sono non dico discusse o respinte, ma semplicemente passate sotto silenzio o dimenticate, mentre invenzioni naïves e inverosimili, come l’“economia dell’offerta” o il “monetarismo”, occupano un posto di primo piano. Contemporaneamente, i cantori del neoliberalismo presentano le loro aberrazioni come evidenze del buon senso, l’assoluta libertà dei movimenti del capitale rovina interi settori produttivi di quasi tutti i paesi e l’economia mondiale va trasformandosi in un casinò planetario. Questa regressione non è confinata all’ambito dell’economia. Essa è dominante anche nel campo della teoria politica (carattere divenuto indiscusso e indiscutibile della “democrazia rappresentativa” nel momento stesso in cui questa è sempre più svalutata in tutti i paesi dove ha un qualche passato), e più in generale nelle discipline umanistiche, come testimonia, per citare un esempio, l’offensiva scientista e positivista contro la psicoanalisi in atto negli Stati Uniti da quindici anni.

Il retroterra sociale e storico di questa regressione è visibile a occhio nudo. Essa si accompagna a una reazione sociale e politica in corso dalla fine degli anni Settanta, di cui i “socialisti” sono stati in Francia i principali artefici, e della quale nulla al momento lascia presagire la fine, fuorché, in un futuro incerto e lontano, il carattere autodistruttivo di questo nuovo corso del capitalismo. Ma nemmeno questa prospettiva è consolatoria, perché qui non è in gioco soltanto il suicidio del capitalismo, come dimostra la distruzione dell’ambiente su scala planetaria.

L’analisi critica dell’attuale momento storico si fa dunque ancora più pressante. Ma non sarà l’oggetto principale di questo testo. Il capitalismo è il primo regime sociale a produrre un’ideologia che ne decreti la “razionalità”. La legittimazione degli altri tipi d’istituzione della società era mitica, religiosa o tradizionale. In questo caso, invece, si pretende che esista una legittimità “razionale”, istituita dal capitalismo stesso (senza quindi la consacrazione dell’esperienza o della tradizione, senza il benestare degli eroi o degli dei, ecc.). E tutto si svolge come se il carattere recente di tale istituzione, anziché relativizzarla, l’avesse resa indiscutibile. Per poco che vi si rifletta, non si può evitare la domanda: che cos’è dunque la razionalità, e quale razionalità intendiamo? Il capitalismo potrebbe valersi di un certo hegelismo: la ragione è l’operazione conforme a uno scopo, diceva il vecchio maestro di Marx. Criterio della razionalità sarebbe allora la conformità di un’operazione al suo scopo. Ma per questa via diventa impossibile chiedersi: che ne è della razionalità dello scopo in questione? Questa razionalità circoscritta ai mezzi, che Max Weber chiamava curiosamente Zweckrationalität, vale a dire razionalità strumentale, non ha evidentemente alcun valore in sé. La scelta del miglior veleno per uccidere il proprio sposo, o la scelta della bomba H più efficace per sterminare milioni di persone, proprio in virtù della loro “razionalità” aumentano l’orrore che proviamo; orrore che non è motivato soltanto dallo scopo perseguito ma dai mezzi che hanno permesso di raggiungerlo con la massima efficacia. Eppure l’ideologia capitalistica, nei suoi momenti più filantropici, ha la pretesa di affermare uno scopo della “razionalità”: il “benessere”.  La sua specificità è data dal fatto che essa identifica questo benessere con un massimo (o con un ottimo) di tipo economico, o meglio presume che esso certamente deriverà dalla realizzazione di questo massimo (o ottimo). Così, direttamente o indirettamente, la razionalità è ridotta a razionalità “economica”, e questa è definita in termini puramente quantitativi come massimizzazione/minimizzazione (massimizzazione di un “prodotto” e minimizzazione dei “co-sti”). È evidentemente lo stesso regime a decidere sia che cos’è un prodotto – e come questo prodotto sarà valutato – sia quali e quanti saranno i “costi”(2).

Teniamo presente che per ogni cultura la relatività del criterio ultimo è nota, almeno a partire da Max Weber, per non risalire fino a Erodoto. Ogni società stabilisce contemporaneamente la propria istituzione e la sua “legittimazione”. Questa legittimazione, termine improprio, occidentale, che rinvia già a una “razionalizzazione”, è quasi sempre implicita. O meglio, essa è “tautologica”: le disposizioni dell’Antico Testamento o del Corano trovano la loro “giustificazione” in ciò che affermano -che “non c’è che un unico Dio, che è Dio” di cui esse rappresentano
la parola e la volontà. In altri casi – le società arcaiche – queste rinvengono la giustificazione nel fatto che sono state
istituite dagli antenati, i quali sono da riverire e onorare come prescrive l’istituzione.

Allo stesso modo è tautologica la “legittimazione” del capitalismo in base alla sua razionalità: chi, all’interno di questa società, salvo forse un poeta o un mistico, oserebbe insorgere contro la sua “razionalità”?

Questo circolarità dell’istituzione non è, beninteso, che un momento della circolarità della creazione. L’istituzione non può esistere se non assicura la propria esistenza, e la forza bruta è generalmente incapace di assolvere questo ruolo al di là di brevi periodi(3). (Aprendo una parentesi, ci si può domandare che cosa ne è di una società autonoma, cioè una società capace di rimettere in discussione, in modo esplicito e lucido, le sue stesse istituzioni. Per un verso, essa non può evidentemente uscire da questo cerchio. E affermerà che l’autonomia sociale e collettiva “vale”. Certo, potrà giustificare a valle la sua esistenza in base alle sue opere, tra cui il tipo antropologico d’individuo autonomo cui essa stessa dà vita. Ma la valutazione positiva di queste opere dipende sempre dai criteri, più generalmente dai significati immaginari sociali, che essa stessa ha istituito. Questo per dire che alla fin fine nessun tipo di società può trovare la propria giustificazione al proprio esterno.

Non si può uscire da questo cerchio, e non è là che si può costituire il fondamento di una critica del capitalismo).
Occorre notare che, nell’ultimo periodo, gli ideologi asserviti hanno abbandonato la pretesa di giustificare o legittimare il regime;  essi rimandano semplicemente al fallimento del “socialismo reale” – come se quel che fa Landru fornisse una giustificazione a quel che fa Stavisky – e alle cifre della “crescita”, là dove questa continua ad aver luogo. Erano più coraggiosi in altre epoche, allorché scrivevano trattati di Welfare Economics, cioè di Economia del benessere. È anche vero che il pietoso stato in cui versano gli ex-critici professionisti (“marxisti”, o supposti tali) del capitalismo permette loro, in piena sintonia con lo spirito dell’epoca, di mettere da parte ogni pretesa di serietà. In ogni caso, la nostra critica sarà essenzialmente immanente; cercherà di mostrare che, sul piano teorico, le costruzioni dell’economia politica accademica sono incoerenti o prive di senso o valide unicamente per un mondo fittizio; e che, sul piano
empirico, il funzionamento reale dell’economia capitalistica ha pochi rapporti con quel che se ne dice nella “teoria”. In altre parole, si farà la critica del capitalismo secondo i suoi stessi criteri. La discussione sarà divisa in quattro parti:

• la specificità e relatività sociale-storica dell’istituzione capitalistica;
• l’ideologia teorica dell’economia capitalistica;
• la realtà effettiva dell’economia capitalistica;
• i fattori dell’efficacia produttiva della società capitalistica e della sua resilienza o capacità di resistere sul piano sociale e storico.

SPECIFICITÀ E RELATIVITÀ SOCIALE-STORICA DELL’ISTITUZIONE CAPITALISTICA

Per chi osservi dall’alto la storia, il tratto caratteristico del capitalismo rispetto a ogni altra forma di vita sociale-storica è il posto che vi occupa l’economia (la produzione e il consumo, ma ancor più i “criteri” economici): l’economia è al centro ed è valore supremo della vita sociale. A corollario c’è la costituzione del “prodotto” sociale specifico del capitalismo. In poche parole, tutte le attività umane e tutti i loro effetti vengono, poco o tanto, considerati come attività e prodotti economici, o perlomeno come essenzialmente caratterizzati e valutati per la loro dimensione economica. Inutile aggiungere che questa valutazione è fatta esclusivamente in termini monetari. Questo aspetto era apertamente riconosciuto già alla fine del XVIII secolo se non prima. Le giustificazioni dell’indifferenza moderna davanti agli affari comuni e alla politica (4) chiamano in causa la centralità degli interessi economici per l’uomo moderno. Saint-Simon e Auguste Comte saranno i cantori dell’epoca “industriale” o “positivista”. Le pagine di Marx nei Manoscritti del 1844 sulla trasformazione di tutti i valori in valori monetari sono belle ed efficaci; esse non contrastano con l’opinione dell’epoca per il contenuto (si pensi a Balzac), bensì per la virulenza della critica. Ma è significativo che la chiara coscienza della storicità del fenomeno che c’era all’epoca verrà rapidamente occultata dagli apologeti del nuovo regime, reclutati soprattutto tra gli economisti. Questo occultamento prenderà la forma di una glorificazione del capitalismo, presentato come regime economico “razionale”, la cui comparsa segna il trionfo della ragione nella storia e relega i precedenti regimi nell’oscurità dei tempi “gotici” o primitivi. L’emergere storico del capitalismo diventa, nei loro scritti, epifania della ragione e, con ciò, si assicura un avvenire illimitato. Come scriveva Marx, “per loro c’è stata la storia, ma non ce ne sarà più”.

Curiosamente (oppure no se pensiamo ai vantaggi ideologici di questa tesi) il disconoscimento della storicità del capitalismo ha prevalso tra gli economisti, da Ricardo a oggi. Si è glorificata l’economia politica, e il suo oggetto, come investigazione della “pura logica della scelta” o come studio dell’“allocazione di mezzi limitati per la realizzazione di obiettivi limitati” (Robbins). Come se questa scelta potesse essere totalmente indipendente, nei modi e nei contenuti, dalla forma socio-storica nella quale avviene; e come se solo l’economia ne fosse coinvolta (o come se l’economia potesse subordinare a sé tutte le attività umane in cui si compie una scelta: dalla strategia fino alla chirurgia). Questa aberrazione ha avuto successo nel periodo recente, in cui si sono viste proliferare “economie” e pre-tese
di riduzione al calcolo economico pressoché in tutti gli ambiti (dall’educazione fino alla repressione penale). È chiaro
che in questa prospettiva i “ragionamenti” della scienza economica (scrivo ormai questa parola senza virgolette per non essere pesante) si applicano di diritto, e anche di fatto, a tutte le società che sono esistite o che esisteranno.
Sotto altra forma, queste idee sono riemerse negli scritti di F. von Hayek. Secondo Hayek la società capitalistica avrebbe dato prova della sua eccellenza – della sua superiorità – per selezione darwiniana. Essa si sarebbe cioè rivelata la sola capace di sopravvivere nella competizione con le altre forme di società. A parte l’assurdità di applicare lo schema darwiniano alle forme sociali nella storia, e la ripetizione di una menzogna ormai risaputa (“la sopravvivenza dei più adatti è la sopravvivenza dei più adatti a sopravvivere”: il successo del capitalismo mostra semmai che esso è il più forte, nel senso più brutto e più brutale del termine, non che è il migliore o il più “razionale” -l’“antimetafisico” Hayek si rivela qui hegeliano della specie più grossolana), noi sappiamo che le cose non sono andate in questo modo. Quel che si osserva nei secoli XVI, XVII e XVIII non è una competizione tra un numero indefinito di regimi da cui il capitalismo sarebbe uscito vincitore, bensì l’enigmatica sinergia di un insieme di fattori che cospirano tutti verso lo stesso risultato(5). Che poi, successivamente, una società basata su una tecnologia altamente evoluta abbia potuto mostrare la propria superiorità sterminando nazioni e tribù amerinde, aborigene tasmaniane o australiane, e riducendone in schiavitù molte altre, non è un gran mistero. Non è necessario passare qui in rassegna gli esempi e gli studi che documentano come la quasi totalità della storia umana si sia sviluppata in regimi dove l’“efficacia” economica, la massimizzazione del prodotto, ecc., non erano affatto dei riferimenti centrali nelle attività sociali. Non che queste società siano state perciò “irrazionali” a livello dell’organizzazione del loro lavoro o dei loro rapporti di produzione. Ma quasi sempre, dato un livello tecnologico, la vita si dipana con ben altre preoccupazioni che migliorare la “produttività” del lavoro con invenzioni tecniche o ristrutturazioni dei metodi di lavoro e dei rapporti di produzione. Questi settori delle attività sociali erano subordinati e integrati ad altri ritenuti ogni volta come incarnanti le finalità principali della vita umana e, soprattutto, non erano separati come “produzione” o “economia”. Queste separazioni
sono assai tardive e, essenzialmente, sono state istituite insieme al capitalismo, da e per questo. Ci si limiterà a ricordare i lavori di Ruth Benedikt sugli Indiani d’America, di Margaret Mead sulle società del Pacifico, di Gregory Bateson su Bali, ecc., senza dimenticare quelli di Pierre Clastres sui Tupi Guarani e di Jacques Lizier sugli Yanomani. Più recentemente, è stato Marshal Sahlins (Età della pietra, età dell’abbondanza) a fornire la sintesi più soddisfacente di queste questioni. Non si tratta, del resto, di discorsi limitati ai popoli primitivi. L’antropologia economica della Grecia antica conduce a conclusioni analoghe, così come l’analisi delle società medievali (6).

Tutti i lavori sull’emergere del capitalismo in Europa occidentale mostrano con forza la “contingenza” storica di questo processo, quale che ne sia la validità intrinseca. Si pensi a Max Weber, Werner Sombart, Richard Tawney, ecc. Anche per una persona così convinta della “necessità storica” in generale e del capitalismo in particolare come Karl Marx, la nascita del capitalismo è inconcepibile senza quella che egli chiama, a giusto titolo, l’accumulazione primitiva, di cui mostra diffusamente (capitoli XXVI-XXXII del primo volume del Capitale) il condizionamento da parte di fattori che nulla hanno di “economico” e nulla devono al “mercato”, in particolare le esazioni, la frode e la violenza privata e statale(7). Un lavoro analogo è stato fatto, in tempi più recenti e in modo magistrale, da Karl Polanyi, ne La Grande Trasformazione.

Prima di proseguire, si pone l’esigenza di caratterizzare in maniera soddisfacente il regime capitalista. Si sa almeno da Marx che il tratto specifico del capitalismo non è il semplice accumulo di ricchezze. La tesaurizzazione è praticata in molte società storiche e altrettanto noti sono i tentativi di proprietari latifondisti di far rendere la terra su grande scala avvalendosi di lavoro servile (per citare un caso a noi vicino, la Roma imperiale). Ma la semplice massimizzazione (della ricchezza, della produzione) non basta, da sola, a caratterizzare il capitalismo. Marx aveva afferrato il cuore della faccenda, allorché poneva come determinanti del capitalismo l’accumulazione delle forze produttive combinata con la trasformazione sistematica dei processi produttivi e lavorativi e quel che lui ha chiamato “l’applicazione ragionata
della scienza nel processo di produzione”(8). L’elemento decisivo non è l’accumulazione in quanto tale, bensì la trasformazione continua del processo di produzione in vista della crescita del prodotto combinata a una riduzione dei costi. Al riguardo Max Weber parlerà di “razionalizzazione”, che a suo dire – correttamente – sotto il capitalismo tende a impadronirsi di tutte le sfere della vita sociale, in particolare come estensione del dominio della calcolabilità. Alle analisi di Marx e di Weber, Georg Lukàcs ne aggiungerà altre importanti sulla reificazione della vita sociale prodotta dal capitalismo.

Perché la “razionalizzazione”? Come ogni creazione storica, il prevalere di questa tendenza alla “razionalizzazione” è, fondamentalmente, “arbitrario”; non possiamo dedurlo né produrlo da altro. Tuttavia possiamo caratterizzarla meglio collegandola a qualcosa di più conosciuto, familiare, che in altri tipi di organizzazione sociale si è espresso in altre forme: la tendenza al dominio. Questo ci permette in particolare di operare un collegamento con uno degli aspetti più profondi della psiche individuale: l’aspirazione all’onnipotenza. Nemmeno questa tendenza, questa spinta al dominio è però specifica soltanto del capitalismo; anche le organizzazioni sociali orientate alla conquista, per esempio, la manifestano. Noi possiamo avvicinare la specificità del capitalismo considerando semmai due sue caratteristiche
essenziali.

La prima, è che questa spinta al dominio non è orientata semplicemente alla conquista “esteriore”, ma ha di mira la società tutta. Non deve realizzarsi solo nella produzione ma anche nel consumo, e non soltanto nell’economia ma nell’educazione, nel diritto, nella vita politica, ecc. Sarebbe un errore – l’errore marxista – ritenere queste estensioni come “secondarie” o strumentali rispetto al dominio della produzione e dell’economia che sarebbe invece l’essenziale. È lo stesso significato immaginario sociale che via via si impadronisce delle sfere sociali.

Che “cominci” con la produzione certo non è un caso: è nella produzione che i cambiamenti della tecnica permettono dapprima una razionalizzazione dominatrice. Ma la produzione non ne ha il monopolio. Dal 1597 al 1607 Maurice de Nassau, principe d’Orange e Statholder di Olanda e di Zelanda, fissa, con l’aiuto dei suoi fratelli Guillaume-Louis e Jean, le regole canoniche per l’uso del moschetto: esse comprendono circa 40 movimenti precisi che il moschettiere deve effettuare in sequenza e secondo un ritmo fisso e uniforme per tutta la compagnia.

Queste regole saranno codificate da Jacob de Ghyn in un Manuale sull’impiego delle armi, pubblicato ad Amsterdam
nel 1607, che avrà subito grande diffusione in Europa e sarà tradotto su ordine dello zar in una Russia praticamente analfa-beta (9).

La seconda è evidentemente che la spinta al dominio si dota di mezzi nuovi, di un carattere speciale (“razionale”, ossia “economico”) per compiersi. I mezzi non sono più né la magia né la vittoria nelle battaglie, ma precisamente la razionalizzazione, che prende qui un contenuto particolare, del tutto specifico: quello della massimizzazione/minimizzazione, cioè dell’estremizzazione, se si può coniare questo termine a partire dalla
matematica (massimo e minimo sono due casi dell’estremo). È considerando questo insieme di fatti che possiamo caratterizzare il nucleo del significato immaginario sociale del capitalismo come la spinta all’estensione illimitata del “dominio razionale”. Spiegherò in seguito il perché delle virgolette.

Questa estensione illimitata del dominio razionale va di pari passo con – ed è incarnata in – molti altri movimenti sociali-storici. Non intendo parlare delle conseguenze del capitalismo (per esempio, l’urbanizzazione e i cambiamenti dei caratteri delle città), ma dei fattori la cui presenza è stata condizione essenziale del suo emergere e del suo sviluppo:

• l’accelerazione straordinaria del progresso tecnico, fenomeno storicamente nuovo (questa constatazione è banale, ma va sottolineata). Questa accelerazione è prodotta dal fiorire scientifico che inizia già prima del “Rinascimento”, ma che si accentua enormemente con questo. E si trasforma nel periodo recente in un movimento autonomo di tecnoscienza. Bisogna sottolineare un tratto particolare di questo sviluppo della tecnica: essa è, perlopiù, orientata verso la riduzione, quindi l’eliminazione, del ruolo dell’uomo nella produzione. Questo è comprensibile, dal momento che l’uomo è l’elemento più difficile da controllare; ma al contempo questo porta a irrazionalità di altro tipo (per esempio, le défaillance dei sistemi tecnici possono avere conseguenze catastrofiche);

• la nascita e il consolidarsi dello Stato moderno. Lo sviluppo del capitalismo in Europa occidentale va di paro passo con la creazione dello Stato Assoluto, che lo nutre e lo facilita sotto più aspetti. Nello stesso tempo, questo Stato centralizzato si burocratizza, vale a dire un’“ordinata” gerarchia burocratica si sostituisce al caotico intrico feudale. Questa burocratizzazione dello Stato e dell’esercito fornirà un modello organizzativo alla nascente impresa capitalista;

• nei casi più importanti (Inghilterra, Francia, Paesi Bassi…), la creazione dello Stato moderno è parallela alla formazione delle nazioni moderne. Si costituisce così una sfera nazionale che, tanto dal punto di vista economico (mercati protetti nazionali e coloniali, ordinazioni statali) che giuridico (unificazione delle regole e delle giurisdizioni), è essenziale per la prima fase dello sviluppo capitalistico;

• una significativa mutazione antropologica ha luogo. Il motivo economico, bene o male, tende a scalzare tutti gli altri. L’essere umano diventa homo oeconomicus, cioè homo computans. Il tempo è riassorbito nel tempo misurabile, imposto a tutti. Il tipo dell’imprenditore schumpeteriano, poi dello speculatore, diventa centrale. Le differenti professioni sono chi più chi meno imbevute della mentalità del calcolo e del guadagno.
Nello stesso tempo, nasce e si sviluppa una psicosociologia operaia, caratterizzata dalla solidarietà, dall’opposizione all’ordine esistente e dalla sua contestazione, che per quasi due secoli si opporrà alla mentalità dominante e condizionerà il conflitto sociale;

• ma soprattutto il capitalismo nasce e si sviluppa in una società in cui è presente fin dall’inizio il conflitto e, più specificamente, la messa in discussione dell’ordine stabilito. Manifestatasi all’inizio come movimento della protoborghesia che mirava all’indipendenza dei comuni, questa messa in discussione traduce finalmente, nel contesto dell’Europa occidentale, la ripresa dell’antico movimento verso l’autonomia e si dispiegherà sotto le vesti del movimento democratico e operaio. L’evoluzione del capitalismo dopo uno stadio iniziale è incomprensibile
senza questa contestazione interna, che è stata di importanza decisiva come condizione stessa del suo sviluppo,
come verrà ricordato oltre.

L’ IDEOLOGIA TEORICA DELL’ECONOMIA CAPITALISTA

Quella che passa attualmente sotto il nome di “scienza economica” è stata l’oggetto di così tante critiche distruttive, e intrattiene così pochi rapporti con la realtà, che occuparsene ancora può sembrare anacronistico e inutile quanto frustare cavalli morti. Ma la regressione ideologica dell’epoca, come ho già detto, è talmente grande e soprattutto i cocci di queste “teorie” sopravvivono ancora in troppi spiriti confusi, non soltanto nei giornalisti, che diventa necessario dedicarsi a un’opera sommaria di ricapitolazione. C’è stata un’economia politica classica che termina di fatto
con Marx. Ma come questi già segnalava, ciò che sotto i suoi predecessori classici era stato sforzo di analisi seria della nuova realtà sociale emergente era rapidamente diventato, tra le mani degli epigoni di Smith e di Ricardo, esercizio di difesa e glorificazione del nuovo regime. Dopo una fase di apologetica volgare, l’economia politica indossa abiti matematici, cosa che le permette di avanzare pretese di “scientificità”. Ma il carattere ideologico della nuova scienza è smascherato dal suo sforzo insistito di presentare il regime come al contempo inevitabile
e ottimale. Sarebbe facile far presente che una o l’altra di queste virtù basterebbe; ma che l’inevitabile sia anche ottimale non può che far rizzare le orecchie. Qui si tenterà soltanto di mettere in luce alcuni postulati fondamentali di quest’ideologia, e di mostrarne sia la vacuità che l’irrealtà. L’idea che sovrasta tutte le altre è l’idea di separabilità, che
conduce a quella di imputazione separata. Ora in realtà il sottospazio economico, come ogni sottospazio sociale, non è né discreto né continuo (va da sé che questi termini sono utilizzati in senso metaforico). Nelle loro attività economiche, un individuo o un’azienda sono certo identificabili come entità a parte, ma la loro attività da ogni punto di vista è costantemente intrecciata con quella di un numero indefinito di altri individui o aziende in una molteplicità di modi non propriamente separabili. Un’azienda decide in funzione di un “clima generale” nella pubblica opinione, e le sue decisioni modificheranno questo clima generale. Le sue azioni, senza che lo voglia o lo sappia, renderanno la vita e l’attività di altre aziende più facile (economie esterne) o  più difficile (diseconomie esterne) e in cambio subirà, positivamente o negativamente, gli effetti delle azioni di altre aziende e di altri fattori della vita sociale. L’imputazione di
un risultato economico a un’azienda è puramente convenzionale e arbitraria, segue delle frontiere tracciate dalla legge
(proprietà privata), la convenzione o l’abitudine. Ugualmente arbitraria è l’imputazione del risultato produttivo a tale o tal altro fattore di produzione, il “capitale” o il “lavoro”. Capitale (nel senso dei mezzi di produzione prodotti) e lavoro contribuiscono al risultato produttivo senza che sia possibile, eccetto forse nei casi più triviali, separare il contributo di ciascuno. La stessa cosa vale all’interno di una fabbrica tra i diversi reparti. E vale anche per il “risultato del lavoro” di ogni individuo. Nessuno potrebbe fare quel che fa senza la sinergia della società in cui è immerso, e senza l’accumulo nei suoi gesti e nel suo animo degli effetti della storia precedente. Questi effetti sono, tacitamente, trattati dall’economia politica classica come “regali gratuiti della storia”, ma essi hanno risultati fortemente tangibili, che possiamo constatare, per esempio, se compariamo la produttività industriale di una popolazione europea con
quella delle popolazioni dei paesi precapitalisti (10). Il prodotto sociale è il prodotto della cooperazione di una collettività le cui frontiere sono sfumate. L’idea di prodotto individuale è un’eredità della convenzione/istituzione giuridica della prima instaurazione della “proprietà privata” sul terreno. Queste idee, separabilità in generale e possibilità d’imputazione separata in particolare, sono i taciti presupposti dei postulati della teoria economica. Il primo di questi postulati, esplicito o implicito, è quello dell’homo oeconomicus, che non riguarda solo gli individui, ma le organizzazioni (imprese, Stato – benché questo, curiosamente, sembri sfuggire al postulato di razionalità che caratterizzerebbe tutti gli altri attori della vita economica, indubbiamente perché è perturbato da fattori politici). Il fatto che questi corpi collettivi sviluppino delle condotte, delle “razionalità” e soprattutto delle irrazionalità specifiche non preoccupa più di tanto i teorici. Quest’uomo economico è un uomo esclusivamente e perfettamente calcolatore. Il suo comportamento è quello di un computer che massimizza o minimizza in ogni istante i risultati delle sue azioni. Si potrebbe facilmente far sorridere il lettore sviluppando rigorosamente le conseguenze di questa finzione: lui non lo sa, ma ogni mattina, dopo il risveglio ma prima di scendere dal letto, passa in rassegna i miliardi di possibilità che gli si offrono per massimizzare il piacere o minimizzare il dispiacere della giornata che comincia, ne soppesa le combinazioni, quindi poggia il piede per terra, sempre pronto peraltro a rivedere le conclusioni del suo calcolo alla luce di ogni nuova informazione che dovesse ricevere… Come nel loro giudizio del sistema capitalista i suoi apologeti sembrano ignorare la storia, l’etnologia e la sociologia, analogamente questo postulato ignora deliberatamente la psicologia e la psicoanalisi così come la sociologia dei gruppi e delle organizzazioni. Nessuno funziona cercando costantemente di massimizzare/minimizzare le sue “utilità” e “disutilità”, i suoi benefici e i suoi costi, e nessuno potrebbe farlo. Nessun consumatore è al corrente della totalità delle merci che sono sul mercato, delle loro qualità e dei loro difetti, e nessuno potrebbe esserlo. Così come nessuno è guidato esclusivamente da considerazioni di utilità o di “ofelimità” personale; deve scegliere nell’ambiente che gli è accessibile, è influenzato dalla pubblicità, i suoi “gusti” riflettono una serie d’influenze sociali più o meno aleatorie dal punto di vista “economico”. Questo vale anche per le decisioni delle organizzazioni. La burocrazia manageriale che dirige le aziende non solo ha un’informazione imperfetta e criteri il più delle volte falsi, ma prende le sue decisioni non come esito di una procedura “razionale”, bensì al termine di una lotta tra schieramenti mossi da motivazioni di cui la massimizzazione dei profitti aziendali è una e non sempre la più importante. Il postulato della matematizzazione è evidentemente consustanziale alla “razionalizzazione” concepita in termini esclusivamente quantitativi. I manuali e i testi di economia politica sono zeppi di equazioni e grafici, che quasi mai hanno senso, se non come esercizi elementari di calcolo differenziale e di algebra lineare. Tale mancanza di senso ha molteplici ragioni.

• Questa matematizzazione è essenzialmente quantitativa (algebrico-differenziale). Ora l’economia reale presenta il paradosso di essere piena di quantità, che non sono però suscettibili di trattamento matematico se non elementare. Ci sono certo le quantità fisiche, ma queste quantità, si sa, sono eterogenee. Non si possono addizionare né sottrarre, tranne quando si tratta rigorosamente dello stesso oggetto. (Non sto parlando dei calcoli dell’ingegnere). Eppure esse sono addizionate lo stesso sul mercato, o nelle tabelle di contabilità nazionale, con il loro prezzo. Ma le grandezze così stabilite hanno significato soltanto all’interno di un quadro molto stretto. Per esempio, non sono comparabili né nel tempo né tra Paesi. Solo le valutazioni secondo i prezzi correnti si possono sommare, ma queste forniscono al più un’immagine “istantanea” e di significato limitato. A esser rigorosi, non è granché sensato comparare, ad esempio, il prodotto nazionale su periodi temporali successivi (anche vicini), perché la sua composizione nel frattempo è
cambiata e i metodi inventati per aggirare il famoso problema dei numeri indici sono artifici poco rigorosi. Questo non contraddice la verità di frasi come “la produzione quest’anno è diminuita rispetto all’anno scorso”, o “i consumi delle fasce operaie sono notevolmente aumentati nell’ultimo secolo”, ma rende i calcoli e le previsioni al terzo o quarto decimale, abitualmente praticati nella contabilità nazionale, assolutamente ridicoli.

• L’economia politica parla continuamente del “capitale” come fattore di produzione, intendendo l’insieme dei mezzi di
produzione prodotti. Ora questo insieme non è, per la verità, misurabile, per molteplici ragioni: la sua composizione è eterogenea, le valutazioni dei beni che lo compongono ai prezzi del mercato possono cambiare dall’oggi al domani secondo lo stato della domanda e le previsioni di profitto, le invenzioni tecniche modificano costantemente il “valore” degli elementi che lo compongono (delle macchine nuove possono perdere tutto il loro valore se sul mercato entrano macchine più performanti); i cambiamenti dei “gusti”, vale a dire modificazioni più o meno durature della struttura della domanda, modificano anch’esse il “valore” di questi elementi. Tuttavia questo non impedisce ai manuali di economia politica, e nemmeno ai Premi Nobel, di parlare continuamente di “funzioni di produzione” e di litigare tra loro sulla forma matematica più appropriata.

• D’altra parte, il calcolo differenziale ha a che fare con grandezze continue, mentre le quantità economiche sono discrete (sia che le si prenda “fisicamente” sia che si considerino le loro valutazioni in prezzi correnti). Le derivate e i differenziali di cui sono pieni i testi d’economia sono una presa in giro della matematica. Tutte le curve “marginali” – dei costi, di “utilità”, ecc. – sono fondamentalmente prive di senso. È vero che la stessa domanda appare in fisica quantica, dove si utilizza il calcolo differenziale mentre i fenomeni hanno probabilmente una struttura soggiacente discreta. Ma la realtà osservabile è comunque abbastanza “pseudo-continua” da giustificare questo trattamento, cosa del resto mostrata dall’efficacia scientifica dei metodi della fisica. (La stessa cosa vale per le equazioni della termodinamica statistica). È possibile “interpolare” i punti di una curva supposta a partire da valori osservabili estrema-mente
vicini, e si può quindi calcolare una quasi-derivata. Ma un grafo di cui si possono determinare solo pochi punti esclude
il trattamento da parte dell’analisi matematica. Questo è vero in tutti gli ambiti dell’economia, ma particolarmente trattandosi di capitale e di produzione. Per fare un esempio sorprendente, ma nient’affatto eccezionale, una compagnia aerea che voglia aumentare la sua capacità di trasporto può farlo solo acquistando unità che valgono decine di milioni di dollari l’una.

• Tutto ciò non fa che ribadire che la nozione di funzione in economia è priva di validità. Una funzione è una legge che
collega in maniera assolutamente rigida uno o più valori della variabile indipendente a uno e un solo valore della variabile dipendente. Ma anche a supporre che queste variabili siano misurabili, simili relazioni rigide semplicemente non esistono in economia. Ci sono certo un gran numero di regolarità approssimative, senza le quali la vita reale dell’economia sarebbe impossibile. Ma la valutazione corretta di queste regolarità, e il loro utilizzo adeguato da parte degli attori dell’economia, rientrano nella sfera dell’arte, non in quella “scientifica”. Si può essere certi, tutto sommato, che se la domanda di una merce aumenta a fronte di un’offerta più o meno stabile, il prezzo della merce aumenterà. Ma è assurdo voler dire matematicamente di quanto. Ugualmente, un aumento della domanda comporterà, in generale, un aumento della produzione. Ma la ripartizione del potere d’acquisto della domanda addizionale tra aumento
del prezzo e aumento dell’offerta (della produzione) dipende da una congerie di fattori che non sono misurabili e a
dire il vero non sono sempre identificabili: per esempio, il grado di oligopolio nel settore in questione, le stime delle aziende sul carattere passeggero o duraturo dell’aumento della domanda, ecc. Nemmeno le possibilità di aumento dell’offerta (della produzione) in un caso simile sono determinabili a priori. La capacità di produzione a capitale fisso è determinata con rigore solo in alcuni settori eccezionali (altiforni, ecc.). Per la maggior parte delle industrie manifatturiere, questa capacità può variare da una fino a quasi tre volte tanto, a seconda che sia o non sia possibile passare dal lavoro a una squadra al lavoro a due o tre squadre. Il grado di utilizzo del capitale fisso è indefinito, e, a un gradino inferiore, la stessa cosa vale per l’intensità dell’utilizzo della forza lavoro. Più generalmente, parlare
di “leggi” in economia è un mostruoso abuso di linguaggio, fatta eccezione, ancora una volta, per pochi casi triviali neppure degni di un trattamento quantitativo rigoroso. Anche nel corto periodo, in un’economia “statica”, lo stato e l’evoluzione del sistema dipendono essenzialmente dalle azioni e reazioni degli individui, dei gruppi e delle classi, che non sono sottoposte a determinismi fissi. Ancor più questo vale per l’evoluzione a medio e lungo termine. Questa è determinata per un verso dal ritmo e dal contenuto dei cambiamenti tecnologici, che sono per essenza imprevedibili. Se fossero prevedibili, sarebbero stati istantaneamente realizzati, come faceva notare già Joan Robinson nel 1951(11). Essa è d’altra parte determinata dall’atteggiamento delle aziende – atteggiamento motivato, oltre
che da altri fattori “irrazionali”, dalle loro previsioni, che nulla garantisce saranno corrette. Essa è infine determinata dal comportamento della classe lavoratrice, altrettanto poco prevedibile (la loro tendenza ad avanzare rivendicazioni, per esempio, e la possibilità di farlo con successo, è soggetta a fattori psicologici, politici, ecc.).

• Infine, il nucleo dei ragionamenti dell’economia accademica riguarda lo studio delle situazioni di “equilibrio” e delle loro condizioni di realizzazione. L’ossessione dell’equilibrio ha due radici, entrambe ideologiche. Le situazioni di equilibrio sono scelte perché sono le sole a permettere soluzioni determinate e univoche: i sistemi di equazioni simultanee forniscono una maschera di scientificità rigorosa. D’altra parte, gli equilibri sono quasi sempre presentati come equivalenti a situazioni di “ottimizzazione” (mercati “puliti”, fattori pienamente impiegati, consumatori che realizzano la loro soddisfazione massimale, ecc.). Il risultato è stato che, fino agli anni ’30, i persistenti disequilibri
o gli “equilibri” catastrofici o non ottimizzanti (gli “equilibri” dei mercati monopolistici o oligopolistici, implicanti
uno sfruttamento addizionale dei consumatori, o gli “equilibri” di sottoccupazione) sono stati perlopiù nascosti o relegati in note a piè di pagina. Si era arrivati persino a compiere la prodezza (Pigou) di presentare situazioni di disoccupazione massiccia come situazioni di equilibrio più o meno soddisfacenti, spiegando che gli operai disoccupati si erano in realtà “ritirati dal mercato” perché avevano preferito cercare un altro impiego piuttosto che accettare una drastica riduzione dei salari. (Questo genere di asinate circola ancor oggi, quando si presume che la disoccupazione in Europa sarebbe riassorbita se solo l’“offerta del lavoro” divenisse più “flessibile”, cioè se gli operai accettassero
tagli salariali e altri simili vantaggi…). Ora la situazione permanente dell’economia capitalista è una successione di disequilibri cangianti, il che ha come risultato di rendere le previsioni aleatorie e la struttura presente tanto del “capitale” che della domanda piena di “fossili” (Joan Robinson).

LA REALTÀ EFFETTIVA DELL’ECONOMIA CAPITALISTA

“La questione è”, disse Alice, “se voi potete dare alle parole significati così diversi”. “La questione è”, rispose Humpty Dumpty, “chi ha da essere il padrone, ecco tutto”.(12)

Per molto tempo, la nuova “scienza economica” si è preoccupata unicamente dei fattori che determinano i prezzi delle merci particolari in condizioni di “equilibrio” statico. Gli economisti credevano o facevano finta di credere che gli stessi fattori che determinano il prezzo di una merce “ideale” in condizioni “ideali” (concorrenza perfetta, ecc.) determinerebbero quasi tutti i prezzi (compresi il “prezzo del lavoro” e il “prezzo del capitale”), i quali a loro volta determinerebbero tutto ciò che accade d’importante nell’economia: il suo equilibrio globale, la ripartizione del reddito nazionale, l’allocazione delle risorse prodotte tra diverse categorie di utenti e di uso, e – ma questa questione restava avvolta in una nube di vapore – l’evoluzione a lungo termine. Tutto ciò doveva, tranne poche correzioni, de-rivare
dalle curve dei costi e delle utilità marginali, di cui si poteva “dimostrare” con poca spesa che si incrociavano sempre in punti ottimali di “equilibrio”. Che la caratteristica fondamentale del capitalismo sia lo sconvolgimento brusco e violento dell’economia e della società, dunque la riproduzione incessante delle discontinuità, non sembrava far loro perdere il sonno. Questo ritornello continua a essere mormorato sotto voce dagli economisti accademici d’oggi, ma nessuno sembra più prenderlo sul serio. Senz’altro questo è dovuto al fatto che la finzione della concorrenza perfetta, pura e perfetta o perfettamente perfetta è andata in fumo – tornerò su questo – e che è impossibile, anche sulla carta, passare dalla realtà di mercati oligopolistici a “equilibri” generali capaci di ottimizzare qualcos’altro che non siano i profitti degli oligopoli o, più precisamente, dei gruppuscoli che ne sono a capo. Non solo, la mondializzazione
effettiva della produzione capitalista – con le differenze colossali di condizioni di produzione che esibisce tra paesi di antica in-dustrializzazione e paesi “emergenti” – rende semplicemente ridicolo ogni postulato d’omogeneità anche approssimativa dei mercati dei “fattori di produzione” su scala planetaria.

Per la fase “classica” del capitalismo, cioè fino al 1975 circa, tre gruppi di problemi si ponevano ad ogni analisi economica che volesse mantenersi pertinente alla realtà e a quegli aspetti dell’economia importanti per lo stato e l’evoluzione della società. Il primo, definito con chiarezza da Ricardo e ripreso da Marx, è quello della ripartizione del prodotto sociale (“reddito nazionale”). Esso influenza fortemente l’allocazione delle risorse tra categorie (“settori”) della produzione. Il secondo è quello del rapporto tra risorse produttive disponibili (“capitale” e lavoro) e la domanda sociale effettiva, rapporto da cui dipende il pieno impiego o il sottoimpiego di queste risorse. È strettamente legato al terzo: quello dell’evoluzione dell’economia, cioè della crescita effettiva o desiderabile della produzione. I tre gruppi sono in comunicazione stretta, poiché per esempio la ripartizione del reddito è il principale fattore che regola la ripartizione delle risorse, la quale a sua volta svolge un ruolo essenziale nella quantità come nel contenuto dell’investimento, e da lì sulle evoluzioni future dell’economia.  Se si trascurano i dettagli, le qualificazioni e i casi particolari, e se in prima istanza si fa astrazione dal commercio estero (per esempio, ipotizzando un’economia mondiale pressoché omogenea), la risposta a queste domande è sorprendentemente semplice. La ripartizione dei redditi tra classi sociali e, all’interno di ciascuna classe, tra gruppi sociali evolve in funzione essenzialmente
del rapporto di forze tra loro. Questa ripartizione regola in prima approssimazione l’allocazione delle risorse tra
consumo e investimento. Grossomodo, i lavoratori consumano quel che guadagnano; i possidenti guadagnano da quel che gli altri spendono, consumano una piccola parte del proprio reddito e ne investono la maggior parte – o non la investono, nel qual caso essa sparisce, nello stesso momento in cui appare una situazione di sottoccupazione. Per quella via si determina anche la ripartizione dell’investimento tra industrie produttrici di beni di consumo e industrie produttrici di mezzi di produzione.  L’“equilibrio globale” – l’uguaglianza approssimativa tra capacità d’offerta, ossia impiego del capitale e della forza lavoro disponibili, e la domanda effettiva, cioè solvibile – dipende in primo luogo dal numero di investimenti. Se si considera il totale dei salari e dei redditi dei possidenti destinati al consumo come dati, ci sarà equilibrio solo nel caso in cui le imprese investano quanto basta a riassorbire la capacità produttiva delle industrie produttrici di mezzi di produzione. Nulla impedisce che lo facciano. Ma neanche garantisce che lo faranno.
Questo dipende da numerosi fattori, di cui il principale è costituito dalle previsioni in loro possesso sulla domanda futura dei loro prodotti(13). Su queste previsioni si possono dire poche cose ragionevoli, a priori e in generale. Di qui, le fluttuazioni ricorrenti del livello d’attività e le “complicazioni” che possono arrivare fino a depressioni più grandi o a fasi di forte inflazione. Se si considera in prima approssimazione il ritmo del progresso tecnico (e quindi anche dell’aumento della produttività del lavoro) come pressoché costante, queste stesse previsioni e il livello d’investimento che comandano determineranno il tasso di crescita dell’economia a più lungo termine. In questo caso, la tendenza sarà condizionata dall’insieme dell’esperienza passata dell’economia capitalista, che è quella di un’espansione in media. Ci sarà dunque sul “lungo termine” una prospettiva favorevole alla crescita, ma anche un margine d’incertezza importante in ogni singolo istante per ogni singola impresa, la quale, combinata con gli echi degli effetti delle
fluttuazioni precedenti sul capitale fisso esistente, esclude che ci possa essere mai una crescita equilibrata e “stazionaria” (a tasso praticamente costante, steady) a lungo termine. Questo quadro generale può e deve essere evidentemente riempito considerando altri fattori (accelerazione o rallentamento del progresso tecnico, variazioni nel movimento demografico, apertura di nuove zone geografiche di investimento e così via).
In tutto questo niente autorizza a parlare né di equilibrio assicurato, né di un tasso di crescita o di un livello di produzione ottimale, né di una massimizzazione dell’utilità sociale, né di una remunerazione del lavoro secondo il suo “prodotto marginale”, né di un tasso naturale del profitto o dell’interesse, né di nessun altro degli adoni e delle ninfe che popolano i manuali di economia. In particolare, i profitti delle aziende non sono determinati dal “costo marginale” del loro prodotto (che fissa solamente, in tempi normali, un limite inferiore ai loro prezzi di vendita) ma dal prezzo che esse possono ottenere (imporre, estorcere) per il loro prodotto essendo dato lo stato della domanda.

Già questo basta a escludere ogni discussione sulla “razionalità” dell’allocazione delle risorse nell’economia.

Ecco comunque un certo numero di fatti che mostrano in concreto in cosa consiste la “razionalità” economica sotto il capitalismo:

• ogni azienda investe in primo luogo nella propria linea di produzione, e non laddove il profitto sarebbe “marginalmente superiore” (dunque “socialmente preferibile”). Se si avventura a investire in altri settori, è perché prevede là un tasso di profitto sensibilmente superiore;

• quasi tutte le aziende (compresi gli esercizi commerciali di quartiere) si trovano in situazioni d’oligopolio e non di concorrenza – se non di vero monopolio o di intesa tra produttori in varie forme;

• questo fatto comporta un’indeterminatezza delle nozioni di “merce” come prodotto omogeneo e di “settore” come insieme di aziende che producono “lo stesso prodotto”;

• le decisioni dell’azienda, se investire o no, se aumentare o ridurre la produzione, sono prese sempre disponendo di informazioni lacunose e oblique; nelle aziende importanti, queste decisioni sono il risultato di battaglie interne di “esperti” e di gruppetti burocratici (e non di una “procedura razionale di decisione”, Simon, ecc.). Esse sono fortemente manipolate nel senso favorevole a mantenere in carica la classe dirigente, come avevano mostrato fin dagli anni ’60 gli studi di Robin Marris;

• la situazione interna all’azienda presenta una quota più o meno elevata di opacità per i dirigenti, dovuta alla burocratizzazione dell’azienda e alla resistenza dei lavoratori(14);

• il “mercato del capitale” (e del credito) è totalmente “imperfetto” sia perché i fondi disponibili, come già detto, si dirigono di preferenza verso gli ambiti dove sono stati guadagnati, sia perché la situazione dei movimenti finanziari è opaca, sia perché esistono legami molto forti tra banche e industria;

• in stretta connessione col punto precedente, il “capitale”, come potere di disporre di risorse produttive e in particolare del lavoro altrui, è in parte dissociato dalla proprietà o dal possesso di somme di valori. Ciò che conta è la possibilità di accesso a tali risorse che può essere assicurata per altre vie (per esempio, credito bancario);

• la “valutazione” delle imprese esistenti sul mercato è nebulosa, perché dipende dalle previsioni sui loro profitti futuri e sul “tasso medio” previsto di profitto;

• la produzione (e il mercato del lavoro fino a un certo punto) è piena di rendite di posizione;

• la proprietà privata della terra crea una rendita fondiaria assoluta (Marx) che non ha né può avere alcuna giustificazione economica;

• la forza lavoro non è una merce. La sua produzione e riproduzione non sono né possono essere regolate da un “mercato”(15);

• il rendimento effettivo del lavoro (o il tasso effettivo remunerazione/rendimento fisico, TERR(16)) è largamente indeterminato.

Nella fase attuale del capitalismo, cioè da circa un quarto di secolo, tutto ciò resta vero, ma nuovi fattori sconvolgono la
prospettiva d’insieme. Così, la mondializzazione effettiva della produzione, resa possibile da ulteriori sviluppi tecnologici (in breve, la riduzione a quasi niente, quantitativamente parlando, dell’importanza della qualificazione del lavoro nella produzione materiale, mettendo così alla mercé del capitale mondiale miliardi di affamati di ogni dove) e politici (la resa dei governi in materia di politica economica, in particolare la liberazione completa dei flussi internazionali di capitale), ha prodotto quest’effetto apparentemente paradossale di distruggere l’omogeneità
delle condizioni economiche di produzione nel mondo nel momento stesso in cui si stava stabilendo un mercato realmente mondiale. In queste condizioni ogni discussione che provi a determinare i prezzi o altro – inclusi i profitti capitalistici – tramite fattori “razionali” diventa ridicola. Tornerò su questo nella parte finale del testo.

EFFICACIA RELATIVA, ACCORTEZZA E RESISTENZA DEL CAPITALISMO

La miglior giustificazione del capitalismo resta quella che offriva, al termine della sua vita, Schumpeter, in Capitalismo, Socialismo, Democrazia. Joan Robinson(17) l’ha riassunta così: il sistema è certo crudele, ingiusto, turbolento – ma fornisce la merce, e smettetela di brontolare perché è questa merce che voi volete.

Giustificazione circolare, anche qui. Nei paesi “ricchi”, le persone “vogliono” questa merce perché sono addestrati fin dalla più tenera età a volerla (andate a visitare una scuola materna di oggi) e perché il regime impedisce loro, in mille e un modi, di volere qualcos’altro. In tutti i paesi, perché se il capitalismo non ha inventato ab ovo quello che si chiama effetto di dimostrazione, ne ha elevato il potere a un grado prima sconosciuto. Per il momento, questa merce bene o male continua a essere in grado di fornirla. Qui la discussione non può che fermarsi: fintanto che la gente vorrà questa accumulazione di cianfrusaglie, accumulazione sempre più aleatoria per un numero crescente di persone, e di cui potranno forse un giorno essere saturi, la situazione non cambierà.

Ma alcune domande restano. Fin dove arriva, e su che cosa poggia, questa “efficacia”, malgrado tutti i suoi limiti, del capitalismo? Come si spiega che il regime abbia potuto sopravvivere a una lunga serie di crisi e di vicissitudini storiche e, fino a un certo momento almeno, uscirne rinforzato? Quali sono, al riguardo, i cambiamenti che la sua nuova fase può generare?

La risposta alla prima domanda non è così difficile. Il capitalismo è il regime che punta ad accrescere con ogni mezzo la produzione – una certa produzione, non dimentichiamolo – e a ridurre con ogni mezzo i “costi” – costi, non dimentichiamo neppure questo, definiti in un senso molto restrittivo: né la distruzione dell’ambiente, né lo schiacciamento delle vite umane, né l’abbrutimento delle città, né il trionfo universale dell’ir-responsabilità e del cinismo, né la sostituzione della tragedia e della festa popolare con i teleromanzi sono tenuti in conto in questo calcolo, né potrebbero esserlo in nessun calcolo di questo tipo. Per fare questa fine, esso ha saputo e potuto contare su uno sviluppo della tecnologia senza precedenti nella storia, che esso stesso ha in mille modi promosso – tecnologia essa pure strettamente orientata, è vero, ma adeguata ai fini perseguiti: potere per le fasce dominanti, consumo di massa per la maggioranza dei dominati, distruzione del senso del lavoro, eliminazione del ruolo umano nella produzione. Ma il mezzo più formidabile è stata la distruzione di tutti i significati sociali precedenti e l’aver instillato nell’animo dei più il desiderio rabbioso di acquisire tutto ciò che, nella sfera di ciascuno, è o appare accessibile (per questo esso accetta praticamente tutto). Questa enorme mutazione antropologica può essere chiarita e compresa, ma non “spiegata”.  A questi mezzi si è aggiunta, da un certo momento e nient’affatto dall’inizio, la trasformazione di un meccanismo istituzionale risalente ai tempi più remoti, il mercato, liberato da ogni impedimento ed esteso gradualmente a tutte le sfere della vita sociale. Questo mercato non è, non è mai stato e mai sarà, fintanto che il capitalismo esisterà, un mercato “perfetto” né tantomeno concorrenziale nel senso pietoso dei manuali d’economia politica. È sempre stato caratterizzato dagli interventi del potere statale, le coalizioni dei capitalisti, la parzialità delle informazioni, le manipolazioni dei consumatori e la violenza aperta o camuffata contro i lavoratori. Non è molto diverso da una giungla moderatamente selvaggia: come in ogni giungla, i più adatti a sopravvivere sono sopravvissuti, e sopravvivono. Senonché questa attitudine alla sopravvivenza non coincide con nessun optimum sociale, né col massimo di una produzione ostacolata dalla concentrazione del capitale, dagli oligopoli e dai monopoli, per non dire delle allocazioni irrazionali di risorse, delle capacità non impiegate e del conflitto permanente sulla produzione nei luoghi di lavoro. Ma attraverso gli alti e bassi, i boom e i crash, bene o male esso ha funzionato pur nei suoi limiti e secondo le sue finalità.

La risposta alla seconda domanda, sempre che ve ne sia una, è più difficile e complessa. Per l’essenziale, essa è paradossale. Lasciata a se stessa, la minimizzazione dei costi implica logicamente salari più bassi possibile per una produttività più alta possibile. Era verso una situazione di questo tipo che si orientava spontaneamente il capitalismo della prima metà del XIX secolo, ed è questa logica che Marx ha estrapolato con i suoi concetti del depauperamento e della sovrapproduzione. Sono state le lotte operaie a controbilanciare questa tendenza, imponendo aumenti di salario e riduzione dell’orario di lavoro che hanno creato enormi mercati interni di consumo ed evitato al capitalismo di affogare nella sua stessa produzione. Si è ugualmente visto, si sa, lo si può dimostrare – Keynes l’aveva
fatto – che lasciato a se stesso il sistema non va spontaneamente verso un “equilibrio”, per quanto approssimativo, ma
semmai verso un’alternanza di fasi espansive e recessive – le crisi economiche – le più violente delle quali possono generare, ed è successo, una distruzione ingente di ricchezze accumulate e una disoccupazione vertiginosa (il 30% della forza lavoro negli Stati Uniti nel 1933). Ora, anche in questo caso, sono state reazioni sociali e politiche a imporre a partire dal 1933, inizialmente negli Stati Uniti, nuove politiche d’intervento dello Stato nell’economia.
Nei due casi – ripartizione del prodotto sociale, ruolo dello Stato – l’establishment capitalista, bancario e accademico ha rabbiosamente combattuto queste folli innovazioni che rischiavano di provocare la fine del mondo. Per molto tempo, i padroni non si sono limitati a chiedere (e a ottenere) l’intervento dell’esercito contro gli operai in sciopero; hanno proclamato che era loro impossibile accordare aumenti di salario o riduzioni della giornata lavorativa senza provocare il fallimento delle loro imprese e della società tutta; e hanno sempre trovato dei professori di economia politica che dessero loro ragione. E M. Rueff, l’eroe della politica economica francese, organizzava la “deflazione Laval” nel 1932, mentre dall’altra parte della Manica il Tesoro e la Banca d’Inghilterra accumulavano memorandum dimostrando
che qualunque rilancio della domanda tramite lavori pubblici avrebbe generato una catastrofe economica.
È solo dopo la seconda guerra mondiale che aumenti più o meno regolari dei salari e regolazione statale della domanda globale sono stati generalmente accettati dai datori di lavoro e dagli economisti accademici. Ne è seguita la più lunga fase di espansione capitalista, pressoché ininterrotta (i “trenta gloriosi”). Come Kalecki aveva previsto già nel 1943, la conseguenza è stata una pressione crescente sui salari e sui prezzi, manifestatasi chiaramente a partire dagli anni ’60. Nulla attesta che essa non avrebbe potuto essere moderata da politici moderati. Ma qui è entrato in gioco un fattore propriamente politico. Questa situazione lievemente inflazionistica è stata il segnale, e il pretesto, per una controffensiva reazionaria (Thatcher, Reagan), una sorta di controrivoluzione conservatrice, che da quindici anni si è diffusa su tutto il pianeta. Sul piano politico, questa controffensiva ha significato il fallimento dei partiti “di sinistra” tradizionali, l’enorme perdita d’influenza dei sindacati, il manifestarsi della mostruosità dei regimi del “socialismo
reale” prim’ancora del loro crollo, l’apatia e la privatizzazione delle popolazioni, la loro irritazione crescente contro l’ipertrofia e l’assurdità delle burocrazie statali. A parte l’ultimo, tutti questi fattori traducono direttamente o indirettamente la crisi del progetto sociale-storico di autonomia individuale e collettiva. Il grande squilibrio nel rapporto tra forze sociali che ne è conseguito ha riaperto la strada a un “liberalismo” brutale e cieco, di cui certo i principali beneficiari sono i grandi gruppi industriali e finanziari e le élite che ne sono a capo, ma che va ben al di là del loro ruolo politico; in Francia, in Spagna, in molti paesi nordici, sono stati i partiti cosiddetti socialisti a incaricarsi di introdurre e imporre, o di mantenere (in Gran Bretagna) il neoliberalismo. Si assiste al trionfo sfrenato dell’immaginario
capitalista nelle forme più grossolane. Questo si è materializzato soprattutto con lo smantellamento del ruolo dello Stato nel settore dell’economia. I movimenti internazionali dei capitali sono stati liberati di ogni controllo; il
feticismo dell’equilibrio di bilancio impedisce ogni politica di regolazione della domanda; la politica monetaria è passata interamente nelle mani di banche centrali la cui unica preoccupazione è la lotta contro un’inflazione ormai inesistente. Ne è risultata, negli ultimi quindici anni, una disoccupazione mantenuta a livelli elevati; là dove c’è stato un indietreggiare della disoccupazione, come negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, il prezzo è stato la proliferazione di lavori part time o mal remunerati e la stagnazione o la riduzione dei salari reali, parallelamente a una crescita costante dei profitti delle aziende e dei redditi delle classi ricche. L’attacco frontale contro i salari e i vantaggi un tempo conquistati dai lavoratori, reso possibile dal rialzo della disoccupazione e dalla precarietà dei lavori, viene
giustificata col seguente ricatto: bisogna ridurre i costi del lavoro per far fronte alla concorrenza estera ed evitare le delocalizzazioni. Si pretende così di credere che una diminuzione di qualche punto percentuale dei salari in Francia o in Germania basti per lottare con successo contro la produzione di paesi in cui i salari sono un decimo o un ventesimo dei nostri (2,5 dollari, ossia 15 franchi, al giorno per gli operai della Nike reclusi nelle fabbriche in Indonesia; ancora di meno in Vietnam). Nessuna “flessibilità del lavoro” nei vecchi paesi industrializzati potrebbe opporre un argine alla concorrenza della manodopera miserabile di paesi che contengono una riserva inesauribile di forza lavoro. Ci sono, mobilitabili rapidamente e praticamente senza bisogno di formazione, centinaia di milioni di potenziali operai e operaie in Cina, altrettanti in India, pochi di meno negli altri paesi asiatici, per non parlare dell’America latina, dell’Africa e dell’Europa dell’est. Ed è ridicolo pretendere che una transizione esente da contrasti potrà portare paesi che
presentano simili distanze nelle loro condizioni di partenza a una situazione di armoniosa divisione internazionale del lavoro. Si assiste a una fase di transizione brutale, selvaggia, su una scala molto più grande e in un lasso di tempo molto più concentrato rispetto alle altre fasi di transizione della storia del capitalismo, che si vuole giustificare con il pretesto assurdo che il corso attuale è ineluttabile, che nessuna politica può resistere allo juggernaut dell’evoluzione dell’economia. In una tale situazione è vano discutere di qualunque “razionalità” del capitalismo. Il regime ha allontanato da sé i pochi mezzi di controllo che 150 anni di lotte politiche, sociali e ideologiche erano riusciti a imporgli.
La dominazione anomica dei “baroni” predatori dell’industria e della finanza negli Stati Uniti alla fine del secolo scorso offre solo un pallido precedente. Le aziende multinazionali, la speculazione finanziaria e anche le mafie nel senso stretto del termine saccheggiano il pianeta, guidate unicamente da una visione a breve termine dei loro profitti. L’insuccesso di ogni tentativo di preservare l’ambiente dagli effetti dell’industrializzazione, civile e selvaggia, non è che il segno più spettacolare della loro miopia. Gli effetti prevedibili e terrificanti della “modernizzazione” degli altri quattro quinti del mondo non svolgono nessun ruolo nelle attuali politiche(18).

La prospettiva che ne risulta non è quella di una “crisi economica” del capitalismo nel senso tradizionale. In astratto, il capitalismo (la aziende mondiali) potrebbe andare sempre meglio fino al giorno in cui il cielo ci cadrà sulla testa. Questo implicherebbe tuttavia, tra le altre cose, che la rovina dei vecchi paesi industrializzati, soprattutto in Europa, e l’uscita di miliardi di persone dal loro mondo millenario per entrare in società tecnicizzate, salariate e urbane nei paesi non ancora industrializzati potrebbero avvenire senza scosse sociali e politiche ulteriori. È una prospettiva possibile. Non è sicuro che sia la più probabile. L’analisi può proseguire fino a porsi questo tipo di domande. Il resto dipende dalle reazioni e dalle azioni dei popoli dei paesi coinvolti.

(Settembre 1996-Agosto 1997)


Note:

(1) Il saggio è stato pubblicato nella “Revue Internationale de Psychosociologie”, n. 8/1997. Il testo è una relazione tenuta all’incontro del CIRFIP, “Razionalità strumentale e società”, nell’ottobre 1996, dal titolo: «Appunti utili a una critica della “razionalità” del capitalismo». La presente versione, notevolmente ampliata e rimaneggiata, deve molto ai rilievi critici di Vassili Gondicas. Questo testo è pubblicato nella rivista del Centre International de Recherche, Formation ed Intervention Psychosociologiques (CIRFIP). La rivista affronta tematiche centrali per chi si occupa di consulenza e di formazione, in una prospettiva molto vicina a quella in cui si colloca lo Studio APS (Analisi Psicosociologica) . Segnaliamo che il numero da cui abbiamo tratto l’articolo è intitolato “La résistible emprise de la rationalité instrumentale”, è curato da F. Giust-Desprairies, da A. Lévy e A. Nicolai, ed è ricco di contenuti interessanti rispetto ai problemi discussi nelle Giornate di studio. Questo contributo è stato tradotto da Roberto Camarlinghi.

(2) Cfr. il mio testo del 1974, Riflessioni sullo “sviluppo” e la “razionalità”, ripreso in Domaines de l’homme, Les Carrefours du labyrinthe II, Le Seuil, Paris, 1984 (tr. it., Gli incroci del labirinto II, Hopefulmonster, Torino, 1989, N.d.T.), in particolare il§ 4, «La finzione di un’economia “razionale”».

(3) Cfr. il mio testo «Potere, politica, economia» (1988), ripreso ora in Le Monde morcelé, Le Seuil, Paris, 1990, pp. 113-140.

(4) Già in Ferguson (An Essay on the History of Civil Society, 1759) e Benjamin Constant (De la liberté des Anciens, comparée à celle des Modernes, 1819).

(5) Cfr. il mio libro L’institution imaginaire de la société, prima parte (1965), ripresa nell’edizione di Seuil (1975), p. 62, e «Développement et “rationalit锻 (1974), cit. N.d.T. Di questo testo solo la II parte è stata tradotta in italiano; cfr. nota n.2.

(6) Cfr. l’opera fondamentale di Aaron Gurvitch, Categories of Medieval Thought  (tr. fr. presso Gallimard).

(7) Se ne ha una nuova dimostrazione in vivo – e in anima vili – nel carattere propriamente mafioso della
“ri-accumulazione primitiva” operata dal processo di “privatizzazione” nelle società dei paesi ex-comunisti.

(8) La separazione del produttore e dei mezzi di produzione non è specifica del capitalismo; essa è già all’opera
nella schiavitù.

(9) Cfr. William H. McNeill, Keeping Together in Time, Harvard UP, 1996, e la critica di John Keegan in Times
Literary Supplement, 12 luglio 1996, p. 3, e 6 settembre 1996, p.17.

(10) Già nel mio testo del 1974 citato prima notavo come i responsabili della “politica dello sviluppo” cominciassero
a capire che gli “ostacoli allo sviluppo” erano ben più profondi dell’assenza di capitale o di qualifiche tecniche. Questo risulta da rapporti ufficiali della Banca mondiale, ad esempio, ma senza influenzare gli “economisti teorici”. Del
resto, persino responsabili politici “seri” continuano a scoprire la Luna. In un recente discorso, Alan Greenspan,
presidente della Federal Reserve, avanzava l’idea che l’introduzione del capitalismo in un paese era impossibile
se certi presupposti “culturali” non erano dati. William Pfaff, International Herald Tribune del 14 luglio 1997 (p. 8) lo cita dicendo che dal 1989 (!) lui aveva scoperto che “molte cose che avevamo ritenute scontate nel nostro sistema di
mercato e supposte appartenere alla natura umana non appartenevano affatto alla natura, ma alla cultura.
Lo smantellamento della pianificazione centrale in un’economia non instaura automaticamente, come supponevano alcuni, un capitalismo di mercato”.

(11) “Notes on The economics of technical progress”, in The Rate of Interest and Other Essays, 1951, p. 56:
“If future innovation were foreseen in full detail it would begin to be made at once…”. L’argomento lo si
ritrova anche in testi successivi di Karl Popper, con lo stesso intento di mostrare l’imprevedibilità del progresso
tecnico.

(12) Nell’originale: “which is to be master”. Altri passaggi di Alice mostrano che l’autore, in costruzioni analoghe,
utilizza alternativamente e indifferentemente i termini which (“quale dei due”) e who (“chi”): per esempio, nell’ultimo capitolo di Through the Looking-Glass, si trova “which dreamed it?” e “who it was that dreamed it all”.

(13) Keynes vi aggiungeva il “costo” dell’investimento misurato in base al tasso d’interesse. Ma, per le aree
che contano, le variazioni del tasso d’interesse sono meno decisive delle prospettive di profitto e soprattutto
i loro effetti sono dissimmetrici. Le banche centrali possono soffocare un’espansione mediante aumenti
importanti dei tassi d’interesse, ma possono con minor facilità, per non dire nessuna, suscitarla. Lo testimoniano numerosi casi dal 1945, e ancora oggi la situazione in Germania., in Francia e soprattutto in Giappone. I tassi reali in
Francia e in Germania sono ai minimi da molto tempo; mentre in Giappone il tasso di sconto è dello 0,5% e il
rendimento delle obbligazioni inferiore al 2%.

(14) Cfr. il mio testo “Sur le contenu du socialisme, III” (1958), oggi in L’expérience du mouvement ouvrier, vol.
2, ed. 10/18, 1974.

(15) Ho sviluppato questo punto numerose volte: in “Sur la dynamique du capitalisme” (Socialisme ou barbarie,
n. 12, sett./ott. 1953); “Le mouvement révolutionnaire sous le capitalisme moderne” (1960) ripreso in Capitalisme moderne et révolution, vol. 2, ed. 10/18, 1979; “Valeur, égalité, justice, politique: de Marx à Aristote et d’Aristote
à nous” (1975), ripreso in Les Carrefours du labyrinthe, Le Seuil, Paris, 1978. N.d.T. cfr nota n. 2.

(16) Cfr. il mio libro Devant la guerre, Paris, Fayard, 1981, p. 132, nota 1.

(17) Economic Philosophy, Penguin, 1962, p. 130.

(18) Evocavo gli effetti prevedibili dell’industrializzazione dei paesi “non sviluppati” già nel mio testo del
1974, citato in nota 2, e senza dubbio non ero il primo.