Moneta, possibile espressione del Comune. Non bene comune

di Andrea Fumagalli  (Quaderni di San Precario), aprile 2013

La moneta è un’invenzione umana. La moneta non cresce sugli alberi. La moneta ci dimostra che l’essere umano è un animale sociale. La moneta è socialità, è, soprattutto, relazione sociale. Una relazione sociale che oggi non è paritaria, ma che potrebbe diventarlo. La moneta è la dimostrazione dell’esistenza di una comunità, perché la moneta è frutto di un rapporto di fiducia. Ma la moneta è, soprattutto, potere. Potere di decisione, potere di arbitrio. Per questo la moneta non è un bene comune. Essa è, o meglio potrebbe essere, dovrebbe essere, un common. Ma oggi non lo è. Nell’attuale bio-capitalismo cognitivo e finanziarizzato, se una lotta deve esserci essa dovrà necessariamente essere la lotta per la moneta intesa come common. Una lotta per il “comun(e)ismo”.

La moneta ha svolto diverse funzioni nella storia dell’umanità. Esiste da subito, come il fuoco, la ruota, la scoperta dell’agricoltura. Nelle società preistoriche è mezzo di scambio e unità di conto. Mezzo di pagamento per consentire la relazione sociale dettata dall’attività di scambio per la sopravvivenza: la necessità del negotium (la dannazione del labor), in opposizione all’otium (il piacere della creatività e dell’ingegno umano). E in quanto tale, unità di misura del valore delle merci scambiate. La moneta è quindi da subito rappresentazione fenomenica del valore. E in quanto tale, espressione di potere nel momento in cui tale misura viene stabilita sulla base di una gerarchia sociale. Chi decide la “forma” della moneta? Ma soprattutto, nell’antichità come oggi, chi decide il valore della moneta?

La storia della moneta è connessa alla storia dell’umanità, dicevamo. Anticamente, sino alla formazione degli stati nazionali nel 1500 in Europa, la forma prevalente della moneta è la moneta-merce. Il valore della moneta è contenuta nel corpo stesso della moneta. La sua forma (peso) metallica (quindi fisica, sia essa rame, bronzo, argento o oro) ne indica il valore. Si attua così uno scambio tra equivalenti in valore. Un metro di stoffa che, supponiamo, abbia un valore di 10 grammi d’oro, viene direttamente scambiato con una moneta che contiene 10 grammi d’oro. Da questo punto di vista, lo scambio di moneta implica uno scambio rivale e solvibile. Quella specifica moneta di 10 grammi può essere usata solo per quello scambio, in una relazione do ut des, merce (stoffa) contro merce (metallo). La moneta è quindi una merce (bene) come tutte le altre.

Secondo Erodoto, i Lidi furono il primo popolo a introdurre l’uso di monete d’oro e d’argento e il primo a stabilire negozi per la vendita al minuto in località permanenti. Nel momento stesso in cui la moneta metallica si diffonde come mezzo di pagamento e diventa unità di conto degli scambi economici (unità di misura del valore), essa diventa anche espressione di potere. Era infatti chi emetteva la moneta (il sovrano) a determinarne il valore e a esprimere il comando economico. In questa fase della storia (euro-mediterranea), la moneta-merce implica una struttura proprietaria (come tutte le merci). La proprietà si estrinseca nel monopolio di emissione (il sovrano). Non vengono ancora agìti i diritti di signoraggio. Sarà con l’impero romano, prima con Nerone e poi con Settimio Severo, che il valore della moneta (Aureo e Denario, rispettivamente in oro e argento) tenderà a non corrispondere più esattamente alla quantità di metallo pregiato utilizzato. Sorgono così i diritti di signoraggio. Ma sarà solo con la formazione degli stati nazionali europei e il salto di paradigma tecnologico a cavallo del XV-XVI secolo che si assisterà al totale sganciamento tra il valore dichiarato della moneta e la quantità del metallo prezioso contenuto.

Il monopolio di emissione della moneta assume allora le forme di un diritto sovra-individuale e la moneta diventa variabile extra-mercato (privato), controllata a livello istituzionale e non dalla dinamica di mercato. Una volta garantita dal ruolo statuale, che opera non come agente di mercato, ma al di sopra di esso, la moneta comincia a svolgere anche la funzione di riserva di valore e misura patrimoniale. Tale passaggio di fase è, non casualmente, accompagnato dal cambiamento della forma della moneta. Dalla moneta metallica, fondata prevalentemente sull’oro, si passa alla moneta cartacea: ciò significa che il mezzo monetario non incorpora più il valore stesso che dichiara. Come abbiamo ricordato, lo scambio economico “valore contro quantità” era sempre esistito come scambio di puri e diretti equivalenti in merce, ovvero un certo ammontare d’oro contro un certo ammontare di merci. Non è un caso che buona parte dei nomi delle valute in vigore ancora oggi, o sino a poco tempo fa, derivino, etimologicamente, da unità di peso (pound in Gran Bretagna, pesetas in Spagna, lira – da libra – in molti paesi). Con la garanzia di una governance statuale (quindi istituzionale e extra-mercato privato), lo scambio economico comincia sempre più a caratterizzarsi materialmente come scambio tra un pezzo di carta, il cui valore intrinseco è poca cosa, e un certo ammontare di merce.

Ma questo pezzo di carta – la moneta cartacea o banconota – viene garantito da un potere politico superiore che obbliga all’accettazione (fiducia) e ne garantisce il valore virtuale ivi riportato. Tale passaggio genera, tramite il ruolo sempre più importante della Banca centrale, la possibilità di creare base monetaria in condizioni di monopolio.

Con la rivoluzione industriale e, nel XX secolo, con la Conferenza di Bretton Woods si assiste, così, al graduale abbandono dei sistemi monetari fondati sui metalli preziosi e sulla inconvertibilità delle monete in metalli preziosi. La crescita degli scambi economici, provocata dalla diffusione del sistema capitalistico di produzione, ha imposto l’uso di monete la cui offerta non risultasse vincolata dalla limitata disponibilità di metalli preziosi. Inoltre, l’affermarsi di talune monete, sempre più diffuse e accettate negli scambi internazionali, ha reso obsoleto il ricorso ai metalli preziosi per regolare tali scambi. Infine, l’affermazione del biglietto di banca e di altre forme di pagamento svincolate dall’uso di metalli preziosi, si spiega con la praticità dei sistemi di pagamento che non obbligano a trasferire ingenti quantità di pesante metallo prezioso.

Oggi, dopo la fine di Bretton Woods, assistiamo alla completa smaterializzazione della moneta. Il suo valore, convenzionalmente fissato nel 1944 a Bretton Woods dalla parità fissa con l’oro nel rapporto di 35$ per oncia d’oro, è decaduto. Da moneta “merce” e moneta “oro” si passa alla moneta come “puro segno” (Marx), passaggio che, grazie al processo di finanziarizzazione, ha di fatto ridotto il peso dei diritti di signoraggio e anche la possibilità da parte delle Banche Centrali di controllare in toto la massa monetaria in circolazione e il moltiplicatore creditizio e finanziario che ne consegue.

La moneta, in questo modo, si smaterializza del tutto. Oggi la moneta non è più una merce o un bene. Non esiste più un’unità di misura del valore della moneta, come il metro per la lunghezza o il chilogrammo per il peso. A prescindere dal fatto che esistono ancora i monopoli di emissione e i diritti di signoraggio, a prescindere dalla struttura proprietaria, in quanto non più bene, la moneta non può neanche essere definita bene comune. Con la fine degli accordi di Bretton Woods, il valore della moneta non è più determinato esclusivamente da chi la emette. La sovranità monetaria (nazionale o sovranazionale, che sia), la cui governance è il compito della Banca centrale, tende a perdere sempre più significato.

Sino alla crisi del fordismo, l’istituto della Banca centrale ha avutoil compito di esercitare un controllo puntuale e diretto sulla quantità di banconote e monete coniate dalla Zecca nazionale. Ma il 95% della moneta circolante è oggi erogato da banche private nella forma di prestiti o attività speculative; su questa quota della moneta circolante la Banca centrale ha solo un controllo molto indiretto tramite l’imposizione della riserva obbligatoria sull’ammontare dei depositi. Ciò significa che, nonostante la Banca centrale possa unilateralmente e autonomamente fissare i tassi d’interesse e imporre una riserva obbligatoria alle banche, la quantità di moneta in circolazione è sempre meno controllabile dalla stessa Banca centrale.

In un sistema capitalistico che si basa su un’economia finanziaria di produzione, la quantità di moneta esistente viene endogenamente determinata dal livello di attività economica che si registra e dall’evoluzione delle convenzioni finanziarie che regolano il mercato internazionale della finanza e delle valute. La Banca centrale può solo cercare di aumentare o di ridurre la massa monetaria circolante, ma nulla più. Tale possibilità viene oggi ulteriormente ridotta dal nuovo ruolo che hanno assunto i mercati finanziari, sia nel finanziare l’attività di investimento (tramite le plusvalenze generate), sia come creatori di titoli altamente liquidi (definita near money, quasi moneta).

Di fatto, in modo paradossale, i poteri discrezionali delle Banche centrali sono tanto più diminuiti quanto più esse stesse sono diventate istituzioni politicamente indipendenti. Di conseguenza, i poteri gestionali del settore bancario e, tramite la regolazione dei tassi d’interesse, dell’intero sistema economico della Banca centrale sono sempre più ancillari alle dinamiche che si svolgono sui mercati finanziari e quindi sempre più dipendenti dalle oligarchie che li dominano.

Ciò significa che nel biocapitalismo cognitivo, la moneta e la determinazione del suo valore non è più sotto il controllo della Banca Centrale, cioè dell’istituto che, formalmente, la emette. Nel momento stesso in cui la moneta è pura moneta segno, essa sfugge a ogni controllo pubblico. La moneta perde lo stato di “bene di proprietà pubblica”. Il suo valore viene determinato di volta in volta dall’operare dell’attività speculativa dei mercati finanziari. Le sue funzioni di mezzo di pagamento e unità di conto (misura del valore), nonché di riserva di valore e di strumento di finanziamento dell’attività di accumulazione / valorizzazione, sfuggono a qualsiasi controllo. Nel momento in cui la sua quantità e le modalità di circolazione vengono determinate dalle convenzioni che si determinano sui mercati finanziari,sempre più concentrati, la moneta è ostaggio delle aspettative che le oligarchie (o meglio, la dittatura delle oligarchie) dei mercati finanziari di volta in volta è in grado di esercitare. Oggi, possiamo affermare che la creazione di moneta-finanza è esatta espressione del comunismo del capitale. Ne è riprova il fatto che le scelte statuali di politica monetaria sono in funzioni della dinamica finanziaria. Gli stessi tassi d’interessi non sono più controllabili in toto dalla politica monetaria.

La moneta contemporanea è, dunque, rappresentazione del biopotere finanziario, in quanto il suo valore è determinato dalle convenzioni finanziarie che la governance dell’espropriazione del comune è, di volta in volta, a secondo delle condizioni, in grado di imporre.

Ma proprio per questo il comune, inteso come non proprietà, potrà, in futuro, rappresentare un contropotere monetario. A tal fine, diventa sempre più imprescindibile attivarsi nella costruzione di circuiti finanziari alternativi non riconducibili alla legge dei poteri forti finanziari, oggi egemoni. Pensare di poter regolamentare i mercati finanziari per ricondurli sotto un controllo pubblico è pura illusione. La sfida va portata al massimo livello della governance finanziaria attuale. E questa sfida genera la necessità di riappropriarsi della moneta non come bene comune ma, appunto, come common, ovvero come espressione e misura del valore di quella cooperazione sociale o general intellect, che oggi viene espropriata dal divenire rendita dei profitti e soggetta alla misura (variabile) dettata dai rapporti di forza imposti dal ricatto dei mercati finanziari.

Come il reddito di base è la forma di remunerazione del comune, esito dell’agire rivendicativo-conflittuale del lavoro vivo precario, così, oggi più che mai, la moneta può essere espressione e misura di questo stesso comune (cooperazione sociale e general intellect), contropotere al comunismo, selettivo, iniquo, gerarchico del capitalismo finanziario.

È ora che i precari comincino a immaginare anche forme di autogestione finanziaria.

NOTE

1. Cfr. Erodoto I,94. Le prime monete erano fatte di elettro, una lega di oro e argento che si realizzava già in natura, ma che era ulteriormente falsificata
dai Lidi con altra aggiunta di argento e anche rame. Secondo le ricerche di numismatica antica, la moneta lidia portava l’effige di un leone con un raggio di sole, che rappresentava il re. Secondo Erodoto, fu il re Aliatte a introdurre le prime monete, pratica che si diffuse sotto il regno di suo figlio Creso, che divenne, non casualmente, sinonimo di ricchezza. Vedi anche M. Cowell, K. Hyne, “Scientific Examination of the Lydian Precious Metal Coinages”, in A. Ramage, P. Craddock (eds.), King Croesus’ Gold: excavations at Sardis and the history of gold refining (Cambidge, MA: Harvard University Press, 2000): 169-174.

2. Con la riforma monetaria di Settimio Severo (193-211 d.C.) si può parlare di vero e proprio signoraggio: questo imperatore dimezzò la quantità di metallo prezioso contenuto nelle monete, mentre lasciò invariato il valore
nominale.

3. Le valute che non fanno riferimento a unità di peso prendono, solitamente, il nome dal sovrano (popolo) che le emette (ad esempio, il Franco). Forse si potrebbe (ironicamente) dire lo stesso per quanto riguarda la nostra attuale moneta, l’Euro, espressione del nome del nostro attuale sovrano, l’Europa delle monete (cfr. L. Berti, A.Fumagalli, L’anti-europa delle monete, Roma: Manifestolibri, 1992).

4. Il 15 agosto 1971, a Camp David, Richard Nixon, sospese la convertibilità del dollaro in oro, in quanto, con le crescenti richieste di conversione in oro, le riserve americane si stavano sempre più assottigliando.

5. Lo scambio di moneta (apertura di un rapporto di debito e credito) non implica infatti lo scambio dei diritti di proprietà. Lo scambio di moneta non è solvibile. La proprietà della moneta legale è proprietà statuale, o meglio, della Banca centrale che ha il monopolio di emissione. Tanto è vero che la distruzione di una banconota è un reato, anche se la banconota è privatamente posseduta, in quanto distruzione di un bene di proprietà altrui (a differenza di un bene privato).

6. Al riguardo, sono in corso alcuni esperimenti che cercano di creare un circuito finanziario alternativo. Basti pensare alla proposta delle monete complementari in fase di definizione presso il comune di Nantes (cfr. M. Amato, “La moneta municipale: una strada contro la stretta creditizia”, Altra finanza – blog di Linkiesta 16 mag. 2012, <http://www.linkiesta.it/blogs/altra-finanza/la-moneta-locale-una-strada-contro-la-stretta-creditizia>) oppure in Italia cfr.”Moneta complementare: lo stato dell’arte in italia”, redazionale del sito Monetacomplementare.org, <http://www.monetacomplementare.org/1/monetacomplementare_lo_stato_dell_arte_in_italia_745602.htm
l>). Su questo tema ci ripromettiamo di tornare sul nr. 5 dei Quaderni di San Precario.

Finanziare i sussidi mediante moneta complementare

da Mainstream, 25 aprile 2013

Riceviamo e volentieri pubblichiamo il seguente contributo di Guido Ortona, Professore Ordinario di Politica Economica presso l’Università del Piemonte Orientale
(M.B.)

Vorrei sottoporre all’attenzione di coloro che sono interessati la proposta che l’Italia provveda al soccorso dei cittadini più bisognosi mediante la stampa di moneta. Prego il lettore di prendere sul serio la frase “sottoporre all’attenzione”: è possibile che la proposta sia assurda, o che non lo sia ma ci siano ostacoli molto seri, o che sia inopportuna, e in generale che abbia dei difetti che io non ho visto. Penso però che valga comunque la pena di discuterne, eventualmente per decidere che è impraticabile. Qui di seguito i dettagli.

L’Italia dovrebbe stampare una moneta parallela all’euro, chiamiamola lira, da usarsi per distribuire un sussidio di disoccupazione generalizzato. Vari interventi, su cui non mi dilungo,  suggeriscono che il valore complessivo dovrebbe essere dell’ordine di 10 miliardi di Euri all’anno. Il tasso nominale di cambio più comodo sarebbe ovviamente 1 lira = 1 Euro; la lira però non dovrebbe essere convertibile in euro né in altre valute, né dare origine a depositi fruttiferi. Inoltre non dovrebbe essere utilizzabile per pagare contributi fiscali o previdenziali (dato che altrimenti si tradurrebbe in un’altra manovra, e cioè l’emissione di euro).
E’ appena il caso di ricordare che 10 miliardi costituiscono circa due terzi dell’1% del pil. Il pericolo che la politica qui suggerita abbia seri effetti inflazionistici è quindi minuscolo, e certamente risibile di fronte al ben più grave pericolo di deflazione causata dalla costante diminuzione della domanda interna.
Che corso dovrebbe avere la nuova valuta?  Ci sono tre possibilità. La prima è che il corso sia puramente volontario. Le varie esperienze di monete locali che si stanno sperimentando un po’ dovunque sono incoraggianti, ma credo che l’accettazione volontaria non sia sufficiente per uno schema così ampio e non radicato in una specifica realtà locale. La seconda è che il corso sia forzoso. Non vedo obiezioni a questa possibilità, se non il malcontento che potrebbe generare, anche se probabilmente solo inizialmente, e possibili ostacoli giuridici nazionali o più facilmente europei. La terza possibilità, intermedia fra le due, mi pare quindi la migliore. La moneta dovrebbe  essere utilizzabile solo per due usi specifici, e cioè 1) l’acquisto di beni, sia di consumo corrente, che durevole, che di investimento presso venditori disponibili ad accettarla; e 2) il pagamento delle spese di personale da parte dei medesimi, limitatamente a una data quota; diciamo che ogni dipendente potrebbe essere pagato in lire solo per il 25% della sua retribuzione netta. Il corso della moneta sarebbe quindi garantito semplicemente dal fatto che non ci sarebbe motivo di non accettarla: i venditori sarebbero indotti ad accettarla dalla concorrenza fra di essi e dal fatto che possono utilizzarla per pagare il personale, e il personale dalla possibilità di utilizzarla per acquisti correnti. Un’occhiata ai dati suggerisce che questa strada è praticabile: una stima molto conservatrice dei redditi netti dei soli addetti al commercio è di circa 45 miliardi, quindi dieci miliardi sarebbero meno di un quarto dei loro redditi, una cifra sicuramente inferiore a quanto speso in consumi correnti. Ove necessario, ma non dovrebbe esserlo, l’accettazione della Lira potrebbe eventualmente essere incentivata garantendo a chi  riceve parte del salario o dello stipendio in Lire un (piccolo) sconto fiscale determinato dal maggior gettito conseguente all’effetto espansivo della domanda aggiuntiva che si viene a creare.
Vorrei sottolineare che considero quanto qui suggerito un palliativo per la crisi sociale italiana assai più che una soluzione. Credo (e mi pare che ormai siamo in molti a crederlo) che l’Italia sarà presto costretta a lasciare l’euro e/o a denunciare il debito pubblico; il problema è se lo faremo prima o dopo avere subito una macelleria sociale di tipo greco. In entrambi i casi si renderanno necessarie (e possibili) politiche molto più impegnative.

Guido Ortona

Moneta del comune e reddito sociale garantito

di LAURENT BARONIAN e CARLO VERCELLONE (Uninomade), 17 aprile 2013

L’ambizione di quest’articolo è quella di gettare le basi per una concezione della moneta del comune a partire da un’interrogazione omessa dalla teoria economica dei beni comuni.

Quali sono, dunque, le condizioni capaci di attenuare il vincolo monetario al rapporto salariale e di favorire così lo sviluppo di forme di produzione alternative ai principi d’organizzazione sia del pubblico che del privato? Questa domanda richiede d’introdurre nella teoria del Comune il ruolo strutturante della moneta nei rapporti capitale-lavoro.

L’esame del rapporto tra moneta e comune necessita, di conseguenza, di partire da una critica della teoria dei beni comuni dalla quale la moneta, come il lavoro, sono curiosamente assenti. La ragione di quest’assenza si trova nel fatto che questa concezione naturalista dei beni comuni accetta implicitamente uno dei postulati fondatori della teoria economica standard, ovvero la neutralità della moneta, concepita come un semplice strumento tecnico che facilita gli scambi, e non come la cristallizzazione di un rapporto sociale di potere.

Su questa base, si tratterà di caratterizzare un approccio dinamico del comune al singolare nel quale la questione della moneta e delle mutazioni della divisione del lavoro occupa un posto centrale. Questo approccio fondato sulla triade lavoro-moneta-plusvalore servirà allora egualmente da filo conduttore per rianimare la controversia che aveva opposto Marx ai proudhoniani, precursori di un approccio della moneta come comune.

Infine, fonderemo il nostro ragionamento sulle teorie marxiane del circuito per mostrare che il carattere specificamente monetario del rapporto capitale-lavoro costituisce l’unico punto di partenza adeguato per una riflessione sulla moneta del comune. Questa riflessione farà emergere perché la nozione di reddito sociale garantito corrisponde ad un’istituzione del comune volta a rendere la creazione monetaria endogena non solo al capitale ma anche alla riproduzione autonoma della forza lavoro.

1. Lavoro e moneta : per una critica della teoria economica dei beni comuni

Il capitalismo si presenta come un’economia monetaria di produzione e di sfruttamento del lavoro. Pertanto, le forme di regolazione della moneta costruite attorno al funzionamento del denaro in quanto capitale costituiscono i pilastri istituzionali dell’accumulazione e della riproduzione della scissione costitutiva della società capitalista: il rapporto capitale-lavoro.

Quindi, se non si vuole pensare il comune come una semplice enclave, ma come il fondamento di una formazione sociale alternativa al capitale, porre la questione dello statuto e del modo di regolazione della moneta diventa inevitabile. La sua importanza risulta dal doppio carattere della moneta: allo stesso tempo ricchezza astratta, oggetto di appropriazione privata e forma di socializzazione dell’attività produttiva degli individui. Sotto vari aspetti, la moneta rientra nel campo di ciò che potremmo qualificare come il Comune dei Comuni. Sono infatti le forme di governance intessute attorno alla moneta (modalità di creazione e di accesso, fondamenti del suo valore, ecc.) che condizionano in modo determinante il tipo di legame sociale, così come i meccanismi che reggono l’allocazione delle risorse, permettendo di rispondere alle domande fondamentali dell’economia politica, ovvero: chi decide che cosa bisogna produrre? In che modo? Per quali finalità sociali?

Su queste basi, il nostro approccio del comune al singolare si differenzia dunque profondamente da quello della teoria economica dei beni comuni, nel senso in cui, in quest’ultima, il comune non può essere pensato che nei termini di un’alternativa locale e marginale rispetto alle logiche dominanti dello Stato e del mercato, del pubblico e del privato.

La concezione dei beni comuni di Hess e Ostrom (Ostrom, 1990, Hess e Ostrom, 2007) rimane infatti per vari aspetti nel solco di due approcci maggiori della teoria economica standard. Da una parte, in continuità con la teoria samuelsoniana dei beni collettivi e dei fallimenti del mercato, tale concezione resta centrata sui criteri di rivalità e di escludibilità, per caratterizzare la natura dei diversi beni (Laval, 2011). La novità consiste nell’introdurre, in aggiunta ai beni pubblici (non rivali e non escludibili) e ai beni privati puri, una nuova categoria che associa rivalità e non escludibilità, come, ad esempio, i comuni fondiari. D’altra parte, nel prolungamento della teoria dei diritti di proprietà efficaci di North, questa concezione si propone di mostrare che per questi tipi di beni possono esistere forme di governance e di proprietà distinte dal pubblico e dal privato. Nonostante questo sforzo innovatore, la teoria economica dei beni comuni non si emancipa veramente da una visione secondo cui esisterebbe una sorta di demarcazione spontanea, in funzione della natura dei beni, tra le rispettive sfere del pubblico, del privato e del comune. Anche quando si afferma, con Ostrom ad esempio, che il comune è socialmente istituito da regole e forme di governance ben precise, si considera sempre che soltanto una categoria ristretta di beni (fondiari e informazionali[1]) ha veramente vocazione, date le sue qualità intrinseche, ad accedere a questo modo di governance.

La riflessione sulla natura di questi beni e risorse cancella anche, in modo significativo, ogni analisi reale sul lavoro che ne assicura la produzione o la riproduzione.

Infatti, non solo nessun bene è destinato, per le sue qualità intrinseche, a diventare oggetto di un modo di gestione in particolare, ma le teorie dei beni collettivi e comuni trascurano totalmente le forme di produzione che stanno all’origine di questi beni. Soprattutto, esse non rimettono mai in questione l’egemonia del modo di produzione “privato”, considerando di fatto il pubblico come un rimedio ai fallimenti del mercato ed il comune come un’eccezione. In questo senso, la teoria dei beni comuni si situa al confine tra pubblico e privato e non propone un paradigma alternativo ai fondamenti neoclassici della rappresentazione dell’economia.

Nel quadro della teoria dei beni collettivi, di cui la teoria dei beni comuni si rivendica come uno dei prolungamenti (Hess e Ostrom, 2007), la moneta conserva le funzioni neutre alle quali la teoria neoclassica la condanna. Il fatto è che qui la moneta non è mai colta come espressione di un rapporto sociale di produzione nel quale le attività del lavoro accedono alla loro esistenza sociale solo per mezzo dello scambio delle merci. Essa è concepita unicamente come strumento di scambio, tutt’al più come mezzo per saldare un debito (cartalismo).

Insomma, la questione della moneta e quella dello statuto della forza lavoro, in quanto merci fittizie, non sono mai affrontate. E quando in alcuni lavori, che s’ispirano parzialmente al contributo teorico di Ostrom e di Hess, viene introdotta la moneta, ciò avviene tutt’al più nei termini di una moneta complementare o alternativa a livello di una località, di una comunità, di una rete o di una categoria di beni specifici[2].

Non si propone mai alcuna riflessione sulla relazione tra la moneta e la natura dei rapporti sociali di produzione da cui dipende, tuttavia, a livello macroeconomico e sociale, la gerarchia e l’articolazione delle sfere del privato, del pubblico e del comune. Lo stesso avviene riguardo alle mutazioni del lavoro legate alla crescita della sua dimensione cognitiva e relazionale, malgrado il ruolo crescente di tali mutazioni nella produzione del comune, attraverso i beni informazionali e le produzioni dell’uomo attraverso l’uomo (Hardt e Negri, 2010).

Dobbiamo pensare il comune al singolare[3] come una costruzione sociale e una forma d’organizzazione della produzione in grado di divenire dominante. Non si deve partire dal contenuto dei beni prodotti, ma dalle forme del lavoro produttore di questi beni. Sono infatti i modi di cooperazione del lavoro collettivo che producono il comune che si tratta di liberare dalla morsa della formula generale del capitale : D e D’ non possono più formare il punto di partenza ed il punto d’arrivo della produzione del Comune.

Non esiste infatti alcun bene che, in virtù di caratteristiche naturali proprie legate al suo valore d’uso, non sia destinato ipso facto, nel senso della teoria economica convenzionale, ad una soltanto delle sfere dell’economia (il pubblico, il privato o ancora, il comune) e ad una forma corrispondente di cooperazione e di appropriazione del prodotto del lavoro.

Il comune può concernere ogni tipo di bene[4], anche se ciò non significa affatto che si debbano trascurare i problemi particolari di regolazione che si dànno nella gestione di un dato bene. Tuttavia, è l’approccio stesso della teoria dei beni comuni, il quale procede dalla natura intrinseca dei beni al loro modo di gestione (pubblico, privato o comune), che deve essere invertito.

Si tratta di partire dalle mutazioni del lavoro, per pervenire alle caratteristiche dei prodotti, sapendo che il loro valore d’uso ed i bisogni che debbono soddisfare non hanno niente di naturale, ma sono il risultato storico dei rapporti sociali che si intrecciano attorno alle forme d’organizzazione della produzione e del consumo.

In breve, è il modo di cooperazione sociale del lavoro, la sua capacità di organizzarsi in modo alternativo rispetto alle logiche del capitale e dello Stato, che determina in ultima istanza la propensione di una serie di beni o di risorse ad essere gestita secondo i principi del comune.

Ora, come vedremo, questa capacità d’autorganizzazione del lavoro che è il presupposto del comune dipende da due fattori strettamente legati e sistematicamente evacuati dalle teorie dei beni comuni:

a)              dai meccanismi di regolazione della moneta e di accesso ad un reddito in grado di rafforzare oppure di attenuare il vincolo monetario al rapporto salariale, condizionando la possibilità di sviluppare forme di cooperazione produttiva alternative al lavoro salariato.

b)             dalla natura dei rapporti antagonisti di sapere e di potere che strutturano, in un dato momento, il livello di sviluppo della divisione del lavoro e le modalità della sussunzione del lavoro al capitale (formale, reale, general intellect).

2. Marx critico di Proudhon: prima polemica sulla moneta del comune

Alcuni di questi elementi metodologici che consistono nell’articolare la moneta con la divisione del lavoro si trovavano già nelle critiche che Karl Marx rivolgeva alla proposta di Proudhon di creare una moneta di credito gratuita formulata in ore di lavoro. La riforma di Proudhon aveva l’ambizione d’indebolire i rapporti di produzione dominanti, aumentando il finanziamento della produzione mercantile artigianale. L’emissione di moneta-lavoro da parte di una Banca popolare volgeva infatti nella direzione di attribuire immediatamente al lavoro del produttore individuale la sua qualità di lavoro sociale. Il fatto è che Proudhon ed i suoi discepoli deploravano il privilegio che i metalli preziosi possedevano nella circolazione delle merci. Erano convinti che i tassi d’interesse elevati, in particolare in periodo di crisi, non fossero dovuti che ad una specie di monopolio dei detentori di denaro metallico sui mezzi di pagamento della società. Permettendo al produttore di scambiare direttamente il prodotto del suo lavoro contro il suo equivalente monetario espresso in ore di lavoro, si sarebbero abolite le pretese dei detentori di moneta, fino a che il tasso d’interesse non fosse crollato fino allo zero. Non si trattava dunque solamente di realizzare l’eutanasia del rentier, come per Keynes, ma di permettere al produttore di riscuotere l’integralità del prodotto del suo lavoro sotto forma di buoni di scambio. Così, lavoro e moneta del Comune sarebbero stati una cosa sola, poiché tutti i prodotti del lavoro privato avrebbero fatto vece di moneta.

In realtà, la riforma immaginata da Proudhon poggiava su di un modo di produzione mercantile semplice, allorquando il progresso della divisione del lavoro e l’estensione del modo capitalistico di produzione tendevano a marginalizzarla (Dardot e Laval, 2012). Così, l’introduzione del credito gratuito avanzato in moneta-lavoro non avrebbe potuto concernere che una piccola frazione di popolazione attiva, che si sarebbe riprodotta ai margini dell’egemonia crescente della produzione capitalistica. La riforma lasciava completamente intatto il fondamento del potere monetario del capitale sul lavoro, ovvero la logica sistemica attraverso la quale il lavoro è obbligato a «mettere in vendita, come merce, la sua stessa forza-lavoro, che esiste soltanto nella sua corporeità vivente» (Marx, 1994, vol. I, p. 201). In questo quadro, il progetto mutualista del credito gratuito avrebbe piuttosto rischiato di spianare la strada ad operazioni di recupero e di divisione politica, come quella preconizzata da Napoleone III al momento dell’instaurazione delle casse di risparmio popolare (Lucarelli, 2013).

Per di più, secondo Marx, nella misura in cui l’emissione di una moneta-lavoro tornava a conferire a tutte le merci qualità di moneta, essa negava ben più del potere finanziario che risultava dal monopolio dei metalli preziosi e da quello del capitale sul lavoro dell’operaio: negava l’essenza stessa della moneta. Perché che cos’è la moneta, se non il rappresentante oggettivo del valore e quindi del tempo di lavoro sociale coagulato nella merce? Se gli individui scambiano i prodotti del loro lavoro contro moneta, ciò avviene proprio perché essi non producono immediatamente del lavoro sociale. Perciò, nelle condizioni della produzione mercantile, la qualità del lavoro sociale s’incarna necessariamente in una forma oggettiva di lavoro, merce o moneta.

Ora, non soltanto una moneta misurata in ore di lavoro sopprime la differenza – immanente all’economia di mercato – tra prezzo e valore, e dunque suppone un equilibrio tra offerta e domanda, tra produzione e consumo. Non soltanto, diversamente dalla moneta classica, essa ignora lo sviluppo della produttività del lavoro che farebbe sì che si apprezzasse costantemente il suo potere d’acquisto e che continuamente si appesantirebbero gli oneri finanziari dei debitori. Essa nega, più fondamentalmente, il carattere particolare dell’organizzazione del lavoro sociale nella produzione mercantile, nella quale il lavoro non si scambia mai direttamente con il lavoro, ma dove le attività produttive si combinano tra di esse indirettamente attraverso lo scambio dei prodotti del lavoro come merci, e accedono così all’esistenza del lavoro sociale (Marx, 1980).

É in questo senso che Marx qualificava come utopica una riforma che tentasse d’abolire i caratteri fondamentali della produzione mercantile, mentre conservava la forma di scambio corrispondente a questo modo di produzione. Questa riforma consisteva infatti nell’evitare gli inconvenienti di un modo di produzione basato sullo scambio monetario, semplicemente modificando lo strumento di scambio e l’unità di misura delle merci. A questo punto, la riforma avrebbe toccato solo una frazione poco considerevole della produzione sociale e ne avrebbero beneficiato solo un piccolo numero di produttori indipendenti; inoltre la Banca si sarebbe interposta nei loro mutui scambi comprando e vendendo i loro prodotti contro moneta-lavoro. Oppure la riforma avrebbe riguardato la totalità degli scambi sociali, nel qual caso essa avrebbe necessitato di una trasformazione subitanea dei rapporti di produzione esistenti. «Se ogni trasformazione in tal senso della circolazione stessa presupponesse a sua volta trasformazioni delle altre condizioni di produzione e rivolgimenti sociali, crollerebbe naturalmente a priori questa dottrina, le cui artificiose proposte in materia di circolazione mirano da un lato ad evitare il carattere violento delle trasformazioni, dall’altro a fare di queste trasformazioni stesse non un presupposto, ma viceversa un risultato graduale della trasformazione della circolazione» (K. Marx, 1968, vol. I, p. 52). In realtà, una riforma monetaria di questo tipo farebbe della banca il compratore ed il venditore universali delle merci prodotte. Attraverso la sua politica d’emissione, sarebbe la banca, infatti, che deciderebbe a quali prodotti del lavoro attribuire la qualità di lavoro sociale, funzione che equivarrebbe a controllare la produzione stessa che sta all’origine di tali beni. Essa sarebbe così, come un gosplan, «il governo dispotico della produzione e l’amministratrice della distribuzione» (K. Marx, 1968, vol. I, p. 95).

Per tornare alla moneta del Comune, essa si distinguerebbe dai buoni di lavoro dei proudhoniani, circolando all’interno non di una comunità di produttori indipendenti, ma di una comunità di produttori che lavorano per cooperazione. In queste condizioni la sua emissione non potrebbe sconvolgere tanto i rapporti di produzione attuali, quanto velocizzare le mutazioni che intervengono nel quadro stesso di questi rapporti di produzione. In più, in quanto politica, cioè a dire in quanto azione cosciente e deliberata, l’emissione di una moneta del Comune significherebbe che la società tende a non sottomettersi più alla produzione sociale come fatalità estranea e indipendente dagli individui (fatalità che si manifesta con forza in particolare nelle crisi), ma al contrario tende a subordinare la produzione agli «individui e da essi controllata come loro patrimonio comune» (K. Marx, 1968, vol. I, p. 100). Tuttavia questo rovesciamento dei rapporti sconvolgerebbe la natura stessa delle istituzioni bancarie della società. In queste condizioni, infatti, la moneta del Comune non sarebbe più che una unità di conto emessa da un «ministero del bilancio della società lavoratrice collettiva» (K. Marx, 1968, vol. I, p. 95) e perderebbe la sua qualità monetaria di rappresentante universale del valore delle merci. In queste condizioni, l’auspicio di Proudhon sarebbe esaudito poiché il lavoro stesso diverrebbe moneta universale, ma a condizione che sia «fin dal principio non lavoro particolare, ma un lavoro generale», cioè a dire, che fosse posto «come un elemento della produzione generale» (K. Marx, 1968, vol. I, p. 116).

In breve, la critica marxiana al progetto proudhoniano, come lo dimostrerà anche il suo atteggiamento nei confronti della Comune di Parigi, non tiene ad un’opposizione statalista e centralizzatrice verso le forme mutualiste d’organizzazione, ma al pericolo che avrebbe costituito il loro incastro subalterno nelle logiche dominanti del capitale e dello Stato.

La questione cruciale per Marx stava nella maniera in cui, a differenza di un modo di produzione mercantile semplice in cui la moneta è un puro mezzo di scambio, il capitalismo costringe il lavoro nelle istituzioni di un’economia monetaria di produzione.

La logica del funzionamento del capitalismo è, infatti, molto diversa da quella incarnata dalla formula merce-denaro-merce (M-D-M) alla quale implicitamente rinvia il progetto di Proudhon. Certo, il circuito M-D-M continua a giocare un ruolo cruciale nella riproduzione allargata delle condizioni economiche e sociali dell’accumulazione del capitale. Il suo ruolo però non ha più nulla a che vedere con la figura del produttore indipendente, ma riguarda essenzialmente il circuito della riproduzione della forza lavoro, dove per M-D-M’ bisogna intendere la sequenza forza lavoro-salario-beni di consumo. In questo quadro, la riproduzione della forza lavoro è subordinata, tanto nella sua forma economica quanto nella sua esistenza concreta, alla formula generale del capitale (D-M-D’).

Di questa controversia tra Marx e Proudhon possiamo trarre ancora oggi un insegnamento importante. Solo partendo dall’asimmetria monetaria che costituisce il rapporto salariale, asimmetria dove la legge del valore non è altro che una variabile dipendente della legge del plusvalore, sarà allora possibile concepire l’idea di una moneta del comune: una moneta che non riposa sull’utopia dell’uguaglianza dei lavori privati, ma sulla messa in causa del vincolo monetario che a livello sociale definisce, nel senso di Marx, la sussunzione formale della forza lavoro al capitale e la norma del rapporto salariale.

3.              Dalla teoria del circuito alla problematica del comune

Il contributo della teoria del circuito permette di rinviare il rapporto capitale-lavoro all’asimmetria che oppone due classi sociali nelle condizioni del loro accesso alla moneta[5].

Da una parte, la classe dei capitalisti che, grazie alla proprietà dei mezzi di produzione e al controllo dei meccanismi della creazione monetaria, può accedere alla moneta indipendentemente dal suo lavoro e determinare il volume così come l’orientamento della produzione. Nel senso di Kaldor e Kalecki, questa classe guadagna ciò che spende e può controllare, di conseguenza, collettivamente, i meccanismi del suo indebitamento. Dall’altra parte, per accedere alla moneta e dunque ad un reddito, la classe dei salariati è costretta a vendere la sua forza-lavoro e a trovare un lavoro salariato presso la classe dei capitalisti. Essa dunque non spende che ciò che guadagna, e questo rapporto al reddito determina i limiti del suo accesso al credito e al consumo. Questo rapporto spiega anche il raddoppiarsi del potere del capitale sul lavoro che risulta dall’indebitamento salariale, anche nel caso di un’attenuazione speculativa delle condizioni d’accesso al credito di tipo subprime.

Notiamo che, da questo punto di vista, il principale “salto mortale” della merce è quello che deve operare la forza lavoro. Essendo costretta nel circuito del doppio mulinello la sequenza M-D (vendita della forza lavoroàsalario) da cui dipende l’accesso alla moneta della forza lavoro è, in prima istanza, una variabile che dipende dalle aspettative dei capitalisti riguardo al volume della produzione, e dunque dall’occupazione, ritenuti redditizi.

Ne risulta, da questo rapporto specifico all’economia monetaria di produzione, che la funzione di riserva di valore domina le condizioni della circolazione monetaria. Questa permette l’instaurazione della logica del plusvalore, in cui «la circolazione del denaro considerata come capitale è fine a se stessa» (K. Marx, 1994, Vol. I, 1994, p. 185). Come espresso chiaramente dalla formula generale del capitale di Marx (D-M-D’), la valorizzazione del capitale è un processo che non conosce limiti, nella misura in cui il suo obiettivo non è il valore d’uso, ma l’accumulazione della ricchezza astratta rappresentata dal denaro.

La merce e la produzione non sono, per il capitale, che dei semplici mezzi per raggiungere questo scopo, vale a dire l’accumulazione della moneta per se stessa, al fine d’aumentare senza sosta il potere di comando che la moneta gli conferisce sulla società e sul lavoro permettendogli, appunto, di appropriarsi in modo diretto o indiretto del plusvalore.

Va da sé che la riproduzione allargata del capitale deve fronteggiare un insieme di vincoli mercantili che pesano sullo sviluppo della produzione sociale. A dire il vero, il capitalismo ha sempre cercato, per mezzo del suo sistema di moneta e di credito, di oltrepassare i limiti che la legge del valore impone alla produzione del plusvalore. Già la lettera di cambio, autorizzando il trasferimento della merce nelle mani del compratore prima del suo regolamento effettivo in denaro, fu la molla principale di tutte le grandi crisi che hanno scosso l’industria inglese durante la prima parte del XIX° secolo. Ma è soprattutto dalla fine del sistema del tallone oro, che l’emissione monetaria non è più condizionata dall’ammontare delle riserve metalliche disponibili nelle casseforti delle Banche centrali e sembra dipendere interamente dalla domanda di credito del capitale. Ora, la creazione monetaria sotto forma di depositi a disposizione dei capitalisti consiste di fatto a prevalidare (de Brunhoff, 1979) una produzione futura, ma a condizione della chiusura del circuito monetario, il quale suppone esso stesso che il plusvalore prodotto sia veramente stato realizzato. Senza dubbio, la moneta è stata creata ex nihilo come equivalente di merci virtuali, ma essa non prova la sua esistenza d’equivalente generale, se non per mezzo della vendita effettiva delle merci prodotte. Si tratta certamente di una moneta endogena, ma nella misura in cui la sua creazione dipende dalla realizzazione del plusvalore, la moneta bancaria è endogena al capitale. Attraverso il monopolio della creazione monetaria, il capitale, come formulato da Robinson e Eatwell, «diventa padrone di risorse grazie alle quali i capitalisti diventano i padroni del lavoro» (Robinson e Eatwell, 1976, p. 21).

Così, il potere di controllo sulla creazione monetaria è, in ultima istanza, il fattore chiave che conferisce il potere sul lavoro e struttura i rapporti sociali, e questo non solo perché esso conduce alla proprietà dei mezzi di produzione, cioè a questo «dominium sulle cose [che] è anche un imperium sugli esseri umani» (Cohen 1927, p. 12. Citato da Gagnon 2011, p. 205). Si tratta anche e soprattutto del fatto che il dominium sulla moneta condensa e sintetizza questo potere (imperium) senza dover neppure passare attraverso la mediazione formale della proprietà delle cose. E questa essenza del potere della moneta trova il suo sviluppo concreto più ricco, diventa verità pratica, come direbbe Marx, nella congiuntura storica attuale, dove il potere della finanza va di pari passo con una smaterializzazione crescente dei mezzi di produzione sempre più incarnati nel corpo vivo della forza lavoro, cosa che – attraverso un autentico ossimoro – viene chiamato il capitale immateriale o intellettuale.

Benché le teorie del circuito mettano in evidenza l’asimmetria monetaria che struttura la riproduzione del capitalismo, esse tendono a privilegiare una visione statica e oggettivista dei vincoli monetari e mercantiliche condizionano la chiusura del circuito. Da una parte, i vincoli che pesano sulla realizzazione del plusvalore per ciò che concerne l’accumulazione del capitale; dall’altra, i vincoli che pesano sulla trasformazione della forza lavoro in salario, trasformazione la cui realizzazione è una variabile dipendente delle aspettative dei capitalisti riguardo al volume dell’occupazione redditizio. Rari sono tuttavia i contributi che hanno posto l’attenzione sulla maniera in cui l’immissione monetaria che dà impulso al circuito sia, in realtà, la prevalidazione di una serie di merci che deve ancora essere prodotta e, pertanto, di un plusvalore che non è ancora stato estratto.

Ora, solo l’introduzione di questo aspetto ci può condurre ad una visione dinamica, in grado di cogliere allo stesso tempo le mutazioni storiche della divisione del lavoro e delle forme del vincolo al rapporto salariale, da cui dipende la possibilità del comune. Infatti, l’acquisto e la vendita della forza lavoro si fonda sulla messa a disposizione di una quantità di tempo in cui il lavoratore si mette formalmente a disposizione del capitalista, e non sul lavoro effettivo dei salariati.

Ne deriva per il capitale un’incertezza strutturale che non riguarda solamente le condizioni dell’esecuzione del contratto di lavoro, ma fondamentalmente mette in evidenza terreno conflittuale dove le dimensioni economica e socio-politica dell’antagonismo capitale-lavoro sono indissociabili. In primo luogo, perché coloro che controllano e dettano i modi operatori possono anche determinare l’intensità e la qualità del lavoro. In secondo luogo, perché coloro che detengono i saperi produttivi possono aspirare a gestire la produzione, vale a dire ad autodeterminare l’organizzazione così come le finalità sociali del lavoro, ricostituendo la possibilità del comune come modo di produzione. Intendiamo, con ciò, un modo di cooperazione che reintroduce la democrazia in seno alla produzione, in opposizione con il principio gerarchico che caratterizza tanto l’azienda capitalista, quanto la logica burocratica del pubblico. Più precisamente, estendendo all’insieme dei beni la bella definizione che Benkler utilizza per i beni comuni informazionali, «la produzione si basa su dei beni comuni quando nessuno esercita dei diritti esclusivi per organizzare il lavoro e appropriarsi del valore creato, e quando la cooperazione si realizza attraverso dei meccanismi sociali altri rispetto ai prezzi e alle direttive del management» (Benkler, 2004, p. 1110).

L’importanza di questa dinamica conflittuale relativa al controllo delle potenze intellettuali della produzione spiega perché lo sviluppo della divisione capitalista del lavoro, in seguito alla prima rivoluzione industriale, abbia consistito nel tentativo di svuotare, il più possibile, il lavoro dalla sua dimensione cognitiva, per trasformarlo nel suo contrario: un’attività meccanica, ripetitiva, impersonale e totalmente asservita alla scienza incorporata nel capitale fisso. É così che nello sviluppo del capitalismo industriale, la sussunzione formale si combina con la la logica della sussunzione reale del lavoro al capitale: essa punta non solo a ridurre l’incertezza sull’esecuzione del contratto di lavoro, ma soprattutto a rendere inconcepibile per la forza lavoro l’idea stessa del comune nella produzione (come prodotto della cooperazione volontaria della forza lavoro), in ragione, in particolare, del carattere ormai inappropriabile, come l’aveva un tempo pensato Gorz, « della massa dei saperi, necessariamente specializzata, che combina la produzione sociale » (Gorz, 1988).

Tuttavia, questa tendenza, che ha trovato per vari aspetti il suo completamento storico nel modello della grande impresa manageriale all’epoca dell’economia mista, rimarrà sempre imperfetta. Inoltre, un nuovo tipo di sapere tenderà in modo incessante a ricostituirsi al livello più elevato dello sviluppo della divisione tecnica e sociale del lavoro. Nella congiuntura storica che ha condotto alla crisi del fordismo, questa dinamica si è espressa attraverso i conflitti che hanno condotto alla formazione di un’intellettualità diffusa e allo sviluppo dei servizi collettivi del Welfare-State (sanità, educazione, ricerca) al di là delle compatibilità della regolazione fordista (Monnier e Vercellone, 2010). Le condizioni alla base dello sviluppo di un’economia fondata sul ruolo motore e la diffusione del sapere sono così state poste, secondo una dinamica che sembra realizzare numerose tendenze contenute nell’ipotesi marxiana del general intellect[6].

Ora, l’instaurazione di un’economia fondata sulla conoscenza precede e si oppone, tanto da un punto di vista logico quanto storico, alla formazione del capitalismo cognitivo e finanziarizzato. Ques’ultimo è il risultato di un processo di ristrutturazione attraverso il quale il capitale tenta, in modo parassitario, di assorbire e di sottomettere alla sua logica le condizioni collettive della produzione dei saperi, soffocando il potenziale di emancipazione iscritto nella società del general intellect. In questo quadro, la posta in gioco centrale della valorizzazione del capitale e delle forme di proprietà si fonda sempre più sull’espropriazione (rentière) del comune e sulla trasformazione della conoscenza in una merce fittizia (Negri e Vercellone, 2008).

É così che nel nuovo capitalismo la dimensione monetaria del rapporto di subordinazione del lavoro al capitale diviene tanto più vera e cruciale che la crescita in potenza della dimensione cognitiva del lavoro permette alla cooperazione produttiva di organizzarsi in modo autonomo rispetto alla direzione del capitalista. Certo, niente garantisce il passaggio dell’autonomia potenziale all’autonomia reale della forza lavoro. Tuttavia, sul piano del processo lavorativo sociale, la sussunzione del lavoro al capitale ridiventa principalmente formale. In modo significativo, essa va di pari passo con un formidabile rafforzamento del vincolo monetario al rapporto salariale, realizzato in particolare attraverso la destabilizzazione delle garanzie del Welfare ed attraverso una precarizzazione crescente delle condizioni di remunerazione e di impiego. Allo stesso tempo, tutto avviene come se al movimento di autonomizzazione della cooperazione del lavoro corrispondesse un movimento parallelo di autonomizzazione del capitale nella forma astratta, eminentemente flessibile e mobile del capitale-denaro. Il potere del capitale sulla società sembra riposare sempre più sul controllo dei meccanismi monetari e finanziari, e ciò spesso senza più esercitare alcuna funzione reale necessaria all’organizzazione del processo di produzione.

É a questo livello di sviluppo della divisione del lavoro, nel quale l’emergere di un’intelligenza collettiva va di pari passo con il rafforzamento del vincolo monetario al rapporto salariale, che si pongono oggi le condizioni per pensare il comune.

4.              Il reddito sociale garantito come reddito primario e istituzione del comune 

Dall’analisi delle asimmetrie che strutturano il capitalismo come economia monetaria della produzione, ci è possibile delineare la posta in gioco principale di ciò che dovrebbe essere una moneta del comune: una moneta endogena alla riproduzione della forza lavoro perché attenuerebbe il vincolo monetario al rapporto salariale, assicurando allo stesso tempo la validazione sociale delle ricchezze prodotte da forme di produzione e di soddisfacimento dei bisogni alternativi ai rapporti mercantili.

Notiamo che, prima della svolta monetarista e dell’instaurazione delle autonomie delle banche centrali, la regolazione amministrata keynesiana dell’offerta di moneta aveva permesso, sotto forma di un compromesso istituzionalizzato, lo sbocciare di alcune di queste dimensioni. In particolare, il legame tra Banca Centrale e Tesoro pubblico aveva autorizzato una monetizzazione dei conflitti sociali, favorito il finanziamento del salario socializzato e dei servizi collettivi del Welfare (Chesnais, 2011, p.31)[7].

Si tratta senza dubbio di una delle ragioni che spiega perché la resistenza allo smantellamento del pubblico sia tanto il terreno di nostalgie stataliste quanto uno dei terreni fondamentali di elaborazione della problematica del comune (Negri, 2012).

In questo quadro, la proposta di un reddito sociale garantito incondizionato ed indipendente dal lavoro salariato è quella che ci sembra maggiormente incarnare una nuova tappa di socializzazione dell’economia. Essa s’iscrive in un progetto di società e di demercantilizzazione dell’economia in cui il rafforzamento dei diritti collettivi legati al sistema di protezione sociale (pensioni, sanità, sussidio disoccupazione, ecc.) andrebbe di pari passo con il passaggio da un modello di Welfare-State ad un modello di commonfare.

In effetti, analogamente alla tematica del comune, la riflessione attorno alla proposta di un reddito sociale garantito (RSG)[8] attraversa sempre più il dibattito sulle alternative alla crisi del capitalismo cognitivo e finanziarizzato. Tuttavia, la maggior parte delle formulazioni del RSG restano ancorate ad una concezione che ne fa un reddito secondario relativo alla redistribuzione ed alla gestione statuale classica dello Stato-provvidenza[9].

Nel nostro approccio, il RSG deve, al contrario, allo stesso tempo essere pensato come una istituzione del comune ed un reddito primario per gli individui, vale a dire un reddito che risulta direttamente dalla produzione e non dalla redistribuzione. Queste due dimensioni, reddito primario e istituzione del comune, sono peraltro strettamente intrecciate tanto sul piano dell’organizzazione della produzione, quanto su quello dello statuto della moneta e del modo di distribuzione.

Un reddito primario dunque, perché la proposta del RSG riposa su di un riesame ed un’estensione del concetto di lavoro produttivo che si tratta di prendere in considerazione alla luce di due dimensioni[10].

La prima concepisce il lavoro produttivo, secondo la tradizione dominante nell’economia politica, come il lavoro che produce del valore e del plusvalore. Si tratta qui della constatazione secondo cui assistiamo, oggi, ad un’estensione importante dei tempi di lavoro, al di fuori della giornata ufficiale di lavoro, che sono direttamente o indirettamente implicati nella formazione del valore captato dalle imprese. A questo proposito, il RSG corrisponderebbe, in parte, alla remunerazione sociale di questa dimensione sempre più collettiva di un’attività creatrice di valore, che si estende sull’insieme dei tempi sociali, dando luogo ad un’enorme massa di lavoro non riconosciuta e non retribuita. E’, peraltro, importante notare come questo aumento del lavoro non pagato si apparenti, in forme inedite, con un aumento del plusvalore assoluto che risulta dalla combinazione di due tendenze maggiori. Da una parte, proviene dalla maniera stessa in cui la pressione congiunta della precarietà e delle nuove forme di management della soggettività enfatizza, a vantaggio delle imprese, un tratto intrinseco del lavoro cognitivo: quello di essere un’attività di produzione, di riflessione e di scambio di saperi che si svolge tanto fuori quanto durante l’orario contrattuale di lavoro. D’altra parte, proviene anche dal ruolo crescente del lavoro del consumatore e specialmente dall’appropriazione privata del lavoro gratuito effettuato da una moltitudine d’individui sulle reti del Web. Il capitale, attraverso soprattutto un piccolo numero di grandi imprese americane, è in realtà arrivato a controllare una gran parte dell’infrastruttura materiale ed immateriale di internet (Baronian, 2011), espropriando questo spazio del comune e trasformando in merci le creazioni e le identità numeriche degli utilizzatori.

Contro la tradizione della teoria economica, per contro, la seconda dimensione rinvia al lavoro produttivo concepito come lavoro produttore di valori d’uso, fonte di una ricchezza che sfugge alla logica mercantile e a quella del lavoro salariato subordinato. In questa prospettiva, il RSG corrisponderebbe simultaneamente alla validazione sociale e ad un mezzo di finanziamento di questa rete densa di attività non mercantili che la società del General Intellect crea, al di là del salariato. Si tratta, insomma, di rompere con l’identificazione storica abusiva che il capitalismo ha stabilito tra lavoro e lavoro-salariato e, con essa, tra lavoro salariato e diritto al reddito. Detto altrimenti, si tratta di affermare che il lavoro può essere improduttivo di capitale, ma ciononostante produttivo di ricchezze non mercantili e perciò, trovare la sua contropartita in un reddito. Questo è peraltro il caso, da un punto di vista strettamente teorico, per le attività realizzate in seno ai servizi pubblici che producono ricchezza e non valore. Il carattere incondizionato del RSG si distingue, tuttavia, in modo radicale, dal salario versato agli impiegati di questi servizi, perché non si fonda né su di un lavoro dipendente, né tantomeno implica da parte dei beneficiari una qualunque dimostrazione di utilità sociale della loro attività. Anche in questo senso, il RSG non attiene alla sfera pubblica, quella della «burocrazia professionale» e del coordinamento amministrativo, ma al comune. Esso presuppone un’attività creatrice di ricchezze ed una cooperazione produttiva che si sviluppa a monte ed in modo autonomo rispetto alle logiche amministrative e del privato, anche quando le attraversa e contribuisce alla loro riproduzione.

Esiste, infatti, un rapporto complesso, fatto allo stesso di tempo di antagonismo e di complementarietà, tra queste due forme di lavoro produttivo. Nel capitalismo cognitivo, l’espansione del lavoro libero che produce il comune, va infatti spesso di pari passo con la sua subordinazione al lavoro sociale produttore di valore, in ragione stessa delle tendenze che spingono verso uno sfumarsi della separazione tra lavoro e non lavoro, sfera della produzione e sfera della riproduzione.

L’instaurazione di un RSG, non solo riconoscerebbe questa seconda dimensione del lavoro produttivo, ma soprattutto favorirebbe la sua emancipazione dalla sfera della produzione del valore e del plusvalore. In quest’ottica, l’attenuamento del vincolo al rapporto salariale consentito dal RSG, più ancora che una riduzione del tempo legale di lavoro, permetterebbe agli individui di ritrovare il controllo del loro tempo e la gestione delle attività che non hanno altra finalità che in se stesse. Costituirebbe così un vero investimento sociale e una liberazione di energie creative per assicurare, per esempio, la riproduzione dei comuni informazionali e della conoscenza, di cui lo sviluppo è stato sensibilmente ostacolato dalla mancanza di tempo di cui sono affetti i lavoratori cognitivi (Aigrain, 2008).

Il RSG si presenta così su più punti come un’istituzione del comune al servizio del comune. Prima di tutto, perché il RSG non attiene alla sfera pubblica ma corrisponde « in fin dei conti, alla messa in comune di una parte di ciò che è prodotto in comune, deliberatamente o no » (Gorz, 2003, p.101) e ciò, al di fuori di ogni logica contributiva che cercherebbe un rapporto di misura e proporzionalità tra sforzo individuale e diritto al reddito. In questa prospettiva, seguendo la tradizione mutualista all’origine del sistema di protezione sociale in Francia, le risorse raccolte per finanziare il RSG potrebbero essere messe in una cassa comune gestita direttamente dai lavoratori.

In secondo luogo, il RSG, in quanto reddito primario, presuppone e rilancia lo sviluppo del comune stesso. Lo rilancia nella misura in cui favorirebbe l’esodo dal lavoro salariato e lo sviluppo di forme di cooperazione fondate su regole di coordinazione distinte da quelle del pubblico e del mercato. Lo presuppone nella misura in cui la sua instaurazione implica dei meccanismi di risocializzazione della moneta e dei redditi che rendono la riproduzione della forza lavoro indipendente dalla circolazione del denaro in quanto capitale[11].

Conclusione

In quanto prodotto dello scambio delle merci, la moneta è l’espressione di un rapporto sociale tra produttori privati indipendenti, individui, comunità e imprese capitaliste. Qualsiasi sia dunque la forma e le condizioni di circolazione della moneta, la sua presenza significa che l’attività dei produttori acquisisce il suo carattere di lavoro sociale in modo indiretto, per mezzo dello scambio dei prodotti del lavoro come merci. É possibile che una forma monetaria attenui alcuni dei vincoli posti dalla produzione capitalista, ma le contraddizioni che la moneta del comune vuole superare sono destinate a rinascere in un modo o nell’altro, e ciò fintanto che le trasformazioni del modo di produzione attuale saranno limitate alla sfera della circolazione. Tali trasformazioni, tuttavia, potrebbero accelerare ed orientare le mutazioni in corso del lavoro sociale, favorendo l’attenuamento del vincolo al rapporto salariale ed un’articolazione altra tra comune, pubblico e privato. In questo senso, in due modi almeno, la proposta del RSG si smarca dall’ipotesi proudhoniana del credito gratuito.

In primo luogo, il RSG va al di là della semplice prospettiva di una democratizzazione del credito, per pensare la moneta del comune come uno strumento che può attenuare, per l’insieme della forza lavoro, il vincolo al rapporto salariale. Esso non si attacca, infatti, al salto mortale della merce, ma a quello della forza lavoro, per rompere il circolo vizioso che fa della sua vendita la condizione di accesso al reddito. Certo, attenuando il vincolo al rapporto salariale, il RSG può anche giocare il ruolo di una sorta di forma di credito gratuito che permetterebbe di democratizzare l’economia di mercato, offrendo più autonomia alla produzione mercantile semplice rispetto al capitale. Ma è soltanto in un modo accessorio che la garanzia di un reddito sufficiente può ugualmente favorire l’accesso allo statuto di produttore privato indipendente. Il suo primo ruolo è quello di sostenere, non il produttore individuale e la sua merce, ma l’intellettualità diffusa nella sua attività collettiva di produzione non mercantile.

In secondo luogo, il credito, anche quando è attribuito gratuitamente, implica una doppia condizionalità, portatrice di un rapporto di dipendenza: quella legata all’esame stesso della viabilità mercantile del progetto produttivo che è l’oggetto di una domanda di credito, e quella legata all’estinzione successiva del debito prodotto dalla creazione iniziale di moneta. Il RSG rompe questa logica di dipendenza legata al credito e al debito, perché il suo carattere incondizionato è anche il mezzo per assicurare l’autonomia delle attività che partecipano alla costruzione sociale del comune.

 

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Monnier J.-M., Vercellone C. (2007), « Travail, genre et protection sociale dans la transition vers le capitalisme cognitif », European Journal of Economic and Social Systems, Volume 20 – n° 1/2007, pp.15-35

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Negri A. (2012), A proposito di costituzione e capitale finanziario, intervento al seminario Uninomade a Roma 26/10/2012, http://www.uninomade.org/costituzione-e-capitale-finanziario/

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Ostrom, E., 2010, Gouvernance des biens communs. Pour une nouvelle approche des ressources naturelles, Bruxelles, De Boeck (éd. orig. Cambridge University Press, 1990).

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Samuelson, Paul A., 1954, “The pure theory of public expenditure”, The Review of Economics and Statistics, vol. 36, n° 4, nov., p. 387-389.

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Vercellone C. (2007), «From Formal Subsumption to General Intellect: Elements for a Marxist Reading of the Thesis of Cognitive Capitalism», in Historical Materialism, Volume 15, Number 1, pp. 13-36..

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[1] Per una presentazione molto chiarificante dei lavori di Ostrom e di Hess sui comuni fondiari ed informazionali, cf. anche Coriat (2011).

[2] Su questa base, la moneta viene considerata come un bene rivale, ma non escludibile, al quale possono essere applicati gli otto principi di governance definiti da Ostrom per i comuni fondiari (Cornu, 2012)

[3] Con questa espressione facciamo riferimento in particolare alla problematica elaborata nel quadro del seminario « Du public au commun » http://dupublicaucommun.com/presentation-du-projet/.

[4] Il contrario è altrettanto vero, cioè che nessun valore d’uso sfugge in quanto tale alla sfera della produzione mercantile e del profitto, come mostrato dalla presa crescente che il capitale esercita su tutta una serie di beni pubblici, come per esempio la conoscenza. Su questo aspetto, cf. anche il contributo di Harribey (2011).

[5] La teoria del circuito è un prolungamento dell’approccio in termini di economia monetaria della produzione. La sua genesi risale a Karl Marx e fa della moneta il primum movens della produzione capitalista delle merci. Sviluppando questa concezione, lo stesso Keynes, nei suoi scritti preparatori alla Teoria Generale, farà esplicitamente riferimento alla distinzione marxiana tra la logica di un’economia mercantile semplice fondata sul circuito M-D-M e la logica di un’economia capitalista fondata, questa, sulla formula generale del capitale D-M-D’. Così, come ricordato da Devillers (1985), in uno dei rari passaggi dove cita Marx, Keynes afferma che in una « Economia Monetaria della produzione », il punto di vista delle imprese è espresso dal circuito D-M-D’ (denaro-merce-denaro). Il circuito si apre con un’immissione di moneta da parte delle imprese per distribuire i salari o comprare materie prime, allo scopo di realizzare un profitto monetario, grazie alla vendita delle merci. Esso si chiude quando la moneta fa ritorno alle imprese, sia attraverso l’impiego del reddito per l’acquisto di beni di consumo, sia in contropartita dell’investimento. Questa visione, che costituisce anche il fondamento del principio della domanda effettiva, sarà oggetto di un importante tentativo di sistematizzazione e di formalizzazione teorica a partire dagli anni Settanta, con la formazione della teoria del circuito, mettendo in particolare l’accento sul ruolo motore della moneta di credito. Si sviluppa grazie all’impulso di due correnti principali : la prima, d’ispirazione perlopiù keynesiana e post-keynesiana (Schmitt, Parguez, Poulon, Lavoie) ; la seconda, dal fermo riferimento marxista (Graziani, Messori, Bellofiore). Per una messa in prospettiva storica e teorica di quest’ultima corrente, cf. Graziani (1994) e Realfonso (2006).

[6] Per una caratterizzazione approfondita del senso di questa categoria nel pensiero di K.Marx, cf Negri (1996), Baronian (2011) Vercellone (2007).

[7] Su questo punto, cf. anche le analisi anticipatrici di una problematica della moneta del comune sviluppate all’inizio degli anni Settanta da Christian Marazzi e Lapo Berti, nella rivista operaista « Primo Maggio » (Lucarelli, 2013).

[8] Declinata con diverse espressioni: reddito di base, allocazione universale, reddito di esistenza, reddito di cittadinanza, dividendo universale, ecc.

[9] Per uno sguardo sulla letteratura a questo proposito, cf. Vanderborght e Van Parijs (2005), Monnier et Vercellone (2007), Vercellone (2003)

[10] Cf. su questo punto Monnier e Vercellone (2007).

[11] Per una rassegna del dibattito sulle riforme suscettibili di condurre ad una risocializzazione della moneta, cf. Chesnais (2011), Lordon (2009), Vercellone (2013).

 

* Traduzione di Francesca Martinez Tagliavia. Si tratta di una versione leggermente modificata di un articolo che sarà pubblicato sulla rivista “Terrains/Théories” nell’autunno 2013.

Peers Inc, l’azienda peer-to-peer

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Dieci anni fa, Robin Chase fondò Zipcar negli Stati Uniti, divenuta ora la più grande società di car-sharing del mondo. Attualmente Robin sta analizzando il livello successivo al car-sharing: Buzzcar, una start-up francese che permette alla gente di noleggiare la propria auto ad altre persone. I dettagli sono affascinanti (come funziona l’assicurazione, esattamente?), e una visione più ampia (ciò che lei chiama Peers S.r.l.) mira ad una nuova definizione di proprietà e di imprenditorialità.

Oltre l’euro, la moneta complementare. Un’idea per uscire dalla crisi

di Alessio Mazzucco (EastJournal) – 9 aprile 2013

Banconote

Non avrai altra moneta all’infuori di me?

C’è chi odia l’euro, chi lo incensa. Dall’inizio della crisi dell’euro il dibattito continentale si è ancorato alla questione monetaria, considerata la chiave di volta della nostra Unione (ahimè, quanta aridità d’intenti!). Quel che si può fare è arricchire il dizionario (e il dibattito) politico europeo di un’altra istituzione al fianco della moneta unica, un’istituzione che risponda alle necessità dell’economia reale soffocata dalla crisi e dalla ristrettezza del credito: sto parlando della moneta locale, anche se sarebbe più corretto definirla complementare.

L’idea delle monete complementari non è nuova, né recente, ma affonda le radici nello studio della proposta keynesiana di Bretton-Woods, la creazione, cioè, di una moneta come unità di conto internazionale (il bancor) che misuri gli avanzi e i disavanzi commerciali dei paesi. Il fine ultimo: la compensazione multilaterale dei rapporti commerciali tra i paesi. La moneta complementare segue lo stesso principio.

Come funziona in sintesi

Si immagini un distretto industriale in cui operano A, B, C e D (quattro imprese collegate tra loro da scambi reciproci). Per semplificare descriverò un modello semplice. A cede beni a B, B a C, C a D e D ad A. Poniamo quindi una valuta come pura unità di conto, una misura che determini il valore degli scambi; si nomini l’unità di conto complemento e si ponga che abbia un rapporto con l’euro di 1:1. Lo scopo di questa valuta, del complemento, è misurare i rapporti di credito e debito tra le quattro imprese; in particolare, immaginando che scambino beni per un valore fisso di 10, si consideri A in credito verso B di 10 e in debito verso D di 10, e così via nella catena.

Ora, in un sistema monetario così come noi lo conosciamo, B dovrebbe ripagare A per 10 euro e dovrebbe ricevere da C 10 euro. Che i 10 euro vengano dalle proprie riserve liquide o da un prestito bancario (quindi un “acquisto” di moneta per 10 euro a fronte di interessi) non ha importanza: il nocciolo fondamentale è che nel sistema come noi lo conosciamo ci deve essere un passaggio di moneta per chiudere il rapporto economico aperto con lo scambio dei beni.

Cosa avviene in un sistema di moneta complementare? I crediti e i debiti delle quattro imprese non sono rapporti bilaterali (ovvero non si considera A in credito verso B per 10 complementi), ma sono considerati rapporti aperti con l’intera comunità delle quattro imprese (A è in credito di 10 complementi verso il distretto economico). Avviene così un passaggio di merci che non ha bisogno di un passaggio di moneta: i crediti e i debiti delle quattro imprese si compensano in quanto debiti e crediti nei confronti dell’intera comunità e non tra le singole imprese. In questo modello semplice, alla fine del ciclo di scambi, la compensazione dei rapporti economici riporta il sistema in una situazione di equilibrio, in cui nessuno ha debiti o crediti nei confronti di qualcun altro. Risultato: le quattro imprese hanno scambiato tra loro beni senza alcun passaggio di moneta euro, ovvero non hanno preso a prestito moneta col fine degli scambi (né dovranno pagare interessi corrispondenti).

Il modello semplificato permette di capire a grandi linee il funzionamento. La domanda che rimane è: a cosa potrebbe essere utile? E soprattutto: perché serve un altro tipo di moneta?

A cosa serve?

La moneta, secondo la teoria contemporanea, è quella merce che racchiude in sé tre funzioni: unità di misura (per tenere il conto dei rapporti economici di credito e debito); il mezzo di scambio o pagamento (per chiudere un rapporto pre-esistente); riserva di valore (ovvero una merce che può essere stoccata indefinitamente senza costi oltre l’inflazione). La teoria che sussiste alla moneta complementare definisce la moneta come un’istituzione appositamente creata per il funzionamento del mercato che svolge il ruolo di unità di misura (i 10 complementi di cui sopra) separatamente dalla funzione di mezzo di scambio. In breve, la moneta è innanzitutto unità di misura, e il mezzo di scambio è un qualsiasi bene o servizio che chiude il rapporto economico; nel caso del distretto industriale, il mezzo di scambio è propriamente la compensazione tra i rapporti.

La moneta complementare entra così nell’economia reale come alternativa (o appoggio) alle imprese soffocate dal sistema creditizio, quelle imprese, ad esempio, che non riescono ad accedere ai prestiti (propriamente l’acquisto di moneta a fronte di un pagamento d’interesse) non tanto per propria incapacità a produrre, ma per la stretta dei crediti nel sistema bancario.

Senza abbattere l’euro

Il rapporto con l’euro e con l’Europa? Nessuno vuole abbattere l’euro (o propone di farlo). Possiamo dirci europei ben al di là dell’appartenenza a un comune sistema monetario. La moneta complementare non vuole sostituirsi alla moneta unica, ma creare un sostegno all’economia reale, fornire strumenti alle imprese e ai distretti industriali per sfuggire alle maglie del sistema creditizio tradizionale. La moneta complementare è una semplice istituzione, uno strumento, nient’altro, che, dato in mano alle comunità sociali, politiche ed economiche che ne hanno necessità potrebbe rimettere in movimento il ciclo produttivo ed economico senza risentire degli attriti e delle distorsioni attuali dell’euro.

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Qualche esempio di sistema complementare attuale funzionante: Wir, Sardex

Creare il denaro dal nulla

Una descrizione sintetica di Domenico De Simone del meccanismo di generazione del denaro da parte del sistema bancario. L’intervento è tratto dall’intervista eseguita per il documentario: “A Baby in the Woods – Il sogno infranto di Ezra Pound”, del 2005.

Almeno 1200 catalani si autogestiscono con moneta, educazione e sanità propria

da 20minutos

Hanno una moneta propria. Hanno un sistema sanitario, una rete educativa e delle officine autogestite. Sono una cooperativa auto-gestita e auto-organizzata, in cui gruppi di persone vivono al di fuori del sistema, prendendo decisioni nelle assemble, basando l’organizzazione sulla fiducia. In Catalogna, ci sono già 1.200 cittadini che hanno scelto questo modo di vita e l’attuazione di queste comunità si sta diffondendo. La crisi e il movimento degli Indignados, ha dato loro la giusta spinta.

Ne la calle Sardenya di Barcellona, vicino alla Sagrada Familia, tre anni fa si era stabilita la Cooperativa Integral Catalana (CIC), nel centro Aurea Social. In un edificio di tre piani, con una tettoia e con un nuovo giardino urbano, si sono coordinati e si sono svolti varie attività come doposcuola, centri sanitari e alloggi, oltre a laboratori e corsi per tutte le età.

-Apre il primo CAPS
Il CAPS, per i membri della cooperativa, non è un ambulatorio ma un Centro de Autogestiòn Primaria de Salud. Vi si possono trovare persone “facilitadores de salud” che accompagnano i pazienti nel cercare soluzioni ai problemi di salute con la medicina generale. Non vi è gerarchia e e se vi sono problemi come fratture agli arti e cose del genere, “andiamo al pronto soccorso”, spiega Xavier Borrás, uno dei primi soci della Cooperativa.

In una delle camere spaziose e moderne del palazzo, si trova un asilo nido per i bambini di età compresa tra gli zero e i tre anni. I genitori si sono organizzati nel prendersi cura ed educare i figli. Oltre ai 30 € per registrarsi nella cooperativa (somma che viene ritornata qualora il partner lasciasse la cooperativa), non si dovranno pagare altri soldi. Si può pagare con le ore di lavoro o con l’ “ecos”, una moneta propria.

Si tratta di una “moneta libera”, che non è stampata e che serve per qualsiasi commercio che si vuole fare all’interno della rete o anche a coloro che forniscono servizi esterni alla rete, come per esempio da un’oculista o dagli agricoltori. Il CIC utilizza il sistema comunitario di scambio (Community Exchange System, CES), un software online per la gestione della moneta.

L’ “ecos” è la “moneta libera”, adottata dalla Cooperativa, dall’Ecoxarxes, Núcleos de Autogestión Local e Proyectos Autónomos de Iniciativa Colectivizada. Essa serve per acquistare prodotti 100% ecologici, oltre a pagare il dentista, parte del canone di locazione sociale o l’asilo per i bambini. Ogni eco è equivalente ad un euro circa. Un membro attivo della Cooperativa spiega che si può vivere con circa 150 ecos-base al mese. Col termine “base” si definiscono i prodotti che si vogliono condividere quel mese. Con questo contributo, si paga il cibo e si da un contributo volontario al sistema sanitario pubblico autogestito.

Tra queste caratteristiche, vi è anche un ufficio per la casa, dove si consigliano le azioni da usare a coloro che rischiano lo sfratto. Essi vengono informati delle lacune esistenti nel sistema in modo da trarne beneficio. Si sta incoraggiando l’affitto sociale e le “masoveries urbanes”, una formula che viene a recuperare la figura catalana del “Masover”, una persona o una famiglia che vive e gestisce una casa di campagna che è di proprietà di un altro.

-In conclusione
“Non cerchiamo di andare contro il sistema, ma di andare fuori dal sistema”, spiega Borras. Dopo anni di proteste, “ora è il momento di agire”, continua a chiarire questo storico membro del CIC, che era nato con un centinaio di membri e che è aumentato di 12 volte. L’organizzazione ha ricevuto impulso dall’attivista Enric Duran, il Robin Hood delle banche.

Questo sistema è in espansione in tutta la Catalogna e nella penisola, oltre che in Italia e in Francia.

(tradotto da NexusCo)

Avoiding Economic Collapse: A Guide to Complementary Currencies

 

As the Cyprus fiasco focuses attention once again on the faltering Euro, the public is finally questioning the value of the money in their wallets and bank accounts. But as the issue of monetary reform gains currency amongst the public, a vast array of complementary currencies are already helping people facilitate transactions without the central bank administered fiat money. Find out more in this week’s GRTV Backgrounder on Global Research TV.

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