Bitcoin, la fine del tabù della moneta

di Denis Jaromil Roio, SanPrecario – 03/01/2014

Il Bitcoin è diventata negli ultimi mesi una delle criptomonete più note, anche in seguito allbicoinLe ampie oscillazioni della sua quotazione in dollari. In questo articolo, uno dei più importanti studiosi di monete digitali e dei relativi algoritmi spiega l’origine e le caratteristiche del Bitcoin. L’articolo originale, in inglese, dal titolo: Bitcoin, the end of the Taboo on Money, è tratto da the Dyndy.net article series:  http://jaromil.dyne.org/writings. Siamo grati all’autore per il permesso. Questa è la prima  traduzione italiana a cura di Andrea Olivieri, che ringraziamo.

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“Le forze più potenti, quelle che ci interessano per la maggior parte, non sono in una relazione speculare e negativa alla modernità , al contrario si muovono su traiettorie trasversali . Su questa base non si deve concludere che si oppongono a tutto ciò che è moderno e razionale, ma che sono impegnati nella creazione di nuove forme di razionalità e di nuove forme di liberazione”.

                                                         A. Negri e M. Hardt , Commonwealth, 2010.

1. Introduzione

Questo articolo non ha lo scopo di illustrare cos’è il Bitcoin: al riguardo ci sono diverse fonti di informazioni, a partire da un bel video di animazione[1] e da un gran numero di scritti e saggi anche accademici, citati in wikipedia[2]; vi è anche una bella drammatizzazione in un episodio della popolare serie televisiva “The Good Wife”[3].

Invece che discutere della funzionalità o della vulnerabilità del Bitcoin o cimentarsi in una sua analisi alla luce delle teorie economiche, in questo saggio vogliamo indagare gli aspetti storici e filosofici legati all’emergere di questa tecnologia. Chi scrive è stato coinvolto per più di due anni nella comunità Bitcoin, impegnandosi nello scambio cooperativo e anche critico tra i suoi nodi.

Il denaro è un mezzo fondamentale su cui costruire e consolidare una sovranità costituente. Questa ricerca discute della necessità e dell’urgenza di tale processo costituente  come una forma di soggettivazione. In ultima analisi questo articolo fornisce un quadro del contesto culturale in cui è stato inventato il Bitcoin e si è sviluppato fino a ciò che è ora, al fine di offrire alcune  chiavi interpretative dei suoi aspetti sociali e politici .

2. Origini 

Nel 1994, quasi due decenni fa, un intervallo di tempo considerevole per l’innovazione digitale, Steven Levy pubblicò sulla rivista Wired un articolo dal titolo “E-Money (Questo è ciò che voglio)”[4] con un’introduzione che non lasciava dubbi al lettore. Riferendosi all’E-Money (Moneta digitale), infatti, scrive:

L’applicazione sensazionale delle reti elettroniche non è il video-on-demand,  ma l’E-Money. Essa andrà a colpire laddove è più importante – il vostro portafoglio. Non solo rivoluzionerà la Rete ma cambierà l’economia globale”.

Per coloro che non conoscono Steven Levy , autore di libri come “Crypto” o “Hackers”, vorrei solo dire che non è il classico tipo visionario: i suoi scritti contengono pochissima fantasia e seguono un approccio giornalistico molto  documentato. In questo articolo, egli descrive il caso di David Chaum “il fondatore barbuto e coda di cavallo di DigiCash” che stava lavorando ad Amsterdam, con lo scopo di “catapultare il nostro sistema valutario nel 21° secolo”. Infatti quasi 20 anni fa, David Chaum era ricercatore al CWI, l’Istituto nazionale di ricerca per la matematica e  l’informatica in Olanda, dove in questi ultimi tempi ho avuto l’onore di spiegare come funziona il Bitcoin[5] davanti a un pubblico di scienziati che hanno lavorato con Chaum, e che onestamente mi hanno fatto sentire abbastanza imbarazzato, finché non ho capito che la modestia è sicuramente una delle loro qualità.

Poiché vorrei iniziare questo articolo partendo da una prospettiva storica, non posso fare a meno di seguire le origini dell’evoluzione che Bitcoin rappresenta a partire dal seminale contributo di Levy.

Ma non è tutto. Bitcoin non è solo “moneta digitale”. La sua nascita e  crescita sono state favorite da una rete di attività che, per alcuni aspetti, condivideva i principi etici e di gestazione di una comunità: sto parlando della comunità hacker.

Bitcoin è apparso per la prima volta agli occhi della comunità hacker in un Slashdot post[6] che, nell’agosto 2010, ha annunciato il rilascio della versione 0.3. In precedenza, Bitcoin era conosciuto solo su mailing list minori, oggi non più funzionanti.

Il post citato ha annunciato la nascita di un software che, attraverso il lavoro distribuito su tutti i partecipanti on line, avrebbe creato alcuni “hash” unici che avrebbero poi potuto essere scambiati come “moneta digitale”. Gli hacker a quel tempo avevano già familiarità con questo concetto poiché era già disponibile un’implementazione simile: si trattava  dell’utilizzo di una cosiddetta “hashcash” per combattere lo spam digitale grazie all’accettazione di un prezzo computazionale su tutti i server di posta elettronica disposti a scambiare e-mail. Anche l’architettura distribuita, o clusterizzata di questo software suonava familiare, dal momento che molti di noi pensavano che questo sarebbe stato una sorta di SETI@Home, un software che distribuisce il lavoro di calcolo necessario per analizzare i segnali dallo spazio raccolti da osservatori della NASA.

3. Eventi memorabili

Nei due anni e mezzo seguiti alla presentazione alla comunità hacker, mi sento di individuare due eventi memorabili che possono aiutarci a capire la progressione storica di Bitcoin.

Gennaio 2011     Blocco finanziario di Wikileaks

Maggio 2011      La rivista Forbes pubblica il suo primo articolo su Bitcoin

Figura 1: Grafici dei prezzi degli eventi memorabili

Nella figura 1 abbiamo inserito questi eventi in  un grafico che mostra il tasso di cambio dollaro/Bitcoin nel suo più grande mercato: il “MtGox”. Il grafico è duplice: nella parte superiore, si mostra il tasso di cambio dollaro/bitcoin e nella parte inferiore si registra il suo tasso di variazione. In tal modo, si evidenzia l’influenza che gli eventi socialmente rilevanti hanno sulla fluttuazione del Bitcoin.

Nel resto di questo articolo farò riferimento a questi due eventi, cercando di spiegare le complesse relazioni che governano gli aspetti sociali e politici di Bitcoin. Il grafico in Figura 1 è probabilmente quello più immediato per collegare la dinamica del tasso di cambio dollaro/bitcoin  con i fenomeni finanziari, la cui modellizzazione astratta riveste scarsa importanza nella mia analisi.

La mia ambizione è di descrivere l’innovazione tecnopolitica di Bitcoin senza seguire i fundamentals come quelli che affollano la maggior parte delle visioni accademiche disciplinari in economia.

Perciò dichiaro il metodo di questa analisi come biopolitico, nel senso che Michel Foucault diede a questa parola: la precoce genealogia di una nuova ragione etica, un’indagine nella sua fase di gestazione attraverso l’analisi dei suoi processi di soggettivazione. Questa è scienza economica post–umanista.

4. Innovazione

4.1 Networked computing 

La proprietà fisica dei simboli influenza in maniera decisiva la struttura dei codici. È maggiormente influenzata da ciò che dal criterio del significato. La struttura di un messaggio riflette il carattere fisico dei suoi simboli più della struttura dell’universo che esso veicola. Questo spiega la famosa frase “Il mezzo è il messaggio”.

Vilem Flusser

Prima di tutto abbiamo bisogno di spiegare al lettore che cosa è di fatto il networked computing, un concetto al quale faremo riferimento anche come clustering.

Il clustering (che possiamo rendere in italiano con l’espressione analisi dei gruppi) è una maniera di approcciare problemi troppo grandi per essere risolti da un singolo computer, ad esempio perché richiedono troppa capacità di calcolo su uno spettro troppo ampio di dati. Clusterizzare un problema significa dividerlo in pezzi più piccoli (chunks) e quindi distribuire questi chunks a differenti unità di calcolo che lavorano tutte per il medesimo scopo, in modo che ognuna ne fa risolva una parte. Significa anche che quei computer che hanno meno lavoro da fare, ad esempio perché non vengono utilizzati in determinati momenti, possono autonomamente offrire il proprio aiuto alla rete cluster di cui sono parte. È possibile immaginare la situazione nella quale, in una singola stanza con 10 computer, solo 5 sono utilizzati, e quei pochi utenti possono beneficiare di una prestazione più veloce grazie al clustering.

Questa non è fantascienza, né una nuova brillante idea, benché non sia mai stata introdotta nel mercato di consumo, con ogni probabilità perché non crea profitto per i produttori di hardware e software. Eppure, ancora nel 2001, quando pubblicammo il sistema operativo gratuito Dyne:bolic[7], la sua funzione di clustering – implementata attraverso la patch del Linux kernel OpenMosix – fu una delle più apprezzate dagli utenti di quel SO. La funzione venne annunciata con lo slogan El computador unido jamas serà vencido e permetteva alle persone di accelerare compiti gravosi su computer lenti (ad esempio il rendering 3d) dividendo il carico computazionale tra una molteplicità di macchine: una situazione perfetta per quei media–lab indipendenti che non hanno denaro per comprare calcolatori e, piuttosto che aggiornare il proprio hardware, tendono ad affidarsi a diverse singole unità poco costose che possono riciclare dalla spazzatura o da donazioni.

Il gestore di cluster OpenMosix in Dyne:bolic è solo un esempio di come il networked computing ha a che fare con gli aspetti economici e politici delle società digitali. Uscendo dal mondo digitale e rientrando in quello fisico, il modo di produzione e distribuzione delle risorse nel networked computing è estremamente attinente al discorso contemporaneo sulla “rete energetica”.

Tornando a Bitcoin, mentre individuiamo un’architettura clusterizzata nella sua adozione di una funzione proof of work[8] siamo ancora molto distanti da comprendere il valore reale che sostiene i Bitcoins. Infatti, il tipo di lavoro richiesto per “estrarre” (mining) i Bitcoins è molto lontano dall’essere connesso con i valori della vita reale: cercare determinati numeri le cui hash iniziano con 6 zeri, per semplificare, non è altro che una ricerca di numeri.

Dobbiamo scavare ulteriormente per capire il senso del Bitcoin mining e dissipare alcuni legittimi dubbi sul suo essere uno spreco di energia. Mentre il suo approccio di networked computing era seducente (gli hacker amano clusterizzare le cose per natura) è difficile convincersi subito del valore reale di una simile operazione: solo pochi all’inizio hanno capito perché uno dovrebbe far andare un simile algoritmo per trasformare elettricità e sistemi tecnologici in numeri in qualche modo spendibili.

4.2 Perché estrarre? 

Il mining è l’atto di creare Bitcoins, fondamentalmente l’atto di trovare questo “minerale algoritmico” e coniarlo in token utilizzabili. Il processo di mining è pertanto remunerativo per coloro che lo intraprendono, eseguendo il software di Bitcoin mining sui propri computer. In parole povere, il mining trasforma elettricità in Bitcoins: i computer cercano numeri che non sono ancora stati scoperti e, appena li trovano, possono essere trasmessi come monete nel network. I miners generano ricchezza, poi la mettono in circolazione a loro discrezione.

Ancora nel marzo 2011 – appena pochi mesi prima che Bitcoin diventasse popolare, e che inevitabilmente si innalzasse il livello di rumore nella discussione su di esso – il/la blogger Mira Luna pubblicò sul suo blog “Trust is the Only Currency” quella che ritengo la migliore analisi critica su Bitcoin. Citerò qui il passaggio finale di questo post, intitolato “Bitcoin: una macchina di Rube Goldberg per comprare elettricità”[9]:

Alla fine, la creazione artificiale del numero limitato di possibili Bitcoins attraverso questo “proof of work” (che crea milioni di hash SHA–256 senza soluzione di continuità) è follia. Tutto ciò di cui hai bisogno è un “proof of limitation” senza la politica – il mercato è stato forse contenuto dal creare troppa moneta troppo velocemente? L’uso da parte di Bitcoin di una soluzione procedurale è la via sbagliata quando tutto ciò che hai bisogno di fare è definire un vincolo attraverso una formula e applicarlo secondo necessità attraverso il tempo, anziché avere ognuno che fa girare continuamente una funzione hash sprecando elettricità. Manteniamo le transazioni pubbliche, poniamo una firma crittografica su di esse, verifichiamole con un modello monetario (money model) e saremo in grado di salvare buona parte di ciò che c’è di buono in Bitcoin. E, naturalmente, usiamo un “bene” che le persone possono capire intuitivamente, qualcosa come … il tempo.

Per approfondire questa critica abbiamo bisogno di spiegare che cos’è questa follia e perché può essere invece considerata un’innovazione interessante. Quando i miners (letteralmente “minatori”, ovvero gli utenti che fanno andare l’algoritmo sulle proprie macchine) eseguono il loro lavoro (quindi consumare elettricità) i Bitcoins appaiono “magicamente”, ma il loro lavoro giova anche alla comunità: rafforzano la rete fiduciaria rendendo i Bitcoins meno facilmente contraffabili.

Il computo del mining, e quindi l’elettricità, servono a rafforzare l’autenticazione di Bitcoin. Ora consideriamo l’energia che era richiesta, prima dell’esistenza di Bitcoin, per autenticare il processo di conio di valute fabbricate con carta e metalli meno nobili. Consiste in una procedura segreta di coniazione, grandi macchinari, un edificio monumentale con mura spessissime e guardie armate intorno al suo perimetro: un tipo di energia instabile, molto difficile da governare, dal momento che ha che vedere con un monopolio della violenza imposto dallo stato sovrano.

Questa particolare energia è sostituita da Bitcoin con un approccio qualitativamente differente: Bitcoin distribuisce ai peers il compito di costruire fiducia nella sua autenticità. Il network computativo dei suoi miners serve come zecca e dissolve il bisogno di violenza in un potere illimitato, irraggiungibile e decentralizzato.

La clusterizzazione della zecca raccoglie l’energia necessaria per istituire e proteggere l’autenticità della valuta.

In altre parole: la partecipazione ha sostituito la violenza nell’adempimento fisico dell’autenticazione della valuta: un modello identificabile quando osserviamo le manifestazioni storiche del piano digitale dell’immanenza.

Questi passaggi ancora lasciano aperto il problema della redistribuzione delle monete coniate: non risolve il problema della condivisione della ricchezza (shared wealth). Ma ora siamo tornati a un problema familiare riguardante il denaro, dopo aver scacciato il rischio di una macchina paradossale, la Rube Goldberg, che avrebbe dissolto il concetto con cui lavora Bitcoin in pura entropia. 

4.3 Scienza della contabilità

L’innovazione più notevole apportata da Bitcoin ha a che vedere con il sistema di contabilità che utilizziamo oggigiorno. La partita doppia è ciò che usiamo oggi per accertare che entrate e uscite corrispondano, fondamentalmente autenticare il flusso di denaro e accertare che “nulla sia duplicato”.

Da una prospettiva storica il sistema a partita doppia è molto antico ed ha subìto poche innovazioni attraverso le epoche: venne descritto da un matematico italiano e frate francescano di nome Luca Pacioli nel suo libro “Summa de arithmetica, geometria, proportioni et proportionalita” pubblicato nel 1494 a Venezia. La seconda metà del suo libro, dedicata alla geometria, è una sezione intitolata “Trattato de computi e delle scritture” nel quale egli descrive la necessità della matematica nella contabilità. Quei principi non furono certo inventati da Pacioli, ma perlopiù attualizzati, formalizzati e tradotti nel suo trattato, come dimostrato dall’esistenza di un libro precedente, “Della mercatura e del mercante perfetto” di Benedikt Kotruljević, pubblicato in latino alcuni decenni prima, o come suggerito dalla presenza di un’altra figura dietro al suo ritratto nel famoso dipinto attribuito a Jacopo de’ Barbari che è ritenuto essere Albrecht Dürer, un artista e viaggiatore che condivideva la passione di Pacioli per la geometria e il magico.

Tale sistema è ancora, al giorno d’oggi e malgrado i suoi difetti, quello in uso su larga scala in tutto il mondo dalla maggior parte dei sistemi di contabilità. Trattandosi di un sistema che assicura la corrispondenza univoca tra ciò che è scritto e ciò che è reale, può essere visto come l’entrata alla dimensione digitale e può senza dubbio beneficiare dell’innovazione tecnica attraverso gli strumenti digitali. La mia tesi è quindi che Bitcoin è fondamentalmente questa innovazione o, più precisamente, l’attuazione di un’innovazione come il metodo della ricevuta a triplice firma[10]. Citando Ian Grigg:

La ricevuta con firma digitale, con l’autorizzazione completa per una transazione, rappresenta una sfida sensazionale al sistema della partita doppia, almeno a livello concettuale. L’invenzione crittografica della firma digitale conferisce potente forza probatoria alla quietanza, e di fatto riduce il problema di contabilità alla presenza o assenza di una delle ricevute. Questo problema è risolto condividendo i registri – ciascuno degli agenti ha una copia originale. In un certo senso stretto di teoria relazionale dei database, la partita doppia diviene ora ridondante[11].

Il sistema contabile di ricevuta a triplice–firma di Bitcoin rispetta il ruolo originale del denaro come contratto (e direi di linguaggio digitalizzato). Citando la ricerca di Marco Sachy sulla valuta complementare e alternativa:

L’ontologia del denaro è tanto relazionale, astratta e cogente quanto lo sono i contratti in generale, e le possibilità di formulare questi contratti  sono inimmaginabili, tenendo presente che il processo ortodosso di progettazione e creazione di moneta – attingendo alla Dialettica dell’Illuminismo di Adorno e Horkheimer – è arbitrariamente e storicamente determinato.

È la pura sostanza di quei contratti cogenti che il denaro rappresenta e che può essere verificata da dichiarazioni corrispondenti su due registri o, come fa Bitcoin, chiamando l’intero network di peers partecipanti ad essere testimone di ogni contratto e ad agganciarlo in una catena di blocco (blockchain) crittografica. Più semplicemente, questa è contabilità nell’epoca di Bitcoin.

5. Comunità

Al centro della questione… vi è l’idea che le persone dovrebbero progettare da sé le proprie case, strade e comunità. Questa idea… deriva dall’osservare come buona parte dei luoghi meravigliosi del mondo non vennero edificati dagli architetti ma dalle persone.                                                                                                          

Christopher Alexander

Nel discutere di Bitcoin, delle sue qualità intrinseche di creazione di valore in rete che sono appena state accennate, non possiamo ignorare il fatto che questa tecnologia si basa su dinamiche comunitarie al punto che si potrebbe affermare che Bitcoin rende possibile per il denaro diventare un commone non essere più una convenzione gerarchica imposta da un sovrano e dalla sua liturgia di potere.

Ma allora siamo di fonte a una domanda cruciale su Bitcoin: a che scopo? Chi ne beneficia? O, in altre parole, se l’aspetto comunitario di Bitcoin è cruciale (nel senso: distribuzione dei calcoli necessari per la sua autenticazione, condivisione di una valuta comune, una storia comune delle transazioni, un sistema comune per quantificare la ricchezza) per che cosa usano Bitcoin le comunità?

Le prime comunità ad avere utilizzato Bitcoin – esclusa la comunità hacker che di fatto non l’ha mai usato molto come valuta per scambiare beni – sono i capri espiatori perfetti  per coloro che vogliono contrastare Bitcoin. Infatti chiunque voglia assumere un approccio moralistico e impedire l’innovazione di cui stiamo parlando non ha nemmeno bisogno di trattare fastidiosi concetti come la sovranità statale. È molto facile per i cacciatori di streghe enfatizzare il fatto che con Bitcoins è stata acquistata e venduta droga, che i giocatori d’azzardo amano i Bitcoins e che alcuni siti internet dichiarano di accettare pagamenti in Bitcoin per compiere missioni omicide. Campagne di criminalizzazione hanno riempito eccessivamente la copertura mediatica mainstream immediatamente successiva la popolarizzazione di Bitcoin, in Italia abbiamo persino visto popolari profeti dell’ottimismo della rete scagliarsi contro Bitcoin in un batter d’occhio[12].

D’altro canto, parlando di nuove tecnologie, non dovremmo mai affrettarci a giudicare la loro natura e scopi dai loro primi utilizzi. È naturale che coloro che erano esclusi dall’uso di affermate tecnologie cercheranno nuove piattaforme ancora non regolate: i pionieri che si trovano ai margini sono sempre attenti alle possibilità concrete di liberazione offerte da nuove e sconosciute tecnologie. Quando parliamo di tecnologie di comunicazione ciò diventa molto chiaro: ogni genere di comunità marginalizzate e criminalizzate ricorrono a canali di comunicazione meno conosciuti per i loro bisogni, mentre i canali di comunicazione di massa sono ben controllati e in generale dominati dal discorso sterilizzato della maggioranza conforme. Lo stimolo a discutere che cosa muova i proibizionisti nella loro crociata è distante da questo articolo, ma ciò che va affermato è che il potenziale di una nuova tecnologia non può essere studiato, compreso e giudicato facendo riferimento a tali circostanze: gli esempi forniti sui primi utilizzi di Bitcoin sono infatti ingannevoli per ottenere una comprensione equilibrata di questa tecnologia.

Il fatto è che molti hackers amano prendere in giro questa attitudine, unita a un discreto numero di criminali che hanno trovato conveniente usare Bitcoin sin dalle prime fasi della sua popolarità, offrono ancora terreno per la sua mistificazione come “tecnologia del male”.

Essendo coinvolto nella comunità che è cresciuta attorno a Bitcoin posso vedere che essa è composta innanzitutto da giovani idealisti che si ribellano contro lo status quo, soprattutto quando questo è un amministrazione centrale piegata alla corruzione. È chiaro per molti quanto vari contesti siano dominati da monopoli ingiusti, che frenano ogni possibilità di innovazione che sta nelle mani delle generazioni più giovani. La liberazione del mezzo di scambio di valore è un atto a cui facciamo riferimento nei termini di “rottura del tabù del denaro”. Bitcoin ha un ruolo nella storia: la sua epica unisce comunità, nuove riflessioni etiche, nuove appassionate narrazioni, la gloria del mistero attorno alle sue origini. La volontà di liberazione, decentramento e di rottura dell’intermediazione è centrale in Bitcoin – essa è etica e non dovrebbe essere vista come più conflittuale del concreto bisogno di rompere le mediazioni di molte funzioni sistemiche che governano le società moderne. La finanza moderna farebbe meglio a preoccuparsi dei suoi dilemmi da coda–lunga!

Molti vedono in Bitcoin l’opportunità di sfidare il monopolio delle banche sulle transazioni di valore. Buona parte dei beni che per primi sono stati scambiati on–line con Bitcoins – oltre le acque torbide, digitali o meno – sono creazioni artigianali. Il sogno di Bitcoin è l’autonomia dei produttori di contenuti, la possibilità di scambiare liberamente le proprie produzioni, senza affiliazioni, senza intermediari. Dopo tutto, la maggior parte degli operatori in transazioni finanziarie sanno bene che la ragione per la quale i piccoli artigiani non possono accedere ai mercati on–line sono gli alti costi marginali con cui devono confrontarsi se vogliono accettare pagamenti on–line, mentre gli apparati che sono in grado di negoziare il credito con le banche si impongono come intermediari a cui pagare un’imposta.

Come concreto per quanto obliquo indizio al lettore, ecco la mia piccola protesta contro il capitalismo dei flussi, un teso informale che avevo postato sulla lista di discussione di Nettime ancora nell’aprile 2011, appena prima che Bitcoin diventasse popolare con l’articolo pubblicato su Forbes nel maggio di quell’anno. Nel rispondere alle prime critiche di Bitcoin, questa lettera finì per circolare nel forum di Bitcoin come il “Bitcoin Manifesto”, raccogliendo consensi da molti membri della comunità[13]:

Giovedì 7 aprile 2011, a…@aharonic.net ha scritto:

> bitcoins – non è forse nient’altro che una struttura diffusa con cui fare capitalismo?

Questa non è nemmeno la cosa peggiore che ci puoi fare. Puoi fare riciclaggio di denaro sporco, comprare droga online e sex toys, tutto anonimamente. Ma il punto non è questo, perché malgrado la coercizione imposta finora da tutti i tipi di sistemi regolatori, anche gli attuali sistemi monetari ufficiali sono pieni di quella merda, proprio in cima alla torta capitalistica.

Le tecnologie emergenti non dovrebbero mai essere giudicate dall’eccezionale mancanza di buon senso dei loro primi utilizzatori. È come preoccuparsi del concime che fertilizza alcuni splendidi fiori, scartandone i semi.

Ho finalmente capito cos’è davvero bitcoin il 6 aprile (che in qualche modo finisce sempre per essere un giorno magico, eh!): questa ora è la fine del capitalismo dei flussi, che consiste nel monopolio delle transazioni, l’egemonia delle banche sul movimento dei valori e non solo il loro accantonamento, questa mafia dell’uomo–medio che sta strangolando il mondo mentre discutiamo.

Quanto sono nel giusto quei paesi sudamericani che reclamano la “tassazione delle transazioni”, un argomento ripetuto in molti discorsi dei compañeros. Hanno studiato il sistema e capito che c’è un problema cruciale, che deve essere risolto con urgenza. Eppure avrei da obiettare che la tassazione sulle transazioni non può essere la soluzione. La soluzione è eliminare i capitalisti dei flussi.

Se voglio darti del denaro lo darò a te. Tu ed io, punto. È giusto che paghiamo le tasse per le nostre comunità, non fraintendetemi, non si tratta di una rivendicazione da coglioni del Tea party. Ma non è per niente giusto che tutto ciò che facciamo sia nelle mani di terze parti che sono state beccate a truffare molte volte: guardate a quanto successo con gli account Paypal dell’Iraqi Linux user group ancora nel 2004, o anche più recentemente a Wikileaks.

Non abbiamo più bisogno che quei grassi truffatori si intromettano nelle nostre transazioni di valore; il capitale di flusso ha giocato il suo disgustoso ruolo negli insignificanti cicli della storia nei quali se n’è avuto bisogno, ora purtroppo questa gente non mollerà quello che ha accumulato, quindi ha più senso lasciarli da soli e moltiplicare un maggior numero di sistemi monetari che lavorano efficientemente attraverso varie reti e che contano sulla neutralità dell’autenticazione crittografica.

La morte del capitale di flusso è un nuovo stadio per la necrotizzazione del capitalismo. 

Al di là dei punti un po’ declamatori, in questo breve discorso è contenuto un indizio importante: Bitcoin avrà un’importanza centrale per le economie migranti.

Oggi è facile testimoniare l’esistenza di grandi comunità dislocate in giro per il mondo nel disperato tentativo di recuperare sui differenziali di valore territoriale del proprio lavoro. Molti di coloro che lavorano all’estero spediscono denaro alle loro famiglie e comunicano costantemente con esse, un fenomeno naturale grazie al quale il mercato della telefonia e i negozi di trasferimento di denaro prosperano in tutto il pianeta. Questi nodi di comunicazione sono estremamente importanti per i migranti, che non possono vivere senza di essi e che perlopiù finiscono per essere tassati iniquamente per il fatto di usarli. Monopoli come quello di Moneygram o Western Union dichiarano che nessuna commissione viene applicata sulle transazioni, ma i loro tassi di cambio reali a volte nascondono fino al 20% che va a loro profitto.

Tale profitto sulle transazioni è realizzato su un trasferimento di dati che è paragonabile a quello di una telefonata e non è una coincidenza che questi negozi spesso offrano entrambi i servizi. Oggi non c’è ragione per cui questi mercati per le transazioni digitali non dovrebbero essere liberalizzati in maniera simile a quanto accaduto con i monopoli telefonici con il Voice over IP. Questo è un vecchio vettore di evoluzione offerto dalla dimensione digitale e dalla sua progressiva interazione con la realtà che io chiamo immanenza digitale: ecco vacillare un altro schema basato su un’artificiale economia della scarsità!

6. Passione

Ho detto in precedenza che l’epica di Bitcoin unisce in nuove narrazioni di passione.

Per ogni processo di soggettività emergente nella storia, la passione è cruciale. Analisi come quella condotta da Giorgio Agamben su sovranità e gloria mostrano che è stato storicamente possibile codificare la passione (e i suoi misteri) in potere. Attraverso l’analisi dei codici antichi che compongono le leggi e l’etica (celebrando nel frattempo anche la gloria degli angeli), Agamben mostra che il potere (e il mistero) della passione è vicino a quello dell’economia e della sua nascita.

La figura 3 mostra un estratto ASCII dalla Bitcoin block-chain, un tributo che si è irrimediabilmente inscritto nella catena storica degli scambi. Un memoriale dedicato a un leader del “movimento cyberpunk” è letteralmente codificato in una “blockchain” di Bitcoin, decorato con la tipica ironia hacker. Questo è solo un cenno di ciò che potrebbe sembrare un “gioco tra iniziati”, ma è in realtà la profonda traccia di una narrazione condivisa.

L’episodio che storicamente rappresenta la passione in Bitcoin è connesso con un altro progetto che è strettamente correlato al movimento cyberpunk: il suo nome, ora incredibilmente noto, è Wikileaks.

Wikileaks ha fornito a Bitcoin il momento supremo (ϰαιρός) per diventare una priorità  nell’immaginario cyberpunk e in generale in quello degli hackers: sto parlando del blocco finanziario di Wikileaks.

Questo è un estratto del resoconto che lo staff di Wikileaks fa dell’episodio sul loro sito internet, al quale è dedicata una pagina intera:

Dal 7 dicembre 2010 un blocco finanziario arbitrario e illegittimo è stato imposto da Bank of America, VISA, MasterCard, PayPal e Western Union. L’attacco ha distrutto il 95 % dei nostri ricavi. […] Il blocco è al di fuori di qualsiasi giustificabile procedimento pubblico. Manca di qualsiasi supervisione democratica o trasparenza. Lo stesso governo degli Stati Uniti ha scoperto mancare il terreno legale per includere Wikileaks a un blocco finanziario americano. […] L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani ha apertamente criticato il blocco finanziario contro Wikileaks. […] Il blocco erige un muro tra noi e i nostri sostenitori, impedendogli di unirsi alla causa che hanno scelto di difendere. Viola le leggi della concorrenza e la legislazione sul commercio di molti stati. Isola arbitrariamente un’organizzazione che non ha commesso nessun atto illegale in qualsiasi paese e la taglia fuori dalle sue linee di finanziamento vitale in ogni paese. […]

Negli Stati Uniti le nostre pubblicazioni sono protette dal Primo Emendamento, come è stato ripetutamente dimostrato da un’ampia rappresentanza di autorevoli esperti legali costituzionali statunitensi. Nel gennaio 2011 il Segretario del tesoro, Timothy C. Geithner, annunciava che non vi erano margini per boicottare Wikileaks. In nessuna parte nel mondo vi sono sentenze, e nemmeno accuse, contro Wikileaks o il suo staff.

Il blocco era stato una reazione immediata al rilascio dei “cablegates”, nel quale un’enorme quantità di documenti diplomatici statunitensi riservati era stata pubblicata da Wikileaks. Questo episodio non era piaciuto per niente a un bel po’ di persone potenti in America (verosimilmente Wikileaks ha colpito il complesso militare–industriale del paese in diversi modi). Nonostante ciò l’organizzazione di Wikileaks aveva ricevuto molti apprezzamenti da ogni parte del mondo, anche nella forma di donazioni monetarie. Mentre l’onda mediatica dei cablegates stava riverberando sugli schermi di tutto il mondo, i monopoli di transazione internazionale come Maestro e Visa impedivano a Wikileaks di ricevere donazioni, senza un mandato legale, né un ordine di qualche corte giudiziaria. A Wikileaks venivano anche oscurati i propri domini internet, con l’eccezione di quello registrato in Svizzera.

Gli hackers credono che il mondo può essere cambiato e, se comprendono l’importanza di codici e protocolli, sono anche determinati a giocare su terreni neutrali, che è la condizione affinché i cambiamenti possano realizzarsi. Alcuni lettori potranno considerare gli hacker un po’ naif per il fatto di credere che possa esistere una neutralità della rete, buona parte degli analisti di sistemi, anche nel settore finanziario, hanno riconosciuto la presenza di errori di coda–lunga. Coloro che hanno familiarità con i principi enunciati ne Il Cigno Nero di Taleb concorderanno sul fatto che è impossibile  stabilire la neutralità all’interno di un sistema corrotto, ma per la comunità hacker in senso ampio, il blocco finanziario di Wikileaks è stato un momento in cui si è consumato in modo del tutto nuovo un tradimento profondo della fiducia. Quindi è stato un momento cruciale per la crescita di Bitcoin: molti hackers iniziano proprio in quei giorni a farne uso, ritenendo che sia, razionalmente, generosamente, la cosa da fare. La crescita di Bitcoin inizia allora, e come si può vedere nella Figura 1 fu 5 mesi prima dell’articolo di Forbes che lo avrebbe reso popolare. 

7. Gloria

La gloria, in teologia come in politica, è ciò che prende il posto dell’inconcepibile vuoto che è l’inoperosità del potere; tuttavia è questo davvero inconcepibile vuoto che coltiva e alimenta il potere (o meglio, ciò che l’apparato del potere trasforma in nutrimento).

Giorgio Agamben 

Ogni forma di valuta, sin dall’inizio delle sue forme primordiali, ha avuto a che fare con la grammatica del potere. È la fondazione di una sovranità e la sua gloria che giustifica la fiducia condivisa in una  forma simbolica di circolazione del valore. L’investimento del potere nella valuta, soprattutto quando non è sostenuto da valori minerali, è codificato in mistero e gloria.

Bitcoin non è esente da tali dinamiche: innova il modo in cui il digitale diviene tangibile, un ruolo di alto potenziale perturbativo. Pertanto, anche quando sceglie l’iconografia della sua propria valuta, la comunità di Bitcoin evidenzia una rottura politica.

L’intrigante mistero del suo evanescente autore Satoshi Nakamoto, potrebbe sembrare un dettaglio, ma non per la nostra analisi: è invece di importanza centrale per il mito di Bitcoin e per quello delle future critto–valute. Bitcoin non ha una singola autorità monetaria, ma un patto condiviso e la razionalità di fondo di un algoritmo matematico – il sogno intangibile della neutralità. Essendo deflattivi, i Bitcoins esistono in uno spettro finito di possibilità, una quantità di valore sempre più difficile da estrarre. Nessuno può creare più Bitcoins della quantità che è stato stabilito sia creata all’inizio, per il sommo orrore degli economisti moderni che guardano alla moneta legale come uno strumento necessario per muoversi nelle acque agitate della contemporaneità, e davvero con buone ragioni. Ma in Bitcoin non c’è gerarchia: nel senso che letteralmente non vi è nessuna origine sacralizzata (ἱεραρχία), nessun destino scritto, o sovrano unico, o intento nascosto nella sua essenza.

Bitcoin promette di essere il mezzo neutrale per un’economia basata sulla partecipazione, non l’editto di un re, una banca centrale, o i loro intermediari autorizzati – tuttavia, va detto, Bitcoin ha creato nuovi ricchi, coloro che hanno creduto  prima di altri nella promessa di questo algoritmo. La rottura offerta da questa nuova prospettiva sul denaro non ha a che fare con l’uguaglianza o il benessere, potrebbe non beneficiare la società o permetterci di uscire dalla crisi: è un reclamo per la neutralità della rete.

Un tale mezzo, dobbiamo anche ammettere, incarnerà la libertà di mercato della scuola economica austriaca. La Banca Centrale Europea ha prodotto nell’ottobre 2012 un’analisi della schema Bitcoin che afferma:

Le radici teoriche di Bitcoin possono essere rintracciate nella scuola austriaca di economia e nella sua critica all’attuale sistema della moneta legale e agli interventi assunti dai governi e da altre agenzie i quali, secondo questo punto di vista, determinano esasperazione degli affari e massiccia inflazione.

Questa visione dovrebbe essere presa con le pinze: può esagerare le ambizioni di Bitcoin, che è innanzitutto la riuscita implementazione di un sistema di scambi di valore nell’ambito digitale, il cui successo è dovuto alle dinamiche biopolitiche che stiamo esplorando in questo articolo. Tuttavia, l’interpretazione del suo ethos in fieri non è distante dalla realtà. È paradossale come, in un’epoca in cui assistiamo al fallimento di buona parte delle teorie economiche della scuola di Vienna, ci confrontiamo con narrazioni che le mistificano e le popolarizzano sull’onda di innovazioni tecniche e trasformazioni funzionali. Ma questo è un modo riduzionista di descrivere Bitcoin e dipende in maniera stretta dall’adozione di categorie universali: sono convinto che un simile metodo di analisi non permette la ricerca e la comprensione che stiamo tentando qui. Quindi facciamo un passo indietro e guardiamo alla simbologia di Bitcoin.

Se guardiamo alla storia delle icone utilizzate per coniare denaro, troveremo un lungo flusso di simboli di leadership: teste o corpi di umani o di animali che raccontano o significano il potere di scienziati, governanti, educatori, giudici o di uno stato–nazione. Molti sono i simboli di gerarchia che governano il conio e l’autenticazione della valuta, così come simboli di benessere e di mappe geografiche. Mi asterrò qui da iniziare un’analisi di tali simboli utilizzati nel passato, ma voglio osservare che Bitcoin ha e avrà una simbologia differente per glorificarsi.

La simbologia di Bitcoin riflette i valori condivisi della comunità che la sottende. Se ci fosse una persona che la rappresenta, questa sarebbe il suo misterioso creatore Satoshi Nakamoto, ma il fatto che egli non esista veramente rende le cose molto più interessanti. Uno dei primi simboli di Bitcoin era l’alpaca, e ad esempio il modello qui presentato viene da una vecchia discussione su un forum e a suo modo intende celebrare i primi artigiani ad aver venduto le proprie creazioni sul mercato Bitcoin.

Come esperimento, in un precedente articolo per la comunità di Bitcoin avevo suggerito l’uso di un trono vuoto come simbolo ponte tra l’iconografia classica, moderna e post–umana. L’immagine di un trono vuoto preparato (ἑτοιμασία τοῦ θρόνου) è un’icona che si trova nell’Antico Testamento e in vari testi incluse le Upanishad, un’icona sacra il cui valore “…non è mai così potente come quando il trono è vuoto”, commentava una volta l’archelogo Charles Picard. Il trono vuoto era usato sulle monete coniate nell’era Augustea ed esemplari scolpiti di esso si trovano a Cnosso e a Roma.

Ma la reazione della comunità Bitcoin a un tale antico simbolo di potere, malgrado il fatto che poteva rappresentare l’assenza di Satoshi Nakamoto, è stata negativa. Qualcuno ha commentato che “forse un trono vuoto spezzato sarebbe stato anche meglio, simboleggiando la rottura del vecchio potere”, qualcun altro ha suggerito che “un Bitcoin fisico dovrebbe avere uno specchio nel mezzo. Bitcoin è tutto centrato sull’individuo”, e ancora un altro suggerimento: “Bitcoin è mercuriale –  imprevedibile. È il folle dei tarocchi e la pietra di paragone. Trasforma gli elettroni di base in oro. Sovverte e svaluta tutte le norme e le convenzioni. Il folle è il simbolo perfetto per Bitcoin”. Molti hanno anche acclamato l’uso della maschera di Guy Fawkes, già adottata da Anonymous, dal fumetto e dal film V for Vendetta.

La gloria dietro a Bitcoin è perlopiù avvolta nel mistero, rivolta contro l’ingiustizia tirannica, rivendicazione dei diritti individuali, potere della distribuzione, rottura della mediazione, auto–determinazione. Ma anche, voglio affermare con forza, dalla presenza trasversale di un sentimento comunitario e la gioiosa consapevolezza che un potente processo si sta dispiegando nella storia: coloro che partecipano hanno la possibilità di esprimere sé stessi nella loro diversità, piuttosto che nell’uniforme, sterile e onnipresente linguaggio aziendale dell’economia.

 

Dopo la fase nella quale la Moltitudine ha costruito il suo corpo nel linguaggio, il ciclo di conflitti che si apre vedrà la Moltitudine impegnata nella costruzione del suo corpo oltre al linguaggio.

Christian Marazzi

8. Popolarità

Ora dovrebbe essere chiaro che un tale processo di soggettivazione come quello che stiamo descrivendo non è la semplice emergenza di una nuova tecnologia innovativa, non è solo λόγος su τέχνη, va ben oltre. L’enorme popolarizzazione di Bitcoin è la prova che le dimensioni di questo processo di soggettivazione sono multiple e non possono essere comprese adottando una singola narrazione, e ancor meno usando le categorie dell’analisi economica.

La popolarità di Bitcoin ad oggi è enorme e sta ancora crescendo: questo è un risultato della progressione biopolitica descritta sopra e la sua iscrizione in un particolare contesto, non è una qualità di Bitcoin soltanto. Bitcoin è radicato nei movimenti di protesta che hanno accompagnato la crisi finanziaria dal 2009 ad oggi, vale a dire il movimento Occupy. Benché vi siano ragioni per celare questo fatto per coloro che accolgono l’incondizionato e strumentale successo di Bitcoin, è importante registrare storicamente ciò per capire cosa potrebbe accadere in futuro.

La scena culturale attorno a Bitcoin è modellata attorno a nuovi valori che, malgrado le molte insidie, incarnano la ribellione contro “Il Sistema”. Nel corso dell’ultima conferenza di Bitcoin in Europa abbiamo visto chiaramente che quelle persone che sono vicine al progetto sono senza dubbio interessate alla visione d’insieme: sono consapevoli che una critica sistemica è il fulcro dell’esistenza di Bitcoin, al punto che il titolo della prossima conferenza non si limiterà a Bitcoin ma sarà “unSystem” conference (non–Sistema) e vedrà tra i relatori Anonymous, Occupy London, Voina[14] e Birgitta Jónsdóttir[15].

Essere popolari significa anche essere ramificati, divisi, replicati, clonati, ricombinati e infine appropriati dalla gente: un’icona popolare nutrirà la mente della cultura popolare senza consumare sé stessa, ma confondendo la sua autenticità nell’esistenza di nuove istanze popolari. Questo sta già accadendo con Bitcoin con conseguenze molto interessanti. Considerando che la sua popolarità sta soprattutto nella comunità degli hackers (o dovremmo dire, dei giovani cyborgs?), la ramificazione di Bitcoin sta facendo nascere molte interessanti implementazioni tecniche, che sono sia capaci di funzionare su larga scala che esplorare approcci insoliti alla moneta e al networking.

Tra le prime ramificazioni di Bitcoin troviamo alcune realizzazioni ironiche di essa: come la moneta di Cosby con la partecipazione della famosa stella televisiva Bill Cosby con un computer, o Carrots – solo carote, o Weed che era una valuta corrispondente al valore della birra tailandese preferita dal suo sviluppatore.

Ma vi sono anche ramificazioni serie di Bitcoin, sia complementari che alternative ad essa, e possiamo aspettarcene altre in futuro: NameCoin (la cui funzionalità è registrare nuovi domini di rete) o LiteCoin (che può essere estratta sulle stesse macchine dedicate al mining di Bitcoin senza interferenze) sono validi esempi.

Una ramificazione particolarmente interessante è Freicoin[16] che si innesta sulle idee  di Silvio Gesell per un sistema monetario con zero interessi sul credito: il valore della valuta “decade”, nel senso che con il passare del tempo perde valore. Freicoin non può funzionare come l’accantonamento di valore, una pratica comune tra gli utilizzatori di Bitcoin, quindi circola più velocemente. Implementando questa caratteristica, chiamata “demurrage”, questa è oggi una delle più promettenti gemmazioni di Bitcoin, almeno in teoria.

Con il mio personale progetto nella galassia Bitcoin, una cosa chiamata Freecoin[17], ho iniziato a documentare i fenomeni di gemmazione di Bitcoin sin dai loro inizi e ho promosso nella comunità la “configurabilità di questo codice genetico” e in generale l’uso di possibilità di personalizzazione  per le tecnologie che sottendono Bitcoin. Sono convinto che, mentre Bitcoin rappresenta una rottura politica unica con il vecchio establishment di governo del denaro, non ne rappresenti la soluzione finale.

Il bisogno di valute digitali basate su ricevute a triplice–firma non può essere semplicemente soddisfatto solo da Bitcoin. Tuttavia, rafforzato dalla popolarità e da tutte le conseguenze che abbiamo esplorato qui, Bitcoin potrebbe elevarsi sul lungo termine a riferimento fisso per le future implementazioni: è realistico predire che il suo valore aumenterà in futuro. 

9. Conclusioni 

È arrivato il momento di spiegare il titolo di questo articolo, cioè che Bitcoin sta rompendo il tabù sul denaro. Per molti anni abbiamo dato il denaro per scontato, senza nemmeno mettere in discussione la sua configurazione, senza analizzare la contabilità in termini sistemici. Lo abbiamo usato e ne siamo stati usati. Per parafrasare Georg Simmel, abbiamo fatto di noi stessi degli “esseri mediati”, gli intermediari tra il denaro e la creazione e la soddisfazione dei nostri stessi desideri.

Proprio come un tabù tanto vicino a noi da farci girare dall’altra parte, abbiamo evitato di porci la questione di cosa faccia esistere il denaro. Negli scorsi 50 anni e più la gente ha accettato quietamente la trasformazione del denaro in qualcosa di più astratto, lontano dalle mani di chiunque, che diventava di fatto solo un numero nei database delle banche, un gesto di interazione con computer che sanno più di quanto sappiamo noi sulle nostre proprietà. Diventato per alcuni “la radice di ogni male”, quasi una religione per altri, in entrambi i casi il denaro è stato troppo importante per essere messo in discussione e la sua evoluzione troppo naturale per essere intralciata dalle masse. È un sistema che permea la maggior parte se non tutte le interazioni della società umana, perlomeno nel mondo occidentale, così lo presupponiamo neutrale e, in ogni caso, non metteremmo mai in discussione la sua esistenza.

Buona parte delle analisi politiche studiano le dinamiche relative alla distribuzione del denaro, le sue relazioni con il lavoro, l’accumulazione, valori d’uso e valori di scambio. Gli universali hanno governato l’intero discorso attorno all’ingegneria monetaria e modelli matematici sono stati il metodo per spiegarne gli aspetti. Evidente eccezione a ciò, stanno le analisi sociologiche come quella di Max Weber che valutava la relazione tra etica e denaro attraverso i mutamenti storici della società. Ancora, ad oggi, solo pochi hanno osato guardare più attentamente nei sistemi valutari e nelle loro implicazioni biopolitiche, senza indossare gli occhiali protettivi degli universali storici stabiliti: questo è stato un tabù auto imposto per molti ricercatori e professionisti, la dissezione di questo mezzo, proprio come un corpo morto che non siamo autorizzati a studiare.

Ora che il denaro sembra morto o morente, è il momento di osare questa dissezione. Potrebbe essere che, superando questo tabù, troveremo modi per cambiare le cose su scala più ampia, soprattutto considerando la troppo a lungo dovuta linea di innovazione nel campo della contabilità che deve ancora essere applicata.

Infine, vi sono prove della rottura che sto indicando, sulla scia di molte nuove valute nate dopo Bitcoin: con tutta l’ironia e l’irriverenza implicite. Le porte sono state lasciate aperte dall’uomo misterioso: Satoshi il folle, Satoshi il santo, ha attraversato la linea che stava di fronte a tutti. Non c’è più un tabù sul denaro. Bitcoin non ha davvero a che fare con la perdita di potere di pochi governi, ma con la possibilità per molte persone di sperimentare nuove sovranità costituenti.

10. L’autore 

Denis Roio, noto anche col suo nickname da hacker Jaromil, è un artista, attivista e sviluppatore di software presso Dyne.org. Le sue creazioni sono segnalate dalla Free Software Foundation e redistribuite da diversi sistemi operativi GNU/Linux e BSD in tutto il mondo, ed è anche un attivo divulgatore nell’ambito della teoria dei media. Jaromil pubblica arte concettuale in forma digitale dal 2000, ha guidato  le attività R&D presso il Netherlands Media Art Institute per 6 anni, è stato insignito del premio Vilem Flusser nel 2009 e della borsa di studio nel programma 40 under 40 per i giovani leader europei nel 2012. Attualmente sta scrivendo la sua tesi di dottorato del Planetary Collegium M–Node presso la NABA di Milano.

11. Bibliografia

• Agamben, G., 2007, “Il Regno e La Gloria”, Neri Pozza

• Ascott, R., 2003, “Telematic Embrace”, Univ. California press

• E.C.B, 2012, “Virtual Currency Schemes”, European Central Bank

• Flusser, V., 2002, “Writings”, Minnesota Univ. press

• Foucault, M., 1979, “Cours au Collège de France 1978-1979”, Feltrinelli

• Fumagalli A., Marazzi, C., Zanini A.,  2003, “La Moneta nell’Impero”, Ombre Corte

• Grigg, I., 2005, “Triple Entry Accounting”, Systemics Inc.

• Levy, S., 1994, “E-Money”, Wired USA, issue 2.12

• Lietaer, B., 2001, “The Future of Money”, Random House

• Nakamoto, S., 2009, “Bitcoin: A Peer-to-Peer Electronic Cash System”, Bitcoin website

• Negri and Hardt, 2010, “Commonwealth”, Harvard Univ. press

• Sachy, M., 2012, “The empowering potential of complementary currencies and alternative payment systems”, Silent University Tate Modern

• Simmel, G., 1900, “Philosophie des Geldes”, DigBib.org 

[1] Video introduttivo a Bitcoin “We Use Coins” http://www.weusecoins.com

[2] References for the Bitcoin entry on Wikipedia http://en.wikipedia.org/wiki/Bitcoin#References

[3] The Good Wife TV series on CBS, season 3 episode 13, recap:  http://blogs.wsj.com/speakeasy/2012/01/16/the-good-wife-season-3-episode-13-bitcoin-for-dummies-tv-recap/

[4] Articolo di Levy su Wired:  http://www.wired.com/wired/archive/2.12/emoney.html

[5] Software Freedom Day, 2011, video:  http://www.youtube.com/watch?v=hdNRw-LWDUY

[6] Slashdot post su http://news.slashdot.org/story/10/07/11/1747245/Bitcoin-Releases-Version-03

[7] Homepage di dyne:bolic GNU/Linux OS:  http://www.dynebolic.org

[8] Vedi anche http://it.wikipedia.org/wiki/Proof-of-work. Alcuni termini specialistici sul tema trattato (proof of work, hash e hashes, Bitcoin mining, token) non sono mai stati tradotti in italiano. A tal fine si rimanda al  link alla relative voce di Wikipedia in italiano che è piuttosto esauriente (ndt.)

[9] Articolo di blog su http://trustcurrency.blogspot.nl/2011/03/bitcoin-rube-goldberg-machine-for.html

[10] In inglese, “triple-signed receipt method” (ndt).

[11] Grigg, 2005 – http://iang.org/papers/triple_entry.html

[12] Persone come Riccardo Luna, ad esempio, un difensore televisivo dell’innovazione della rete e digitale in Italia, hanno iniziato una crociata mediatica contro quello che definiscono “il web oscuro”

[13] Bitcoin forum, “Bitcoin Manifesto” su https://bitcointalk.org/index.php?topic=5671.0

[14] Un gruppo russo di artisti di strada molto conosciuto per i suoi lavori di arte performativa provocatori e politicamente impegnati.

[15] Membro dell’Assemblea Costituzionale del Parlamento Islandese ed ex membro di Wikileaks

[16] ”Freicoin: a peer-to-peer digital currency delivering freedom from usury” http://freico.in

[17] ”Freecoin is not a currency, but a suite to create P2P currencies” http://freecoin.ch


 [F1]Ho aggiustato e fatto un po’ di correzione bozze sul tuo testo

Il fenomeno Bitcoin: moneta alternativa o moneta speculativa?

di Gianluca Giannelli e Andrea Fumagalli, SanPrecario – 17/12/2013

Negli ultimi mesi, una bolla seculativa ha interessato il Bitcoin, la moneta digitale lanciata dalla galassia hacker alternativa nel 2009 come possibile nuovo strumento monetario per realizzare scambi privati, al di fuori del controllo dei potentati creditizi-finanziari. E’ stato scritto che il Bitcoin potrebbe rappresentare una minaccia al sistema della moneta “fiat”, quella emessa dalle Banche Centrali. Ma è proprio così? E’ possibile pensare a circuiti finanziari alternativi?

 * * * * *

Arricchimento, clamore, volatilità. Queste le parole associate, di recente, al fenomeno “Bitcoin” (BTC) e, in generale, delle monete virtuali o criptomonete, come vengono definite.

Molti, anche in Italia, soprattutto nell’ultimo mese, ne hanno sentito parlare. Pochi ancora sanno cosa sono. Tutti però le associano a possibilità di ricchezza improvvisa.

Il BTC e le altre circa 40 monete nate in sua emulazione, sono semplicemente file criptati ovvero sequenze alfanumeriche (numeri e lettere) generate da computer – a seguito della esecuzione e risoluzione di un determinato algoritmo –  collocati all’interno di una rete “peer to peer”.

L’algoritmo è specifico per ogni “moneta”.

Esistono anche “suite” per la creazione di monete “fai da te”: algoritimi che generano algoritmi, che generano stringhe.

L’idea di per se non è nuova; già le istituzioni governative e bancarie nazionali, da diverso tempo, hanno intrapreso la strada di attribuire valore monetario a sequenze di numeri create artificialmente sulla base delle dinamiche del debito/credito statale, aziendale e personale. L’algoritmo è ovviamente diverso; in questo contesto la sua funzione è assolta dalle percentuali di riserva delle banche, dai tassi di interesse e dalla semplice decisione (il… “fiat” non “lux” ma “currency”) di generare moneta. Il “quantitative easing” della Fed, (Banca Centrale USA) ad esempio, genera 85 miliardi di dollari al mese. L’Ltro della BCE, ne è un altro esempio, se pure con leggere differenze rispetto al primo.

Oggi, dopo la fine di Bretton Woods, assistiamo alla completa smaterializzazione della moneta. Il suo valore, convenzionalmente fissato nel 1944 a Bretton Woods dalla parità fissa con l’oro nel rapporto di 35 dollari US per oncia d’oro, è decaduto. Da moneta “merce” e moneta “oro” si passa alla moneta come “puro segno” (Marx), passaggio che, grazie al processo di finanziarizzazione, ha di fatto ridotto il peso dei diritti di signoraggio e anche la possibilità da parte delle Banche Centrali di controllare in toto la massa monetaria in circolazione e il moltiplicatore creditizio e finanziario che ne consegue.

La moneta, in questo modo, si smaterializza del tutto. Oggi la moneta non è più una merce o un bene. Non esiste più un’unità di misura del valore della moneta, come il metro per la lunghezza o il chilogrammo per il peso. A prescindere dal fatto che esistono ancora i monopoli di emissione e i diritti di signoraggio, a prescindere dalla struttura proprietaria, in quanto non più un bene, la moneta non può neanche essere definita bene comune. Con la fine degli accordi di Bretton Woods, il valore della moneta non è più determinato esclusivamente da chi la emette. La sovranità monetaria (nazionale o sovranazionale, che sia), la cui governance è il compito della Banca Centrale, tende a perdere sempre più significato.

Sino alla crisi del fordismo, l’istituto della Banca Centrale ha avuto il compito di esercitare un controllo puntuale e diretto sulla quantità di banconote e monete coniate dalla Zecca nazionale. Ma il 95% della moneta circolante è oggi erogato da banche private nella forma di prestiti o attività speculative; su questa quota della moneta circolante la Banca Centrale ha solo un controllo molto indiretto tramite l’imposizione della riserva obbligatoria sull’ammontare dei depositi. Ciò significa che, nonostante la Banca Centrale possa unilateralmente e autonomamente fissare i tassi d’interesse e imporre una riserva obbligatoria alle banche, la quantità di moneta in circolazione è sempre meno controllabile dalla stessa Banca Centrale. In un sistema capitalistico che si basa su un’economia finanziaria di produzione, la quantità di moneta esistente viene endogeneamente determinata dal livello di attività economica che si registra e dall’evoluzione delle convenzioni finanziarie che regolano il mercato internazionale della finanza e delle valute. La Banca Centrale può solo cercare di aumentare o di ridurre la massa monetaria circolante, ma nulla più. Tale possibilità viene oggi ulteriormente ridotta dal nuovo ruolo che hanno assunto i mercati finanziari, sia nel finanziare l’attività di investimento (tramite le plusvalenze generate), sia come creatori di titoli altamente liquidi (definita “near money”, “quasi moneta”).

Di fatto, in modo paradossale, i poteri discrezionali delle Banche Centrali sono tanto più diminuiti quanto più esse stesse sono diventate istituzioni politicamente indipendenti. Di conseguenza, i poteri gestionali del settore bancario e, tramite la regolazione dei tassi d’interesse, dell’intero sistema economico della Banca Centrale sono sempre più ancillari alle dinamiche che si svolgono sui mercati finanziari e quindi sempre più dipendenti dalle oligarchie che li dominano.

Ciò significa che nel bio-capitalismo cognitivo, la moneta e la determinazione del suo valore non è più sotto il controllo della Banca Centrale, cioè dell’istituto che, formalmente, la emette. Nel momento stesso in cui la moneta è pura moneta segno, essa sfugge a ogni controllo pubblico. La moneta perde lo stato di “bene di proprietà pubblica”. Il suo valore viene determinato, di volta in volta, dall’operare dell’attività speculativa dei mercati finanziari. Le sue funzioni di mezzo di pagamento e unità di conto (misura del valore), nonché di riserva di valore e di strumento di finanziamento dell’attività di accumulazione /valorizzazione, sfuggono a qualsiasi controllo. Nel momento in cui la sua quantità e le modalità di circolazione vengono determinate dalle convenzioni che si determinano sui mercati finanziari,sempre più concentrati, la moneta è ostaggio delle aspettative che le oligarchie (o meglio, la dittatura delle oligarchie) dei mercati finanziari di volta in volta è in grado di esercitare. Oggi, possiamo affermare che la creazione di moneta-finanza è esatta espressione del comunismo del capitale. Ne è riprova il fatto che le scelte statuali di politica monetaria sono in funzioni della dinamica finanziaria. Gli stessi tassi d’interessi non sono più controllabili in toto dalla politica monetaria.

La moneta contemporanea è, dunque, espressione del biopotere finanziario, in quanto il suo valore è determinato dalle convenzioni finanziarie che la governance dell’espropriazione del  comune è, di volta in volta, a secondo delle condizioni, in grado di imporre.

Nel caso delle cripotmonete, la novità principale risiede nella sostituzione nel soggetto decisionale: non più istituzioni deputate, (assai poco) democraticamente, alla gestione della politica monetaria e finanziaria, bensì la moltitudine dei singoli individui che decidono di produrre o “estrarre” le “stringhe” con i loro computer in rete e quella di singoli individui che decidono (fidandosi) di riconoscere valore monetario a quelle stringhe generate.

In un’epoca macchinico-algoritmica come quella in cui viviamo, non deve stupire che la moneta non si stampi più ma si generi e che la fiducia non sia più riposta nell’agire umano ma nella correttezza formale di un algoritmo eseguito da macchine e/o da decisioni di elite tecno-finanziarie.

Proprio la sfiducia nell’agire etico e politico è alla base della nascita delle criptomonete. Il dipendere delle monete tradizionali da soggetti istituzionali le cui decisioni non sono più ritenute tutelanti l’individuo e la sua libertà, ha spinto i creatori delle criptomonete e i loro principali fautori a cercare detta tutela nella azione imparziale delle macchine.

Per molti di essi anche il processo democratico potrebbe – anzi, dovrebbe – essere sostituito da decisioni algoritmizzate eseguite con imparzialità da computer.

La giustizia è imparzialità, e la politica, che non appare più in grado di attuarla, deve essere sostituita da macchine il cui comportamento non è condizionato da particolarismi di alcun genere.

Anche le esperienze politiche della cosiddetta “democrazia elettronica” vanno in questa direzione, pur non prevedendo la completa sostituzione – per ora – del “data processing” alla decisione collettiva.

Peccato, però, che la politica – nella sua accezione orientata all’equità sociale – sia, al contrario, proprio scelta di “parzialità” e che la giustizia sociale possa determinarsi solo dell’assunzione di decisioni di “parte” che privilegino cioè la riduzione delle condizioni di sfavore in cui i molti versano rispetto ai pochi (sempre più ricchi).

Invece di mutare la politica, la si elimina e ci si affida ad un “regolatore elettronico” nella soluzione dei problemi di convivenza collettiva, che vengono ricondotti alla sola maggiore o minore libertà dell’individuo.

In quest’ottica, la moneta creata da algoritmi rischia di essere concepita di fatto come neutrale al sistema di produzione e distribuzione della ricchezza.

La società del “problem solving”, dell’esistenza individuale, sta lentamente soppiantando la società del benessere collettivo di matrice otto-novecentesca. Dall’assunto che solo in un società giusta l’individuo può star bene, si passa all’assunto che solo se l’individuo sta bene si potrà avere una società migliore.

E’ chiaro che la tecnologia – in particolare quella sviluppatasi dagli anni ‘70 con il passaggio dall’era del transistor a quella del chip e, di lì a poco, della rete – ha effettivamente donato il fuoco prometeico all’individuo necessario per la sua liberazione dalle vecchie soggettivazioni e il suo assorgere ad assoluto ontologico, connotato dall’imperativo esistenziale della massimizzazione del piacere e del profitto, e che trova la propria traduzione nel dispositivo ideologico dell’individualismo proprietario.

La logica del linguaggio macchina con il suo procedere per soluzioni di algoritmi, finisce per influenzare anche la relazione dell’individuo con la realtà rappresentata, per l’appunto, come “problematica” e alla quale relazionarsi, quindi, in termini di ricerca di soluzioni piuttosto che come esperienza da vivere.

Anche l’ “altro”, gli “altri”, assumono connotato problematico in luogo di quello di incontro e opportunità di condivisione politica ed etica di relazioni umane volte alla liberazione del desiderio e la soddisfazione dei bisogni.

La promessa della tecnologia non si esaurisce in un fuoco istantaneo: quella donata da Prometeo è di origine divina, quindi inesauribile. Promette un futuro oltre ciò che mantiene nel presente, spingendo il desiderio dell’individuo oltre i limiti dell’uomo, oltre i suoi confini biologici verso l’ibridizzazione di una nuova specie. L’uomo “incorpora” (in senso letterale) la tecnologia, quanto la tecnologia stessa innesta l’uomo nelle sue meccaniche sistemiche.

Forse le biotecnologie, la bionica e, in generale, le interfacce neurali uomo/macchina rappresentano il confine attuale di questa mutazione. Forse sarà l’alba di una nuova fase dell’evoluzione dell’uomo al quale la tecnologia promette, in cambio, la soluzione del grande mistero della morte.

Ma, quando si guarda l’abisso anche l’abisso guarda dentro di noi …

Nel frattempo, nel presente, già profonde sono le mutazioni avvenute.

Non stupisce che, dagli anni ’90, finanza e tecnologia abbiano stretto un sodalizio nel reciproco sviluppo, al quale il diritto, in tutte le sue articolazioni, non ha fatto altro che fornire legittimazione alle nuove libertà dell’individuo tecnocratico votato al profitto e, dietro il cui imperativo e dispositivo libertario, vecchie e nuove elite di potere hanno riproposto, in chiave neoliberista, modalità di controllo e segregazione sociale.

Non stupisce neanche come, nel caso delle criptomonete, sia proprio la tanto agognata libertà dell’individuo a determinare l’attuale fase della loro evoluzione in una direzione alquanto diversa, forse, da quella inizialmente ipotizzata.

Il Bitcoin nasce come moneta – prodotta da reti “peer to peer” in modo decentrato e anonimo – da utilizzare per la funzione principale della moneta ovvero come mezzo di scambio. Sin dalla sua origine – circa 4 anni fa – tuttavia, il suo valore è stato definito dalla rapporto di conversione con il dollaro USA, al quale si sono poi aggiunte nel tempo altre valute quali Euro, Sterlina inglese, Rublo russo e Yuan cinese. Il BTC quindi rientra anch’esso nel sistema del dollar index anche se, non avendo valore legale, non è riconosciuto e attuato alcun cambio con le citate valute.

Circa la sua diffusione quale mezzo di pagamento, dalla sua nascita un numero sempre maggiore di esercizi commerciali – in gran parte del commercio elettronico ma non solo – lo ha accettato nelle transazioni, sempre ancorando il prezzo dei beni e servizi al loro valore in dollari, ancora oggi valuta internazionale di riferimento. Come noto il BTC è anche il mezzo di pagamento più diffuso in rete per le transazioni illegali che avvengono nel cosiddetto “deep web” ove sono considerate valore aggiunto l’anonimato e la (apparente) irrintracciabilità degli attori delle transazioni.

Fino a circa 3 anni fa, il valore del BTC era di 9 dollari USA, a mala pena sufficiente a coprire i costi necessari alla sua generazione da parte di coloro che con i loro computer decidevano di entrare nella rete “peer to peer” necessaria alla produzione o, come si dice, “estrazione” della stringa/moneta.

I costi erano relativi all’allestimento di un computer in grado di elevata capacità di calcolo e a quelli (non irrilevanti) della corrente elettrica.

Due caratteristiche insite nell’algoritmo del BTC (e comune a tutte le criptomonete) ne rendevano rischioso ulteriormente l’investimento: il numero finito di stringhe estraibili – massimo 21 milioni per il BTC – e l’incremento progressivo della difficoltà di estrazione delle “stringhe”, relazionato al numero totali estratto e alla quantità e capacità di elaborazione complessiva progressivamente espressa dalla rete. Questo, al contempo, lasciava intendere che, all’avvicinarsi del raggiungimento dei 21 milioni di stringhe estratte, il valore del Btc dovesse necessariamente aumentare a condizione, ovviamente, della sua reale ed effettiva diffusione come mezzo di pagamento. In caso contrario, al termine, sarebbero rimaste solo… stringhe alfanumeriche.

Alcuni articoli della stampa specializzata avevano attirato l’attenzione di un pubblico sempre maggiore determinando da un lato un aumento di addetti all’estrazione e dall’altro un aumento degli esercizi che lo accettavano come mezzo di pagamento. Il valore, di conseguenza, registrava incrementi giungendo, nell’ottobre del 2013, a valere circa 200 dollari.

È nel corso del 2013, per l’appunto, che il Bitcoin esce dalla nicchia di “nuance tecnologica di geek e nerd tecnolibertari o di coloro che quando vedono qualcosa Apple hanno un’eccitazione superiore alla media degli individui”, per divenire strumento di investimento speculativo.

Il mercato si arricchisce di soggetti e funzioni che ne aumentano l’articolazione, strutturandola.

In tutti i casi – e per tutte le funzioni assolte – l’obiettivo degli individui è trarre probabile futuro profitto dall’investimento di denaro nel presente.

Con l’aumento della difficoltà di generazione delle “stringhe” – insita, come detto, nell’architettura stessa dell’algoritmo – il processo era divenuto più oneroso per i singoli utenti a patto di non “upgradare” di continuo l’hardware. Erano, così, sorte società con siti specializzati nel “segmentare” la rete in unità più piccole chiamate “pool” ove gruppi specifici di utenti potessero cooperare e divedersi le monete generate. I “pool” attuavano una cooperazione ristretta all’interno della più generale cooperazione della rete complessiva, consentendo anche a utenti con hardware non eccessivamente dimensionati di poter ricevere, in un tempo minore, la moneta estratta grazie alla potenza computazionale dell’intero pool al quale avevano aderito.

Questo, in cambio di un piccola commissione – “fee” – da conferire all’atto del trasferimento della moneta dal “pool” al portafoglio elettronico residente sul proprio computer. Ma, con il passare del tempo e l’aumento della difficoltà, anche questo non risultava più sufficiente in questa “corsa all’oro” del terzo millennio.

Aziende fornitrici di hardware iniziano, così, la progettazione e produzione di periferiche specifiche per l’estrazione di BTC.

Parallelamente sul versante finanziario proliferano siti di società “cambia valute” specializzate nel cambio del BTC con le valute ufficiali e con altre criptomonete. Ognuna con le proprie quotazione della moneta che possono registrare, tra esse, anche differenziali del 10%. Il guadagno consiste nel ricavato pagamento del “fee” (analogo a quello visto in precedenza) e dalla possibilità di investire nel mercato stesso le riserve valutarie – valute “fiat” e digitali – depositate dagli utenti presso i siti “cambia valute” per effettuare le transazioni. Un pò come operano le banche con i “giorni di valuta” nei movimenti dei conti correnti della clientela.

Alcune società di brokeraggio si specializzano anche nel trading finanziario, consentendo di “tradare” il BTC al pari di qualunque valuta del mercato Forex, con annessa possibilità di utilizzo della leva finanziaria. Il Forex è noto per essere il mercato più “liquido”, di grandi volumi e speculativo esistente (il volume giornaliero delle contrattazioni è superiore a 1,5 trilioni di dollari US. Esso è, in ordine di grandezza, maggiore dei mercati azionari e obbligazionari mondiali messi insieme. La Borsa Valori di New York, per esempio, ha un volume di contrattazioni giornaliere di circa 30 bilioni di dollari. Si calcola che, oggi, il 90% delle transazioni su questo mercato sono di natura speculativa).

Non mancano, inoltre, società di investimento pronte a lanciare derivati specifici sul BTC in grado di assicurare i detentori o produttori/estrattori dalle fluttuazioni future del suo valore, analogamente a quanto accade per le materie prime o per i prodotti agricoli e o alimentari.

Così come, altri broker inaugurano specifici “CFD/BTC” (“contract for difference” sui BTC), strumenti finanziari con leva finanziaria, commerciabili nel circuito finanziario telematico “OTC” (“over the counter”).

Il bitcoin entra nella sua dimensione di asset di investimento speculativo, passando così dal “bit” informatico, che ne aveva caratterizzato il passato, al “tick” finanziario che ne rappresenta il presente (il “tick” di negoziazione è la variazione minima tra due prezzi che possono essere immessi sul mercato e rappresenta la frazione di un’unità predefinita della valuta in cui il titolo è negoziato. Es.: cambio EU/USD 1,38001 – il “tick” è la quinta cifra dopo la virgola).

Nella metà dello scorso mese di novembre, il BTC raggiunge la quotazione massima di 1.240 dollari US mentre un specifico fondo di una società di investimento – nato nei dodici mesi precedenti – faceva, nel contempo, registrare un “ritorno” di ben il 4847% dell’investimento.

Un ruolo decisivo nell’impennata del valore del BTC registrata tra ottobre e novembre è attribuita all’entrata nel mercato di operatori finanziari cinesi, per quanto la sua diffusione in Cina era già datata ma limitata alla sola produzione/estrazione. In questo caso, non si sarebbe trattato solo di investimento speculativo ma anche un modo di acquisire capitali dall’estero, in aggiramento delle rigide norme valutare del Governo cinese, e per poter effettuare operazioni di mercato “non visibili” in yuan e dollari. Il tutto utilizzando come “cortina fumogena” il grande interesse dei teen-ager cinesi per il BTC quale mezzo di pagamento per siti “vari” di intrattenimento digitale.

Tanto clamore e arricchimento hanno alla fine destato l’interesse delle singole autorità monetarie nazionali.

Le reazioni sono raggruppabili in due tipologie generali: da un laico “no problem basta che si paghino le tasse sulle plusvalenze” da parte degli occidentali, ad un assoluto divieto emesso della Banca Centrale Cinese a tutti i soggetti istituzionali di utilizzare le monete elettroniche come valuta nelle transazioni o come forma di investimento finanziario da consigliare alla propria clientela.

Ma chissà che, con il vento riformista annunciato dal governo Cinese in queste settimane – e che dovrebbe prevedere anche una certa deregolamentazione e decentralizzazione del mercato finanziario interno, detto divieto non si sterilizzi, di fatto, in futuro.

Tuttavia, la conseguenza immediata del divieto è stata la decisione di Baidu (l’equivalente cinese di Google) di non accettare più i bitcoin come mezzo di pagamento.

Il crollo del BTC dei giorni successivi passando dai 1240 dollari US agli 800 potrebbe aver rappresentato l’uscita dal mercato di “spaventati” operatori o l’avvio di una fase speculativa al ribasso o… un mix di entrambe .

In questi giorni è in “rally” tra gli 950/850 dollari US mostrando segni di ripresa ma sempre di estrema volatilità.

Scenario futuro? Impossibile a dirsi oggi.

Quel che è certo è che il futuro sarà esito complessivo dell’azione, spesso contrastante, di tutte le forze che agiscono sul mercato. Sicuramente tali esiti saranno fuori dal controllo degli ideatori e dei primi fanatici sostenitori del BTC, riaffermandosi in questo la considerazione che non basta assicurare le libertà all’individuo per avere una società necessariamente libera.

Alcune considerazioni.

Per quanto non prevedibili gli sviluppi futuri, il bitcoin non sembra essere un fenomeno transitorio; potrà, certamente, mutare in altro e/o dar luogo ad altro,  ma ha introdotto un precedente indietro al quale non sarà possibile tornare.

Sono oltre 40 le criptomonete nate a seguito del BTC che cercano di emularne il percorso – ivi cmpresi gli aspetti speculativi altamente remunerativi – riuscendo ad attrarre investimenti di coloro per i quali entrare nel mercato di estrazione del BTC è ormai troppo tardi ma che cercano ugualmente di far fortuna. Il Litecoin –LTC – è la seconda moneta per dimensione anche se molto lontana dai valori del BTC. Se quest’ultimo viene paragonato all’oro, sicuramente LTC può essere considerato l’argento. Comincia anch’esso a entrare nella fase della finanziarizzazione anche se a livello embrionale (si può commerciare solo su un numero limitato di siti) e con andamenti correlati a quelli del BTC. Esistono già anche cambi reciproci BTC/LTC. Il principale ostacolo alla diffusione delle altre monete è determinato attualmente proprio dal BTC, interessato a disinnescare sul nascere qualunque ipotesi concorrenziale.

Tuttavia, nel contempo, sono sorte “suite” per la creazione di criptomenete “fai da te”, per cui le possibilità di proliferazione aumentano esponenzialmente. Si andrà da quella creata come business puro a ipotesi più “socially o mutually” di criptomonete per comunità specifiche (versione hi-tech del braccialetto con le palline dei villaggi vacanze ma “politically correct” o “antagonist” o “green” o quel che vi pare…). L’importante che sia “cool” e “in” nell’ambiente di riferimento, ovvero che si trovino persone disposte a condividerne ed accettarne il valore.

È facile ipotizzare un andamento non dissimile a quanto accaduto in passato con le distribuzioni del sistema operativo open source linux. Del resto, l’ambiente di riferimento per entrambi  – criptomonete e opensource – è il medesimo. Oggi, si contano centinaia di versioni di Linux così come, domani, potrebbero contarsi centinaia di cripotomonete. Quale di esse, però, sarà la futura Ubuntu delle monete? E il mondo “legacy” starà a guardare? Nasceranno i Microsoft e Apple delle cripomonete? E si formeranno “utenti” e “u-tonti” di monete come, oggi, ci sono dei software?

È di pochi giorni fa la notizia che JPMorgan ha registrato un proprio brevetto di moneta digitale da utilizzare nel mercato dell’e-commerce; un mercato che solo negli USA, nel 2012, ha registrato vendite per 224 miliardi di dollari.

Mentre “Bofaml” (Bank of America Merrill Lynch), sempre di recente, ha individuato la soglia di 1.300 dollari quale target price futuro del BTC, pur se stimato sulla base di premesse e assunti metodologici non propriamente rigorosi connessi al dimensionamento e penetrazione del mercato del e-commerce su scala mondiale, al valore dell’oro e al volume delle transazioni registrate dalle società di trasferimento internazionale di valuta.

Il valore del BTC sarà determinato, con molta probabilità, dall’allinearsi o meno della doppia natura della moneta quale mezzo di scambio e riserva di valore, funzioni che attualmente sembrano, invece, agire in modo contrapposto. I possessori di BTC, così come coloro che ancora li estraggono (al pari di altre criptomonete), non li usano per comprare beni e servizi ma li trattengono nella prospettiva di un aumento del loro valore rispetto al dollaro attribuendo, quindi, alle critpomonete anche la funzione di riserva di valore.

Questa considerazione è confortata dall’estrema volatilità del valore delle monete elettroniche all’interno di un trend comunque rialzista, nonché dalla condizione, insita nell’algoritmo, di una possibilità di generazione limitata del loro numero complessivo. Non spendere le monete determina una ridotta diffusione del loro uso e dei servizi connessi alla commercializzazione che amplificherebbe, autoalimentadole, le tendenze deflazioniste della moneta stessa. La forte riduzione degli scambi di BTC per acquisto di beni e servizi – registrata dai mesi di luglio e agosto in poi  – è la conferma che la moneta sta assumendo e concentrando in se la sola funzione di asset di investimento speculativo, deprimendo la sua funzione di mezzo di pagamento. Solo l’aumento di tal funzione, e quindi della diffusione nell’uso concreto del BTC, potrà contribuire – al verificarsi di altre condizioni – a conferire stabilità al valore della “stringa” e aumentarne la credibilità come “moneta”.

Tra le condizioni favorevoli vi è senza dubbio quella di un aumento in qualità e quantità della infrastruttura per l’utilizzo del BTC come mezzo di pagamento. Su questo punto, iniziative di “venture capital” hanno già scommesso sui possibili sviluppi collocando investimenti sia in “start-up” specifiche che nel consolidamento e diversificazione delle aree di business di aziende già operanti nel mercato BTC. Le aree di business individuate non comprendono solo implementazioni nell’uso della moneta ma anche le prospettive aperte dall’uso esteso della tecnologia stessa del BTC, grazie alla quale costruire e diffondere nuovi standard e infrastrutture critiche delle comunicazioni telematiche per nuovi scenari di sviluppo delle transazioni on-line.

Questi scenari di ulteriore articolazione e sviluppo del mercato legato alla criptomoneta rischiano, tuttavia, di tradursi in un’occasione di ristrutturazione di un segmento di mercato del capitalismo finanziario con l’apertura di nuove aree di business frutto di quelle medesime logiche che il BTC voleva – almeno nelle sue origini e in parte dei suoi sostenitori – combattere. Certo potrà aver sortito una piccola mobilità sociale data dall’arricchimento improvviso di taluni ma, ben poca cosa rispetto alle promesse di liberazione dei molti che ne avevano salutato la nascita.

Se effettivamente il BTC è il prodotto della rete, lo stesso non può dirsi per il suo valore in dollari. Questo sembra piuttosto, e in prima istanza, l’esito di uno sfruttamento da parte di “alcuni” della risorsa cooperativa messa a disposizione dai “molti”. L’alto valore in dollari finisce, paradossalmente, da un lato per deviare dalla giusta direzione la cooperazione e, dall’altro, per consolidarne la sussunzione. E questo grazie alla (non tanto illusoria) possibilità di arricchimento individuale.

La dinamica finanziaria che sta alla base del valore del BTC sta, attualmente, riproducendo analoga dinamica dei rapporti di forza esistenti nel mondo della produzione e delle monete reali. Quel che si voleva evitare affidando alle macchine la generazione della moneta si è, invece, riproposto nella modalità di attribuzione del suo valore in dollari. Chi o cosa determina il valore? Chi o cosa nel mercato BTC ha preso il posto delle istituzioni governative nella determinazione del valore e delle sue oscillazioni?

Ironia della sorte: la moneta nata per scongiurare l’inflazione rischia di scomparire per deflazione.

Ma è nella natura anch’essa profondamente individualista dei molti che si nasconde la condizione stessa di tale sussunzione. Sussunzione che è rappresentata dal combinato alto valore in dollari del BTC e dal suo contemporaneo accantonamento e non utilizzo. Sussunzione che è resa possibile dalla ricerca della massimizzazione del profitto individuale, oltre la logica e il fine ultimo che aveva la moneta all’atto della sua ideazione e della scelta di partecipare alla sua creazione.

La moneta da strumento è divenuta fine in sé del processo di cooperazione moltitudinario. Anzi, per meglio dire, di una parte della moltitudine; quella, giova ricordarlo, tecnologicamente molto più alfabetizzata della media, parametro questo ormai indispensabile per definire le nuove caratteristiche della povertà relativa e della capacità di sopravvivenza nella società contemporanea e, in ultima analisi, anche parametro dirimente per una concreta attuazione di politiche del “comune”.

La capacità di elaborazione espressa dalla rete “peer to peer” che estrae i BTC è, già da tempo, superiore a qualsiasi rete analoga mai messa in esercizio. Vien da chiedersi se tale potenza di calcolo si sarebbe potuta ottenere per il raggiungimento di un obiettivo collettivo, ad esempio la ricerca della cura di una malattia. In altre parole, gli individui che attualmente stanno cooperando per prodursi BTC da tenere nei computer in vista di un aumento del loro valore in dollari, avrebbero messo a disposizione le loro risorse per un obiettivo non direttamente a loro vantaggio?

Il valore in dollari del BTC e la sua natura speculativa attuale sembrano, infine, anche essere conseguenza di errati presupposti insiti nella concezione alla sua stessa base.

Il suo ancoraggio di fatto al valore del dollaro, ne aveva da sempre connotano l’esistenza nei termini di affiancamento e non sostituzione delle monete legali. Anche la stessa promessa di immunità al processo inflattivo sarebbe risultata alquanto compromessa dall’essere il valore dei beni e servizi – eventualmente pagati in BTC – determinato prioritariamente dal loro valore espresso in dollari che, come tali, non ne sono immuni. Quindi, se da un lato il BTC è sottoposto a dinamiche deflattive endogene, esso è – nel contempo – soggetto a dinamiche inflattive esogene o da contagio. Questo in quanto il BTC non si mostra come moneta esito di una specifica e propria modalità di organizzazione della produzione e della società, quanto piuttosto si mostra anche’esso quale esito del modo di produzione capitalistico nella sua odierna configurazione tecno-finanziaria e biocognitiva.

Quattro anni fa, ad esempio, una pizza costava 9 dollari e, poichè un BTC era pari a 9 dollari, con un BTC si poteva comprare una pizza. Oggi la stessa pizza costa 9,50 dollari e, ipotizzando immutato il rapporto dollaro/BTC (ovvero ipotizzando di neutralizzare la spinta deflattiva endogena del BTC, cosa che sappiamo non sta accadendo nella realtà speculativa attuale essendo il rapporto BTC/dollaro pari a 900 a 1), occorrerebbero pertanto più BTC per acquistare quella stessa pizza.

Detta in altri termini, l’essere la relazione BTC/merce mediata dalla relazione dollaro (o valute “fiat”/merce) implica che anche il BTC si caratterizzi, in ultima analisi, come una variante delle monete del capitale.

Questa considerazioni assumono rilevanza per le riflessioni sulla possibilità di creazione di una “moneta del e per il comune” e sulla possibilità o meno di assumere a tale scopo il BTC o altre cripomonete.

La moneta è effetto, prima che causa, di una determinata configurazione della società, delle dinamiche di soggettivazione in essa agenti e dei rapporti di forza e di potere operanti.

Un ipotetico valore della moneta del comune dovrebbe rappresentare e contenere il valore della cooperazione sociale quale modo di produzione e distribuzione della ricchezza nella sua accezione più ampia, e non meramente economica nè monetaria, e la cui forza dovrebbe muovere verso la distribuzione piuttosto che nella concentrazione o accumulazione.

Così,  la potenza del denaro, attraverso la moneta, andrebbe “liberata” piuttosto che moltiplicata.

Così come, del resto, liberati andrebbero i desideri di vita delle singolarità verso modalità di soddisfacimento dei bisogni situati e qualificati da una “etica del comune”.

Ma proprio per questo il “comune”, inteso come non proprietà, potrà, in futuro, rappresentare un contropotere monetario. A tal fine, diventa sempre più imprescindibile attivarsi nella costruzione di circuiti finanziari alternativi non riconducibili alla legge dei poteri forti finanziari, oggi egemoni. Pensare di poter regolamentare i mercati finanziari per ricondurli sotto un controllo pubblico è pura illusione. La sfida va portata al massimo livello della governance finanziaria attuale. E questa sfida genera la necessità di  riappropriarsi della moneta non come “bene comune” ma, appunto, come “common”, ovvero come espressione e misura del valore di quella cooperazione sociale o general intellect che, oggi, viene espropriata dal divenire rendita dei profitti e soggetta alla misura (variabile) dettata dai rapporti di forza imposti dal ricatto dei mercati finanziari.

Come il reddito di base è la forma di remunerazione del comune, esito dell’agire rivendicativo-conflittuale del lavoro vivo precario, così, oggi più che mai, la moneta può essere espressione e misura di questo stesso comune (cooperazione sociale e general intellect), contropotere al comunismo,  selettivo, iniquo, gerarchico del capitalismo finanziario.

È ora che i precari comincino a immaginare anche forme di autogestione finanziaria.

M-commerce e moneta elettronica.

di Uriel Fanelli, Kein Pfusch

Torno un poco ad un post sul mio lavoro, e ne approfitto per continuare il discorso sull’m-banking, che tra 2013 e 2014 sara’ uno dei leit-motif delle nuove offerte del mondo mobile. Ho gia’ parlato in passato di m-pesa ( http://www.keinpfusch.net/2011/12/m-banking.html ) e del suo devastante (in senso positivo) impatto sulle economie di 4 paesi africani, ma le nuove proposte che vedo sono molto diverse.

Gestendo un grosso plesso per le comunicazioni M2M via SMS, ovviamente ho una visione limitata della cosa: i sistemi di m-commerce che useranno, per esempio, CAT-TP (una versione semplificata di TCP/IP) non passeranno da me, quindi non ricevero’ nessuna formazione specifica a riguardo. (design, sicurezza, usecases, troubleshooting , e cosi’ via).

Sul mio plesso stanno per passare 6-7 “propositions”, ovvero ci sono delle piccole “costellazioni” di telco e banche/carte di credito/aziende tecnologiche che costruiscono e testano i loro sistemi.

Considerata la dimensione del plesso in questione, potete considerare che solo nel mondo occidentale probabilmente tra 2013  e 2014 verranno lanciate due dozzine di servizi simili, piu’ asia (che a parte India e Cina il mio plesso non copre), e Africa. (Hai detto niente).

Facendo un passo indietro, m-pesa e’ stato il modello piu’ visibile e testato, dal momento che ha alzato di diversi punti percentuali il PIL di quattro paesi africani ( http://www.keinpfusch.net/2011/12/m-banking.html ) ma d’altro canto ha il “piccolo” difetto di non essere multitenant (lascia fuori tutti gli altri Tier-1) e di cancellare o ridurre al lumicino il sistema bancario locale.

Poiche’ le banche non africane hanno dei pregiudizi verso chi le cancella dal mercato, ma a differenza di quelle africane sono anche i finanziatori delle telco stesse, capite subito perche’ il modello m-pesa, con tutta la comodita’ di essere un modello legacy, non sara’ quello esportato nel mondo occidentale.

I giocatori piu’ grandi e piu’ cruciali in questa gara sono, con grande sorpresa, i produttori di SIM. Forse voi pensate che una SIM o una USIM, o una GUSIM, siano degli oggetti molto passivi, o delle semplici memorie, in realta’ sono piccoli calcolatori programmabili che possono svolgere funzioni molto intelligenti.

Il primo tratto comune in tutti i progetti che vedo, o quasi, e’ l’entrata in gioco della smartcard come componente separato, quasi un terminale a parte: a fare da terminale ATM per i pagamenti di fatto non e’ il cellulare, ma la SIM. Questo non dovrebbe stupirvi se pensate che anche la vostra carta di credito e’ una smartcard, ma la coppia di SIM + Cellulare fa si che la vostra carta di credito possa parlare con altri sistemi, con molta piu’ facilita’.

Questo risponde innanzitutto ad una domanda: perche’ dovrei usare il cellulare come carta di credito? la verita’ e’ che in tutte le soluzioni m-commerce che vedo, il cellulare e’ ATTORNO alla carta di credito, e serve a difenderla. Supponiamo infatti che la carta di credito venga rubata: essa verra’ usata o mossa in giro per il mondo, e non sapete dove sia. E specialmente, la vostra carta di credito non puo’ reagire.

Quando la carta di credito e’ dentro un cellulare, invece, la sua smartcard puo’ fare una cosa interessante: mandare un SMS avvisando cosi’ della propria posizione. Poiche’ la SIM necessita del cellulare e della rete mobile per pagare, ma quando entra in rete riporta la propria posizione e riceve comandi , di fatto non appena vi venisse rubata e’ possibile , a seconda del vendor, eseguire delle azioni.

Alcuni hanno sviluppato sistemi che in seguito alla denuncia mandano un SMS alla SIM, con l’ordine di cancellare ogni modulo installato dalla memoria. Non appena il malvivente mettera’ la SIM in rete per comprare con la vostra carta di credito, arrivera’ l’sms e la SIM cancellera’ le chiavi per gli acquisti. Alcuni fornitori hanno aggiunto – a seconda dei cellulari “in scope” – il rilevamento GPS (in coppia con una app ad hoc) oppure un heratbeat silenzioso, un sms binario inviato (gratis) ogni tot minuti, che dal momento del furto traccia la vostra sim. Il delinquente puo’ evitare il problema solo togliendo la sim dal telefono, il che ne esclude il pagamento.

Lavorare con le SIM ovviamente introduce delle criticita’. Innanzitutto occorre designare dei PIN allo scopo, e di PIN liberi non ce n’erano tanti. Alcuni produttori hanno reagito con sim ad hoc, altri identificando PIN non ancora usati. Purtroppo manca uno standard.

L’altro problema e’ la quantita’ piccola di memoria.

Uno dei vantaggi di tutti questi sistemi e’ quella di consolidare tante smartcard in una. Significa che voi passate dall’avere per esempio VISA, AMEX, Lufthansa Miles And More, EC card, Trenitalia card) ad una sola carta contenuta nel telefono. Questo significa che i vari fornitori di servizi (Lufthansa, Visa, Coop, – sto inventando, sia chiaro) federandosi ad una telco potranno “installare” da remoto la loro carta sulla vostra sim. Insomma, anziche’ darvi una carta di credito installano la carta di credito, o la carta servizi,  (o meglio, parte della memoria della smartcard) dentro la SIM.

Qui c’e’ la piu’ completa varieta’ di metodi di installazione: si va da CAT-TP a NFC a TCP-IP , da Bluetooth  sino ad SMS , il che richiede una piu’ o meno grande prossimita’ del vostro cellulare. In alcuni casi l’installazione puo’ avvenire da remoto, in altri casi avviene dentro la filiale dell’ente che vi fornisce il servizio. La comodita’ della mobilita’ in un caso viene poi compensata dalla sicurezza fisica dell’altro, e viceversa.

Suppongo che le banche preferiranno installarvi il bancomat con voi presenti in ufficio, almeno una banca europea sta per diventare un MVNO, ovvero vi vendera’ anche la SIM,  mentre magari servizi piu’ neutrali come Trenitalia, Deutsche Bahn o altri vendor di tessere fedelta’ come i supermercati potranno farlo da remoto.
Qui andiamo alla seconda domanda: qual’e’ il secondo motivo per il quale dovrei passare ad un servizio simile?La risposta e’ che una sola SIM puo’ consolidare da 5-6 a due dozzine ( a seconda di memoria e modello) di smartcard al proprio interno. Quindi, il vostro cellulare , in quasi tutte le implementazioni che vedo , diventa una specie di terminale universale verso tutti i servizi che necessitano di smartcard.
Ovviamente vi verra’ in mente il problema: e la sicurezza?
Il problema e’ che stanno facendo questa cosa PROPRIO per la sicurezza.
Le banche stanno notando un crescente aumento di frodi sugli ATM, che vengono manomessi per raccogliere credenziali: la loro idea e’ che se sostituiamo l’ ATM con il vostro cellulare, molto probabilmente nessuno riuscira’ a manomettere centomila cellulari. Se invece abbiamo 300 ATM (Bancomat, insomma) in giro in una grossa citta’. e lavorando in squadra riusciamo a manometterli tutti e 300, riusciamo ad impadronirci di decine di migliaia di carte di credito.
Impadronirsi in un giorno di decine di migliaia di cellulari e’ un pochino piu’ complicato, sicuramente, e dal punto di vista della rete mobile un eventuale magazzino con dentro 15.000 cellulari e’ “abbastanza visibile”.
Insomma, se pensate ad una banca che ha in mente di trasferire il suo bancomat sul vostro cellulare, la sicurezza del vostro ‘Bancomat/POS” e’ AUMENTATA. Per avere 15.000 credenziali di carte di credito mi basta assalire 300 bancomat, mentre se lo sposto nel cellulare, devo rubare 15.000 cellulari.
Anche le agenzie di carte di credito desiderano mettere un componente elettronico attivo attorno alla carta. Attualmente, per quanto sicura sia una carta , essa e’ in un certo modo incapace di difendersi se rubata. Mettere attorno ad una carta di credito un cellulare significa che il ladro di carte deve entrare in rete per usarla, ma se entra in rete, allora conosciamo la posizione della carta.
Inoltre, trasformare la carta di credito in un terminale attivo significa che per generare un PIN non avrete piu’ bisogno di hardware dedicato, cioe’ di una chiavetta, ma solo di un software, quando non potrete semplicemente ricevere un SMS col pin stesso.
Dal punto di vista di una VISA o di una mastercard, passare da una carta di credito totalmente inattiva ad una che comunica con la rete e’ un AUMENTO di sicurezza.
Rimane il tema della sicurezza informatica, ovvero il fatto che – nelle architetture che passano per la rete telefonica – occorre garantire che la SIM non venga raggiunta da un hacker.In questo senso, la coppia MSC/HLR+VLR funziona piuttosto bene, a patto che i messagi OTA possano venire mandati SOLO da apposite piattaforme, di proprieta’ della telco. IN questo senso, la telco lavora sempre come enabler, nella misura in cui fornisce l’ UNICA piattaforma OTA capace di interagire con la carta di credito telefonica, e qualsiasi altro segnale inviato da qualsiasi altra cosa non potra’ raggiungere la SIM stessa: nel mondo legacy SS7, questa condizione e’ facilmente ottenibile, ove “facilmente” significa che e’ MOLTO piu’ facile che da ottenere che nel mondo TCP/IP.
Di conseguenza, credo che oltre ai progetti che seguo come enabler, ci saranno in europa almeno un’altra dozzina o due di “federazioni” di servizi di m-banking , piu’ quelli che decideranno di non usare la rete e basarsi su implementazioni locali, come gia’ fanno alcune aziende di trasporti locali o alcuni supermercati.
Queste soluzioni hanno come player principali:

  1. Banche, Circuiti , in generale fornitori di servizi commerce oggi su smartcard.
  2. Fornitori di Servizi OTA, e relative piattaforme da integrare nelle reti mobili.
  3. Fornitori di interfacce tra igli (1) e gli OTA.
  4. Produttori di SIM sempre piu’ capaci.
  5. Telco, che ospitano gli OTA, distribuiscono le SIM e forniscono la rete mobile.
L’altro vero punto e’ : che genere di successo si prevede per questi servizi. Inizialmente basso, perche’ si tratta di cose che cambiano molto il modo di vivere delle persone, e come se non bastasse non ci sono standard consolidati. Questo significa che tutti sanno di trovarsi nel periodo di interregno tipico che precede la standardizzazione, ovvero quando tanti standard lottano e la fortuna di uno o dell’altro in ultima analisi e’ legata non solo a questioni tecniche, ma alla scelta del mercato, che puo’ anche derivare dalla app piu’ o meno simpatica usata da tizio piuttosto che da caio.
Perche’ lo fanno, allora? Lo fanno perche’ tutti loro sono coscienti che la loro competizione lo stia facendo. Questi enti si spiano a vicenda, alcuni hanno gia’ annunciato alla stampa le loro soluzioni ( http://techcrunch.com/2012/10/29/vodafone-to-launch-mobile-wallet-service-next-year-inks-deals-with-m-commerce-company-corfire-digital-security-firm-gemalto/ ) , e quindi devono esserci piacenti o meno. In Italia il panorama e’ un pochino desolante, e questo sara’, nei prossimi 5 anni, un altro gap tremendo : dopo una buona partenza, con una piattaforma condivisa di API per l’m-commerce (unico paese ad avere unificato le API tra gli operatori concorrenti), adesso sembra che le applicazioni scarseggino. Un prezzo che verra’ pagato carissimo entro cinque anni.
Che genere di societa’ avrete, che genere di economia avrete con un bancomat in tasca? Ho visto alcune slides con le “previsioni” di alcune grosse societa’ di consulenza (Goldman Sachs, McKinsey, et al) e devo dire che le idee sono molte e ben confuse, dandomi una sensazione tipo questa:http://dilbert.com/strips/comic/2013-05-15/
Scherzi a parte, queste aziende di consulenza strategica puntano il dito sempre e comunque sulla facilita’ di dematerializzare il negozio, ovvero trasformare il negozio in un ente che puo’ venire a casa vostra, avendo tutto quel che serve per pagare e registrare il pagamento. In effetti, ci si chiede come mai uno non possa aprire un negozio di vestiti mobile, che su chiamata venga la sera a casa vostra a mostrarvi alcuni vestiti (tipo lo chiamate e dite “devo procurarmi un vestito da sera, ho 40 anni, donna, porto questa taglia) e arrivi a casa un tizio con un piccolo campionario a vendervelo.(1)
In pratica, cioe’, rende molto facile per qualsiasi negozio avere una rete di venditori a domicilio, e la possibilita’ di avere pagamenti semplici con chiunque abbia un cellulare e si avvicini abbastanza a voi: idraulici, parrucchieri a domicilio, eccetera.
Oltre alla smaterializzazione del negozio e alla possibilita’ di portarlo a domicilio (od ovunque sia richiesto) , l’altro punto identificato e’ l’aumento di sicurezza. Come abbiamo detto, svincolarsi dal bancomat fisico per le banche diventa sempre piu’ urgente, perche’ essi sono oggetto di assalti che possono colpire migliaia di clienti alla volta, e anche il problema delle carte di credito smarrite/rubate/contraffatte e’ molto forte.
Un brusco aumento di sicurezza nei pagamenti ha effetti ancora ignoti, e soltanto un’azienda di consulenza (attualmente produce antivirus e sistemi anti-theft per cellulari, ed e’ l’unica ad avere fatti da mostrare) e’ stata capace di fornire una visione, ovvero il fatto che il “trust” nel canale impatta poco le operazioni di basso valore, ma rende piu’ frequenti le operazioni di maggior valore.
In definitiva, l’unica azienda a mostrare dei fatti ha mostrato come una diminuzione del rischio su un canale impatta prima le transazioni assicurate, che diventano meno costose. Di conseguenza, il problema non e’ se Amazon potra’ vendervi 100 euro di cose pagando in questo modo; il costo di questa operazione non cambia molto dal punto di vista di Amazon. Il problema semmai sara’ se un negozio potra’ vendervi con piu’ sicurezza (usando la carta di credito) roba normalmente assicurata, cioe’ molto costosa.
Altre societa’ di consulenza ci hanno mostrato le loro slides riguardo al possibile forecast di questi servizi (2), ma a parte pochi qualificati che menzionavano dei fatti (cioe’, gente che in passato ha fatto cose simili su larga scala e tenta di capire cosa sia successo) gli altri mi sono sembrati dei futurologi.Ora, il motivo per cui non ho fatto di questo blog un blog 100% tecnico e’ che ODIO i futurologi. E quindi non voglio diventarlo.
Voglio dire,  chi poteva prevedere l’exploit dei tablet? Alcuni futurologi potevano forse predirlo, e se mille persone predicono di tutto, dal pollo-velociraptor al download di prostitute, qualcuno ci azzecchera’, tantevvero che si vedono in giro polli ferocissimi alti due metri e mezzo. I quali attraversano la strada, inspiegabilmente.
A parte i futurologi, c’era qualcuno che poteva prevedere il successo dei tablet? Certo: Steve Jobs, per esempio. Indubbiamente la sua versione sarebbe stata di parte, e quindi piu’ che di una previsione si sarebbe parlato di visione, ma almeno poteva mostrarvi dei FATTI: “Alla Apple stiamo costruendo iPad e lo metteremo in commercio il tale giorno”. Ok, puo’ avere successo o meno, ma almeno c’e’ un cazzo di FATTO sotto. Quindi, se proprio volessi scegliere un futurologo, sceglierei chi FA le cose. Potra’ sbagliare o meno sul successo, ma almeno ha dalla sua il fatto di star FACENDO delle cose. Ha qualcosa da mostrare.Ma uno stronzo che passa la vita nei suoi vigneti in california e non sa riparare un interruttore di casa, non deve venirmi a scassare la minchia solo perche’ immagina un mondo cosi’ e cosa’. Ma che cazzo credete, che agli altri manchi l’immaginazione, o che bastino una barba , una pancia e una camicia (pessima persino per gli standard bavaresi) per prevedere il futuro?
Cosi’, deve essere chiaro che – nei limiti degli NDA che firmo – sto descrivendo cose che vedo, in alcuni casi ci sono cose che faccio, ma NON sono un “futurologo”. Posso dirvi come funzionano(3) 6-7 servizi che si integrano da noi (e quindi, ce ne saranno una trentina identici su scala della singola nazione, moltiplicato per gli altri continenti) e che usano le tecnologie che usiamo noi (e quindi lasciamo fuori altre decine di idee)  , posso dirvi come la vedono le aziende che ci si stanno buttando, ma se mi chiedete come sara’ il mondo tra dieci anni vi posso dire che PROBABILMENTE, MOLTO PROBABILMENTE ci sara’ una grossa percentuale di m-commerce , ma non e’ che ci vivi con una simile “previsione”. Almeno, io non riesco a farmi pagare per questo.Forse dovrei coltivare uva in California, o vivere in un faro al largo di Dover, usare camicie orribili, farmi crescere un barbone ed ingrassare moltissimo.E specialmente, trovare polli disposti a pagarmi per questo.

Nel frattempo, credo che vi dovrete accontentare di quello che scrivo. Non vi parlo di come il vostro cellulare fara’ il download della vostra fidanzata dalla rete, ma cosa volete, il futuro non e’ piu’ quello di una volta.

Uriel
(1) Non prendetevela con me, questo esempio viene da un tizio che evidentemente ama comprare vestiti.
(2) Si, dobbiamo sapere come gestire la capacita’. Presto potremmo trovarci nelle condizioni di avere i saldi online, o saldi pagati con sistemi di acquisto M2M, e quindi una semplice stagione dei saldi potrebbe alzare il traffico.
(3) Nei limiti dell’ NDA significa che posso menzionare tecnologie standard, roba che si studia a scuola per chi ci arriva, e che magari e’ ignota agli altri.

E se all’euro affiancassimo le monete locali?

di Nicolò Cavalli, Linkiesta – 22/04/2012

Questa sera Report ha parlato del progetto di una valuta complementare all’euro in corso a Nantes  messo a punto da Massimo Amato e Luca Fantacci della Bocconi. Ripubblichiamo un’intervista a Fantacci dell’agosto dell’anno scorso dove spiega la proposta: occorre che l’euro «sia affiancato, non sostituito, dalle monete nazionali». Così «le economie locali potrebbero tornare ad avere una moneta adeguata e una reale autonomia politica». Secondo l’economista, «è l’unica via d’uscita plausibile». 

Luca Fantacci insegna Scenari economici internazionali e Storia, istituzioni e crisi del sistema finanziario globale all’Università Bocconi di Milano. Distinguished Visting Fellow presso il Christ’s College di Cambridge, il professor Fantacci ha recentemente curato una raccolta di saggi di Keynes, intitolata Eutopia – Proposte per una moneta internazionale e ha pubblicato, insieme a Massimo Amato, Fine della Finanza. Da dove viene la crisi e come si può pensare di uscirne. A lui abbiamo chiesto lumi sulla situazione finanziaria che sta destando la preoccupazione di risparmiatori, politici, investitori di tutto il mondo.

Professore, che cosa sta succedendo da qualche settimana nelle borse?
Niente, e proprio questo è il problema. Non c’è un solo fatto nuovo che giustifichi il terremoto finanziario delle scorse settimane: dalle difficoltà di Obama con il Congresso alle fragilità fiscali dell’Europa, tutto era già presente e noto. Perfino il downgrading degli Usa era già stato più volte preannunciato. Per non parlare dei debiti pubblici, che hanno potuto crescere per anni senza preoccupare nessuno. Davvero, non è successo niente di nuovo e sconvolgente.

Nulla di cui preoccuparsi, dunque?
Tutt’altro. È proprio questo terremoto in assenza di novità il dato allarmante, su cui è opportuno riflettere: se oggi, senza motivo, i mercati finanziari tremano, vuol dire che fino a ieri erano spavaldi, ugualmente senza motivo. Niente giustificava i guadagni di ieri, così come niente può spiegare le perdite di oggi o i recuperi di domani. I mercati finanziari dimostrano di avere sempre meno un criterio attendibile per distinguere fra quando va bene e quando va male, fra chi va bene e chi va male.

Una finanza che vive in un mondo che ha poco a che fare con la realtà?
Non mi riferisco a una semplice scollatura tra finanza ed economia reale. È perfettamente legittimo, e anzi necessario, che il valore di borsa di un’azienda possa discostarsi temporaneamente dall’andamento corrente dei suoi affari. Perché la borsa, per sua natura, guarda avanti: guarda ai profitti futuri, non a quelli attuali; esprime aspettative e può sbagliarsi. Ma, affinché questo gioco di scommesse abbia un senso, bisogna che almeno due condizioni siano rispettate. Primo, occorre che a un certo momento una linea sia tracciata e i conti siano fatti. Bisogna che finisca la gara, in modo che si veda chi ha scommesso sul cavallo vincente. Secondo, occorre che l’esito della corsa non sia condizionato dall’andamento delle scommesse. Ma questo è proprio ciò che non avviene in borsa, dove non si verifica né la prima né la seconda condizione.

Cosa intende dire?
È molto semplice: gli andamenti dei valori di borsa non riflettono più alcun tipo di “fondamentale”, non si basano più su alcun giudizio in merito alla solidità economica o politica dell’emittente. Nei momenti di massima volatilità, come in questi giorni, siamo tutti d’accordo a dire che “basta un nulla” per scuotere i mercati e che a tenere il campo sono le aspettative che si autorealizzano. Tanto è vero che si parla comunemente, anche sulla stampa finanziaria, di “speculazione” e si dà per scontato che è il mercato finanziario a dettare l’andamento dell’economia reale, perfino le sorti di interi paesi, e non viceversa. Ma c’è da chiedersi se, nei periodi cosiddetti normali, la maggiore calma non dipenda unicamente da una maggiore unanimità delle aspettative, da una maggiore tenuta delle convenzioni, da una maggiore stabilità emotiva. In finanza come in amore, rischiamo di essere in balia delle emozioni, attrattive o repulsive che siano: e quello che, fino a ieri, era visto come un investitore benefico, oggi è chiamato un avido speculatore, con la stessa volubile inconsistenza che fa apparire l’amante della sera prima come un’opportunista spregevole.

Il che non sembra molto rassicurante per le sorti del nostro Paese, finito anch’esso nel mirino degli “speculatori”.
Ecco, ciò che sta accadendo con i titoli del debito pubblico italiano è un buon esempio del carattere autoreferenziale dei mercati. I buoni del tesoro possono anche essere visti come un investimento nell’azienda-Italia. Ma, a dispetto di quest’orribile espressione, gli stati nazionali, a differenza delle aziende, non sono fatti per fare profitti e per remunerare i detentori dei titoli, non presentano un bilancio consuntivo, e non esiste alcun criterio certo sulla base del quale possano essere giudicati redditizi o anche semplicemente solvibili. Eppure, tutto ruota attorno a quel punto: la caduta del prezzo dei titoli di stato e il corrispettivo incremento del loro rendimento, e dunque l’ampliarsi del differenziale rispetto al rendimento degli omologhi tedeschi, i timori di un’ulteriore recessione, le preoccupazioni per la disintegrazione dell’euro, il crollo delle borse… tutto è stato scatenato dal timore di un possibile default dell’Italia.

Si tratta di un rischio concreto?
Questo è appunto il problema. Per poter rispondere, e magari assegnare un grado di probabilità all’evento, come si pretende di fare sul mercato, bisognerebbe poterne dare una definizione univoca. Ora, che cosa significhi essere “in default”, o “insolvente”, nel caso di un’impresa è chiaro: significa non essere in grado di pagare i propri debiti, ossia non avere attività sufficienti per far fronte alle proprie passività. Ma, sulla base di questa definizione, tutti gli stati sono insolventi! Nessuno stato è in grado di ripagare i propri debiti. D’altro canto, gli stati non sono nemmeno tenuti a ripagare i loro debiti. I debiti degli stati, da quando hanno preso la forma di titoli negoziabili sul mercato, ossia da poco più di trecent’anni, non sono più fatti per essere ripagati, bensì per essere continuamente rinnovati e per circolare indefinitamente. I titoli di stato sono emessi, sono acquistati e rivenduti ripetutamente sul mercato e, quando giungono a scadenza, sono rimborsati con i proventi dell’emissione di nuovi titoli.

In che senso, allora, si può parlare oggi di stati a rischio di insolvenza?
Il termine è utilizzato con un’accezione ben diversa, per riferirsi all’incapacità di uno stato di rifinanziarsi sul mercato a condizioni sostenibili. Si dovrebbe parlare, propriamente, non di “solvibilità”, ma di “sostenibilità” del debito. Ed è ben più problematico. Non soltanto perché il concetto è più vago, privo di una definizione univoca. Ma soprattutto perché il fenomeno che esso descrive è fortemente autoreferenziale. Infatti, quanto meno un debito pubblico appare sostenibile, tanto più costa allo stato indebitarsi; ma quanto più aumenta il costo del debito, tanto meno risulta sostenibile.

Un circolo vizioso che conduce gli stati sull’orlo del baratro.
Si tratta di un problema che è al tempo stesso politico ed economico. Quando uno stato, come l’Italia o la Grecia, accumula un tale debito nei confronti degli stranieri da dover rendere conto delle proprie decisioni ai creditori prima ancora che ai cittadini, allora si ha un problema politico: in che senso possiamo ancora parlare di una democrazia, quando a dettar legge non è il popolo né il parlamento né il governo, bensì una trojka internazionale Bce-Ue-Fmi, in rappresentanza degli interessi dei creditori? D’altro canto, quando la capacità di un debitore di ripagare i propri debiti dipende assai più dal grado di fiducia dei mercati che dalle proprie prestazioni, comunque le si voglia misurare, allora il problema è anche economico: in che senso si può ancora parlare di un investimento, quando il tasso di rendimento non ha alcun rapporto con alcuna misura, per quanto imprecisa, di produttività, ma dipende unicamente dal grado di sfiducia dei creditori? Sul piano politico, la concessione di crediti condizionati, subordinati all’adozione di determinate misure, come quelli che la Bce oggi concede all’Italia, non può essere letta che come l’instaurazione di un regime di sovranità limitata nel paese debitore. Sul piano economico, la concessione di crediti a tassi d’interesse del 16%, come quelli che oggi il mercato accorda alla Grecia, non ha altro nome che usura.

È la crisi dell’Europa?
Senza dubbio. Una crisi dovuta alla pretesa di costruire l’unione politica sull’unificazione monetaria. Ma il problema non consiste nel ritornello secondo cui “ha prevalso l’economia sulla politica”, piuttosto nel fatto che si è mancato di vedere il piano politico e il piano economico nella loro articolazione. L’unificazione economica e monetaria è già, in sé, un atto politico. Non c’è nessuna legge economica che ne detti la necessità, tanto meno la forma. Può essere realizzata in modi diversi: il mercato comune non implica necessariamente la moneta unica, la libera circolazione dei beni non comporta necessariamente il movimento indiscriminato dei capitali. Come mostra concretamente il precedente storico dell’Unione Europea dei Pagamenti che, negli anni ’50, ha assicurato ai paesi europei crescita, stabilità e integrazione economica, senza bisogno di una moneta unica. Viceversa, l’euro ha accordato un po’ di stabilità e un po’ di crescita, ma a costo di una crescente divergenza fra i paesi membri che oggi rischia di compromettere sia la crescita sia la stabilità.

E che cosa si dovrebbe fare?
Credo che sia opportuna una riforma radicale della governance dell’Unione Europea, come da più parti auspicato: una revisione del patto di stabilità, un emendamento dello statuto della Bce, e magari anche la ricostituzione dell’Unione Europea dei Pagamenti. Per gestire l’emergenza, ossia la crisi dei debiti pregressi, sono convinto che non ci sia altro da fare che consentire alla Bce di agire da prestatore di ultima istanza, acquistando titoli del debito pubblico dei paesi membri. E naturalmente, è bene che tali prestiti siano accompagnati da raccomandazioni ai governi che ne beneficiano, perché adottino politiche di rigore, in modo da arginare l’azzardo morale, ossia la tentazione del figliol prodigo di tornare a spendere, abusando della misericordia del padre. Ma sarebbe ben più efficace di qualunque raccomandazione se gli stati europei non potessero né dovessero continuare a contrarre nuovi debiti, emettendo titoli sui mercati internazionali.

Sembrerebbe un’utopia…
In verità, proprio questo sarebbe reso possibile se si mettesse in opera un’istituzione analoga all’Unione Europea dei Pagamenti, che fungesse da camera di compensazione multilaterale per i debiti e i crediti contratti tra paesi dell’eurozona. Questo avrebbe un duplice vantaggio. Primo, consentirebbe di distinguere il debito pubblico, che è un affare interno fra i cittadini e lo stato, e il debito estero, che è un rapporto fra paese creditore e paese debitore. Secondo, consentirebbe di apprezzare il fatto che il debito estero beneficia entrambi i paesi, poiché permette al debitore di acquistare ciò che altrimenti non potrebbe acquistare, ma permette anche al creditore di vendere ciò che altrimenti non potrebbe vendere. Se il sistema dei crediti fra paesi s’interrompe, ci rimettono entrambi. Non è un caso se la crisi del debito nell’Europa meridionale ha comportato anche un arresto della crescita in Germania, come registrano i dati di questi giorni. Se gli italiani non comprano, i tedeschi non vendono. Il mercato è aperto, ma nessuno ci va…

Quindi?
Quindi è bene che, a differenza di quanto oggi avviene, l’onere del debito non venga sopportato, economicamente e simbolicamente, soltanto dai paesi debitori. Mentre le nuove istituzioni create per gestire la crisi debitoria europea, come l’Efsf (European Financial Stability Facility) continuano a far gravare l’onere e l’onta degli squilibri sui paesi debitori, l’istituzione di una camera di compensazione europea consentirebbe di ripartire equamente l’onere dell’aggiustamento fra creditori e debitori.

Sta parlando di un’Europa senza euro?
No, la mia proposta non è affatto di abolire l’euro, ma anzi di difenderlo dai suoi stessi difetti, che oggi rischiano di portarlo alla dissoluzione. E, per far questo, occorre che sia affiancato, non sostituito, dalle monete nazionali, e magari anche da monete regionali e locali. Così l’euro potrebbe essere davvero soltanto un mezzo di scambio, per agevolare il commercio europeo. Ma, al tempo stesso, le economie locali potrebbero tornare ad avere una moneta adeguata e una reale autonomia politica, senza rinunciare all’apertura verso l’esterno. Altrimenti continueremo a sacrificare ogni comunità in nome della Comunità Europea, salvo poi sacrificare la Comunità Europea in nome del mercato globale.

Ma è una strada percorribile quella che propone?
Dal mio punto di vista, è l’unica via d’uscita plausibile da una situazione in cui gli stati hanno sempre meno margini di manovra e i mercati hanno sempre meno contatto con la realtà. A differenza di quattro anni fa, non possiamo più fare affidamento sull’intervento pubblico. Oggi l’alternativa a una riforma radicale non è l’intervento dello stato in economia, ma l’interferenza sempre più cogente e pervasiva del mercato finanziario nella vita politica. Infatti, stante l’attuale forma delle istituzioni economiche, l’unica politica concessa è quella che viene giudicata adeguata dal mercato finanziario, indipendentemente dal suo contenuto. E che cosa vuole il mercato? Niente di chiaro e definito. Vuole soltanto essere rassicurato. Le manovre dei nostri governi possono essere opportune e risolutive, oppure insensate e controproducenti, ma, in ogni caso, se il mercato le reputa adeguate, ricomincia ad acquistare i nostri titoli, i rendimenti scendono, e noi siamo salvi. Come l’autocrate totalitario descritto da Koestler, il mercato ha sempre ragione, purché non si metta mai in dubbio la sua parola, anche se dovesse dichiarare ad ogni istante una verità nuova.

Una banca che finanzia le pmi e non specula? Esiste

di Alessandro Montesi, Linkiesta – 12/04/2012

È una banca che finanzia un quarto delle pmi svizzere ma non cumula e non specula ed è fondata sulla circolazione sicura del credito. È la Wirbank, istituto cooperativo svizzero basato su una moneta complementare e alternativa e nato non casualmente nel 1934, in mezzo alla Grande Depressione. I wir sono una moneta gestita attraverso una camera di compensazione (uno spazio condiviso per banca e cliente) che assicura una fonte di finanziamento costante e sicura per le Pmi. Si crea così un credito sempre presente, come dimostrano i dati in un rapporto: si stima che nel 2010 la circolazione di wir era pari a 1,3 miliardi di franchi svizzeri, circa un miliardo di euro.

Si è detto e si continua a dire che la crisi dell’economia mondiale iniziata nel 2007 è una crisi di credito, tecnicamente credit crunch o crisi di liquidità. Una crisi di liquidità che ci priva non solo del credito, ma anche della moneta stessa nel momento in cui essa non è spesa ma accantonata. Ma il credito non implica necessariamente la cessione di denaro: è moneta nel momento in cui la si considera come una merce (quindi scambiabile in un mercato) e il tasso d’interesse che rappresenta il suo prezzo.

Secondo due docenti dell’Università Bocconi Massimo Amato e Luca Fantacci, autori del libro “Fine della finanza”, il credito non è moneta ma più semplicemente «un’anticipazione» in vista di una chiusura. La forma più semplice di anticipazione è il differimento del saldo del debito. Il credito non è una cosa (la moneta) ma una relazione. Il credito non necessita affatto di una accumulazione di moneta, scrivono Amato e Fantacci, «quanto piuttosto dell’istituzione di uno spazio condiviso (per creditore e debitore) di promessa e attesa».

In Svizzera c’è una banca che potrebbe rispondere alle criticità della crisi attuale. Wirbank è una banca cooperativa svizzera basata su una moneta complementare e alternativa, i wir e ha sette succursali a Basilea, Berna, Lucerna, Losanna, Lugano, San Gallo e Zurigo e una agenzia a Coira. Il wir è una moneta non fisica ma solo contabile e quindi totalmente indipendente dal mercato finanziario. Una moneta gestita attraverso una camera di compensazione (uno spazio condiviso per banca e cliente) che assicura una fonte di finanziamento costante e sicura per le piccole medie imprese. Wir che in tedesco significa «noi», ricorda ai soci-partecipanti della banca che il circuito economico è rappresentato dalla comunità stessa.

La storia della Wirbank inizia non casualmente nel 1934 ed è direttamente collegata alla Grande Depressione seguita al giovedì nero del 1929. Colpiti dalla prima grande crisi economica mondiale del credito, un gruppo di 16 imprenditori svizzeri, con in mente le teorie dello studioso Silvio Gesell, si unì per creare un nuovo circuito economico. Per ovviare alla mancanza di liquidità, decisero di utilizzare un sistema di compensazione di crediti e debiti non basato sulla moneta ufficiale, il franco svizzero, ma basato su una moneta complementare, il wir. Oggi, a quasi 80 anni dalla sua fondazione, la cooperativa movimenta circa 1,5 miliardi di wir l’anno (equivalenti ma non convertibili in franchi svizzeri) e finanzia un quarto delle pmi svizzere (circa 82mila imprese con al massimo 200 dipendenti, come risulta anche da una recente ricerca accademica).

Dall’euro al dollaro, la moneta è una riserva di valore e rappresenta per il suo detentore «la ricchezza», come si impara da bambini mettendo via i soldi nel salvadanaio. Questo concetto di risparmio monetario implica una sottrazione dalla moneta dal circuito economico. Ad esempio, la crisi subprime è stata caratterizzata proprio dall’assenza di liquidità: si preferiva risparmiare piuttosto che comprare i cosiddetti titoli tossici (subprime). J.M. Keynes nel suo “Trattato sulla riforma monetaria”(1930), identifica la moneta come un puro intermediario, diversamente da adesso, senza un vero significato, che scorre da una mano all’altra. Un intermediario che «è ricevuto e speso, e, quando il suo lavoro è compiuto, sparisce dalla somma delle ricchezze di una nazione.».

Come ovviare alla mancanza di liquidità che caratterizza i mercati? La Wirbank ha risposto a questo domanda usando una camera di compensazione e una valuta complementare a quelle reali, come il franco svizzero (o l’euro e il dollaro). In un sistema come quello della camera di compensazione, la liquidità non serve come non servono le riserve di moneta. Nei libri contabili della banca vengono registrati solo crediti e debiti nella moneta complementare, ripagabili attraverso l’incasso dei futuri investimenti. All’interno di questo sistema, non conta quanta moneta uno detenga, ma la posizione positiva o negativa nei confronti degli altri membri del circuito. Tutto tende naturalmente al pareggio dal momento che è la compensazione fra crediti e debiti ad assicurare l’incontro fra creditore e debitore. Nessun rischio di “cartolarizzazione” del titolo di credito-debito, dato che una delle caratteristiche del wir è quella di fare della moneta solo un’unità di conto e un mezzo di scambio. Per i correntisti di Wirbank risparmiare wir non ha senso poiché non esistono e non sono riconvertibili in franchi, mentre per un italiano risparmiare euro è il problema maggiore perché non sempre reperibili e il più delle volte trattenuti dalle banche.

E per salvarsi Atene potrà perfino stampare moneta…

di Fabrizio Goria, Linkiesta – 21/03/2012

È stato attivato il 25 agosto lo schema Ela, che consente alla Grecia di stampare moneta, in deroga ai trattati europei che attribuiscono tale funzione solo alla Bce. La richiesta è stata avanzata già da due grandi banche. Ci sarà da fidarsi? Intanto arrivano i primi calcoli sul default greco: che costerebbe 97 miliardi di euro.

Dopo l’Irlanda, la Grecia. La scorsa settimana la Banca centrale ellenica ha attivato l’Emergency liquidity assistance (Ela), un particolare meccanismo di prestiti assistenziali messi a disposizione del sistema bancario. Tramite questo schema saranno iniettati nuovi capitali, erogati tramite la stampa di moneta ex novo in deroga ai Trattati europei. Alla luce di questo, nel giorno della fusione fra Alpha Bank ed Eurobank, due fra le maggiori banche elleniche, aumenta il rischio di un veloce peggioramento della situazione debitoria di Atene.

Non è la prima volta che la Banca centrale europea (Bce) permette l’uso di questo genere di strumento straordinario. Nell’ultimo anno fu Dublino ad adottarlo, stampando moneta al posto dell’Eurotower per fornire liquidità al sistema bancario irlandese. A scoprire questo utilizzo ai limiti dei trattati europei fu l’Irish Independent, accusando la banca centrale di Dublino di aver erogato oltre 51 miliardi di euro ai propri istituti di credito in deroga alla sovranità monetaria della Bce. Accuse che poi si sono rivelate fondate. Ora la storia potrebbe ripetersi per la Grecia.

Come quanto anticipato dal quotidiano greco Imerisia, il 25 agosto è stato attivato lo schema Ela alla Banca di Grecia. Due grosse banche, nei primi istanti di vita dello strumento, hanno chiesto di poter accedere al programma. Sono tre le condizioni per l’apertura delle linee di credito: situazione straordinaria, elevate garanzie a collaterale, erogazione per un tempo limitato. E i sospetti sui due istituti di credito che hanno subito domandato di aderire all’Ela sono caduti su Alpha Bank ed EFG Eurobank Ergasias, ovvero le protagoniste della più grande fusione interbancaria della storia ellenica, istituzionalizzata nelle scorse ore.

A peggiorare la già precaria situazione del sistema bancario ellenico ci hanno pensato i risparmiatori. Negli ultimi nove mesi dagli istituti di credito greci sono usciti 21,4 miliardi di euro, dirottati fuori dal Paese per via del rischio insolvenza. Questo nonostante le raccomandazioni del ministro delle Finanze Evangelos Venizelos, che ancora tre giorni fa ha ripetuto che «le banche elleniche sono solide, ben capitalizzate e al sicuro dalla tempesta finanziaria». Parole che, alla luce dell’attivazione dell’Ela, sanno di beffa.

C’è tuttavia un altro aspetto che deve preoccupare. In un interrogazione dello scorso febbraio un parlamentare Ue ellenico del PPE, Konstantinos Poupakis, ha domandato in che modo funzionasse l’Ela, quali erano gli esempi recenti dell’adozione di questo strumento e fino a che punto poteva incidere sulla massa monetaria presente nell’eurozona. In pratica, il preludio a quanto successo pochi giorni fa. La risposta a Poupakis del Commissario Ue agli Affari economici e monetari, Olli Rehn, è stata laconica: «La Commissione europea non detiene statistiche sulla varie operazioni Ela (…), mentre è la Bce che cura questi aspetti». Facile immaginare quindi come possa essere rischiosa questa asimmetria informativa. Il paragone è veloce. Come dal 2005 a oggi Atene ha mistificato i propri conti pubblici agli occhi dell’Europa, è possibile che anche per l’Ela faccia lo stesso. Del resto, lo schema di liquidità assistenziale, come ha ricordato il Commisario Rehn, non rientra nei programmi dell’Eurosistema, benché possa essere utilizzato al suo interno. Diventa quindi ostico, sia per la Bce sia per la Commissione, monitorare l’esatta erogazione della liquidità. Il rischio è quindi che, facendo leva su tale opacità, le banche greche possano subire iniezioni di capitali freschi stampati ex novo o senza le dovute garanzie.

Nel frattempo, stanno emergendo nuovi dettagli su quanto potrebbe costare un fallimento di Atene. Secondo Reuters Insider il default della Grecia costerebbe 97 miliardi di euro, più tutti i fondi finora erogati da Ue, Bce e Fondo monetario internazionale (Fmi). Un terzo, invece, sarebbe il prezzo da pagare in caso di bancarotta portoghese. Per Lisbona, in caso di collasso, le perdite si aggirerebbero intorno ai 31 miliardi di euro, più le linee di credito per il salvataggio. Minore il costo per l’Irlanda, 13 miliardi di euro. Nel complesso, compreso il pagamento dei Credit default swap (Cds) pari a 2,8 miliardi di euro, il fallimento dei tre Paesi sarebbe in grado di generare un buco da 144,2 miliardi. Il tutto senza contare la liquidità erogata dal maggio 2010, data del primo bailout europeo, a oggi. E il conto finale aumenta sempre di più.

Baratto e moneta complementare: così le Pmi combattono il credit crunch

di Dario Aquaro, Sole24ore – 16 marzo 2012

Se la stretta creditizia non dà respiro, la risposta di tante piccole e medie imprese si dispiega tra vecchie pratiche e innovazioni del sistema di business. È tornato il baratto, si sente ripetere spesso. Non se n’è mai andato, in realtà, ma solo adattato alle nuove esigenze: lo scambio di beni e servizi senza uso di moneta sfrutta oggi le potenzialità della rete. E mai come negli ultimi mesi si è registrato un tasso di adesione così alto ai vari circuiti di “compensazione multilaterale”.

Il baratto funziona così. Ogni azienda paga un abbonamento annuale per far parte del circuito: scambia i prodotti senza nessun pagamento (con una commissione sulle vendite). Chi vende non è obbligato ad accettare la merce dell’acquirente, ma può comprare ciò che gli serve presso altri fornitori del network (che garantisce ogni transazione dal rischio d’insolvenza tramite accordi con società assicurative). La moneta complementare (nome a effetto per riferirsi all’unità di conto della transazione) consente di acquistare senza utilizzare denaro, ma con beni e servizi propri o nuove vendite ai clienti del network.

Sperimentata da tempo in altri paesi, la nuova forma di barter in Italia ha storia recente. Il primo network è stato BexB, spa bresciana nata nel 2001 e che da allora ha intermediato 200 milioni di euro: 72 milioni solo nel 2011, quando ha concluso 9mila operazioni (circa 25 al giorno) sulle 60mila totali portate a termine in dieci anni di attività. Il circuito conta oltre 2200 Pmi associate in tutto il paese (con un fatturato aggregato di circa 21 miliardi di euro), che coprono circa 160 settori merceologici dall’edilizia all’arredamento, dalla meccanica alla chimica, all’informatica, «e le adesioni stanno crescendo al ritmo di 50-60 al mese», afferma Simone Pietro Barbone, marketing account. «Il trend annuale di crescita è del 15-20%, ma nel 2011 è stato quasi del 30 per cento».

BexB ha una quota associativa che varia (da 500 a 4mila euro) in base alla classe di fatturato dell’azienda, così come le provvigioni (dal 2 al 50%). Sta sviluppando una nuova piattaforma tecnologica, che sarà lanciata a breve, e progetta l’apertura di nuove agenzie (oltre a quelle di Napoli e Roma, e le altre di Firenze, Bari e Treviso in fase di start-up). «Non intendiamo però crescere più delle nostre possibilità – spiega Barbone – perché dobbiamo sempre essere in grado di gestire il network in modo adeguato. Infatti non apriamo a tutti, ma valutiamo bene ogni nuova richiesta». L’obiettivo non celato è di arrivare a offrire il servizio della svizzera Wir Bank, che è anche il modello per questo tipo di business: nata nel 1934, oggi conta 60mila Pmi associate.

«Stiamo realizzando importanti operazioni a Napoli, la nostra seconda città per transazioni dopo Brescia, entrando nel mercato immobiliare, con appartamenti scambiati al 100% in compensazione: perché ci sono aziende che hanno venduto un tale quantitativo di merci da assicurarsi crediti (EuroBexB) per l’acquisto di un immobile». C’è infatti una soglia (2mila euro) oltre la quale è possibile trattare la percentuale di compensazione della transazione (la rimanente viene affidata alle modalità di pagamento tradizionali). Dipende da settori e aree geografiche, e naturalmente bisogna trovare una controparte che accetti la proposta: il prezzo più appetibile è sempre quello al 100% in compensazione.

Crescono le aziende interessate al barter, crescono gli operatori. È presto però per parlare di concorrenza, dicono i responsabili dei vari network, il potenziale di mercato è elevato. Cambiomerci è nata a ottobre 2011 e in pochi mesi ha associato quasi 200 aziende in tutta Italia. «L’aumento è continuo, anche se non siamo ancora a pieno regime con la rete di vendita, la maggior parte delle aziende sono situate in Campania, a Roma, e lungo la costa adriatica», racconta il direttore Francesca Scarpetta, che lavora in tandem con il marito e amministratore delegato Antonio Leone. Con due sedi fisiche (Napoli e Milano) e una rete di agenti sparsi per il paese, Cambiomerci punta ad «arrivare entro la fine dell’anno a mille e più aziende associate, anche grazie al nuovo portale che sarà attivo dalla prossima settimana, perché per ora – aggiunge Scarpetta – la maggior parte delle adesioni è arrivata attraverso il call center. Intanto in aprile a Roma parteciperemo al Forum delle eccellenze».

Gli auspici sono anche quelli di non limitarsi al B2B e affacciarsi al privato: «già adesso c’è chi propone prodotti che è difficile piazzare ad altre aziende, per esempio: 2mila biciclette. Chi le prende?». Ma la rete delle imprese interessate al nuovo baratto è sempre più assortita. «Di recente ci ha contattato un giornale che ha chiesto di associarsi perché la pubblicità gli è stata pagata in integratori alimentari: vorrebbe così proporli nel circuito e convertirli in crediti (Ecm: Euro-Cambiomerci) o prodotti che siano utili all’attività, magari attrezzature per l’ufficio».

Anche Cambiomerci (che prevede una quota associativa annua di mille euro e opera su ogni scambio una provvigione che varia dal 2 al 15% in base alla marginalità del settore) offre la possibilità di trattare la percentuale di compensazione.

Un caso differente è quello di Sardex, network nato nel 2009 e operativo da gennaio 2010. Che non fa barter in senso ufficiale. «Certo ci siamo ispirati all’esperienza di Wir e il metodo è sempre lo stesso, quello di lavorare come camera di compensazione – spiega il responsabile della comunicazione, Carlo Mancosu – ma dire che facciamo baratto è riduttivo, e poi: sai che novità!». I quattro fondatori sono partiti osservando quel che nel 2006 avveniva negli Usa, oltre che il tessuto micro-imprenditoriale sardo «dove è eufemistico dire che non si faccia rete». L’iscrizione al circuito prevede sì una quota, ma il modello di Sardex differisce dai circuiti di barter «perché non abbiamo provvigioni sulle transazioni. Seguendo uno studio legato all’esperienza nell’Iowa, le abbiamo eliminate e ottenuto grandi risultati: erano una barriera all’ingresso». I volumi di adesione sono in grande crescita: 500 aziende registrate, e circa 300 in attesa. Nel 2010 sono stati scambiati 350 mila crediti (anche il Sardex, per comodità e facilità equivale a un euro), 1,2 milioni nel 2011 (+370%), e in questi primi mesi del 2012 si è già arrivati alla metà di quelli dell’anno scorso.

Sardex (che ha sedi a Cagliari e a Serramanna) ha ambito prettamente locale, e punta a favorire lo sviluppo delle imprese sarde. Al B2B si sta però affiancando il B2C, la cui gestazione è in fase avanzata. «Oggi – prosegue Mancosu – c’è una parte di business rivolto ai consumatori, perché sia titolari che dipendenti delle aziende ricevono pagamenti in Sardex. I vantaggi sono evidenti: si evita di gravare sulle finanze dell’aziende e si limitano i licenziamenti. A breve ci sarà un’apertura ufficiale ai consumatori: a maggio è previsto il lancio, a giugno la sperimentazione a Cagliari città, e poi a settembre si partirà definitivamente».

Con il supporto di Sardex, in Sicilia a giugno decollerà Sicanex, con un tour di presentazione che anticiperà il via definitivo al nuovo circuito «Ci sono arrivate diverse richieste, ma la prima replicabilità di Sardex l’abbiamo avviata con i siciliani».

C’è la possibilità di costruire un grande network di operatori? «Stiamo pensando e immaginando. Purtroppo c’è l’abitudine italiana a vedere un nemico anche dove non c’è. E abbiamo ricevuto proposte imbarazzanti: altri operatori che ci hanno offerto di diventare una loro agenzia. Certo – conclude Mancosu – se si trovasse il modo di formare un circuito comune sarebbe un bene per tutti».

Convegno “Cultura, globalizzazione e monete locali”

Il 30 marzo 2006 dalle ore 9:00 al Palazzo Valentini, Sala Di Liegro – Via IV novembre 119/A Roma si terrà il convegno “Cultura, globalizzazione e monete locali – La valorizzazione della cultura tramite l’adozione di monete complementari locali”

Nella morsa tra globalizzazione e crisi economica, le peculiarità culturali, che costituiscono la base dell’identità di un popolo, tendono a scomparire invece che ad evolvere. L’introduzione di monete complementari locali, può invertire questa tendenza, rivitalizzando l’artigianato, la piccola impresa ed il commercio locali. Allo stesso tempo, una moneta complementare è uno strumento per integrare la liquidità nelle aree in cui è carente per la forza della moneta nazionale, contribuendo al benessere della popolazione e allo sviluppo delle forze produttive.

Partecipanti:

9.00 Apertura Lavori

9.30 Saluto dell’On. Antonio Rosati, Assessore al Bilancio della Provincia di Roma

9.45 Introduzione dell’On. Maurizio Mariani, Presidente della Commissione Bilancio del Comune di Roma

10.00 Relazioni:
1) La società del debito e la società globale. La cultura come ricchezza e la logica delle monete complementari
Relatore Avv. De Simone Domenico

10.30
2) La trappola delle liquidità e le soluzioni allo studio: La proposta giapponese al BIS
Relatore Dott. Filippo Pretolani

11.00
3) L’Esperienza delle monete complementari in Germania
Relatore Prof. Magrit Kennedy

11.30
4) L’Esperienza dell’Eco Aspromonte come strumento di valorizzazione della cultura locale.
Relatore Prof. Antonio Perna (ex Presidente Parco Nazionale Aspromonte)

12.00
Tavola Rotonda:
Rappresentanti ANCI, UPI, UNCI, ABI, Regioni con i relatori

13.30
Conclusione dei lavori

Il convegno è stato organizzato da European Consumers, promosso da ALTRAMONETA, con il contributo della Provincia di Roma

 

Presentazione
di Domenico De Simone

CULTURA, GLOBALIZZAZIONE E MONETE LOCALI
la valorizzazione della cultura tramite l’adozione di monete complementari locali.

Introduzione
La globalizzazione dell’economia, sta inducendo in tutto il mondo fenomeni di omologazione di molti aspetti della vita sociale che mortificano le culture locali e generano reazioni protezionistiche a loro difesa. Ne derivano conflitti e tensioni che inaspriscono la convivenza esasperando la competizione tra culture di diversa origine. Le monete complementari locali possono essere uno degli strumenti utili per superare questi conflitti, poiché favoriscono una circolazione locale delle merci prodotte che non è in conflitto con la circolazione globale delle merci e dei servizi. In particolare esse possono avere effetti positivi per la valorizzazione in concreto dell’artigianato, della piccola impresa nonché delle piccole attività commerciali.
Sono migliaia nel mondo le monete complementari locali, dall’oramai storica Ithaca hours creata a New York da Paul Glover e giunta al quindicesimo anno di esperienza, fino alle monete complementari tedesche che ormai sono oltre sessanta, riunite nella rete Regiogeld, cui appartengono, tra le altre, il Chiemgauer che è stata la prima ed è la più nota nel mondo, e il Berlin, recentemente adottato nella Regione di Berlino Brandemburgo e inaugurato dal Presidente del Bundestag, il socialdemocratico Wolfgang Thierse (http://www.berliner-regional.de/).

 

Temi del convegno
L’obiettivo delle monete complementari non è quello di sostituirsi alla monete nazionali, ma piuttosto di aumentare la liquidità e la velocità di circolazione nelle aree in cui questa è limitata per particolari contingenze locali e dalla forza della moneta nazionale. Soprattutto nelle aree in cui circolano monete particolarmente appetite dai mercati finanziari, il rischio di carenza di liquidità sufficiente è particolarmente elevato.
L’effetto delle monete complementari locali è quello di integrarsi alle monete nazionali, compensando con la circolazione locale la mancanza di liquidità e favorendo la crescita dell’economia locale. Queste monete, infatti, sono per lo più adottate per stimolare il commercio e l’artigianato locale, sia perché di fatto sono spendibili solo sul posto, sia perché il loro funzionamento garantisce uno “sconto” sui prezzi e quindi un vantaggio per i consumatori.

Il Demurrage
La maggior parte delle monete complementari sono acquistabili in moneta nazionale, ma sono gravate da un “demurrage” che ne riduce con il tempo il valore nominale. Allo stesso tempo, però, l’acquisto della moneta è favorito da uno sconto che di fatto si traduce in un vantaggio nell’acquisto dei prodotti locali. L’effetto è che queste monete non sono utilizzabili per il risparmio, a causa del demurrage sul valore nominale e quindi circolano molto velocemente, compensando così la mancanza di liquidità. Per il consumatore il vantaggio è dato dallo sconto che ottiene sull’acquisto dei prodotti, e per il commerciante si tratta in pratica di fare uno sconto sulle vendite pari al demurrage, nel caso in cui intenda cambiare subito la moneta e recuperare valuta nazionale. Nel caso in cui, invece, intenda spendere la moneta complementare effettuando acquisti all’interno del circuito, l’operatore non subirà alcuna decurtazione.
Il meccanismo del demurrage garantisce contro i rischi di inflazione, poiché perdendo valore con il tempo la moneta tende a scomparire dalla circolazione, lasciando gli effetti benefici indotti dalla sua emissione. Inoltre, le monete complementari locali non creano debito come le monete nazionali, poiché sono sostenute o dal cambio con la moneta locale o dalla solidarietà nella comunità che le accetta se emesse per scopi sociali, oppure, infine, dagli effetti degli investimenti che esse generano.

Le esperienze in Giappone e in Germania
L’esperienza fatta in Giappone e in Germania, ha dimostrato che l’effetto principale di queste monete è di stimolare le risorse lavorative e produttive sottoutilizzate, nonché di creare solidarietà nell’ambiente in cui circolano tra cittadini ed operatori locali. L’uso prevalente è di finanziare attraverso i proventi di esse opere di pubblica utilità e anche di effettuare finanziamenti senza interesse ad attività artigianali o di piccola impresa.
La loro emissione può essere utilizzata per incrementare i servizi pubblici, coinvolgendo la popolazione locale che potrà determinare limiti e destinazione delle somme emesse, poiché di fatto, in tal caso l’emissione si risolve in una sorta di imposta sulla moneta in circolazione che finisce per gravare sulla cittadinanza. Un altro effetto indotto dall’introduzione delle monete complementari locali è quello di favorire la partecipazione democratica della popolazione alle decisioni sull’economia locale.
La circolazione delle monete complementari è perfettamente legale sia se adottate nell’ambito di un’associazione o un consorzio di accettazione, sia se emesse a diverso titolo dalla comunità locale.

 

Obiettivo del Convegno
Il Convegno vuole mostrare la fattibilità delle monete complementari e descrivere i loro effetti nelle comunità che le hanno adottate. L’obiettivo è di creare le premesse per l’introduzione a Roma e in Provincia di esperienze di moneta complementare, sul modello di quelle tedesche e cercando eventuali nuove soluzioni adatte al particolare tessuto economico produttivo esistente nell’area.

 

Svolgimento del Convegno
L’articolazione del Convegno prevede una introduzione dell’avv. De Simone, autore del libro “Un’altra moneta” sulla società del debito nata dopo l’abrogazione degli accordi di Bretton Woods, e sulla ricchezza indotta dalla valorizzazione della cultura.
Poi una relazione del dott. Pretolani del Centro Studi di Unicredito, sulle ricerche avviate e sul dibattito che ne è seguito, sulle monete a demurrage da parte dei principali istituti monetari del mondo, dalla BOJ alla BCE, al fine di trovare un rimedio efficace alla “trappola della liquidità”.
Il terzo intervento del prof Antonio Perna sarà incentrato sull’esperienza dell’Eco Aspromonte, la prima moneta complementare italiana, da egli promossa nel Parco Nazionale dell’Aspromonte di cui è stato Presidente sino a pochi mesi fa.

L’ultimo intervento sarà effettuato dalla prof. Margrit Kennedy, coordinatrice della rete regionale tedesca e autrice insieme con Bernard Lietaer, del libro Regionalwährungen sulle monete complementari, che illustrerà l’esperienza tedesca.
Seguirà una tavola rotonda cui saranno invitati a partecipare rappresentanti delle Associazioni dei Comuni e delle Province, dei commercianti e delle imprese nonché del mondo bancario.
In particolare, sarà illustrata la proposta di emettere una moneta locale sostenuta dalla produzione di energia da fonti rinnovabili, finanziando in parte con monete locali piccoli impianti di produzione di energia, e allo stesso tempo rivitalizzando le forze produttive sottoutilizzate del luogo. In questo caso, la moneta locale rappresenta la copertura finanziaria di parte del project financing necessario per gli investimenti, e può determinare una congrua riduzione dei costi ed un beneficio sostanziale per la popolazione locale sotto forma di riduzione del prezzo dell’energia.
Sarà infine, proposta la costituzione di un gruppo di studio per verificare le condizioni di fattibilità di una moneta complementare locale a Roma e indicare le aree e le attività che meglio possano sperimentare con successo una tale iniziativa.