Una guida pratica per la creazione e l’animazione di un orto collettivo

Al cuore del nostro quartiere

Una guida pratica per la creazione e l’animazione di un orto collettivo

di Martha Stiegman, Action Comuniterre – Montreal (Canada)

 

Scarica la guida (in francese)

Sommario

Introduzione

Preambolo
Premessa
Contesto : come nasce questa guida ?
Perchè una guida scritta al femminile ?
Come utilizzare questa guida ?

1 Che cos’è il giardinaggio collettivo ?

1.1 La storia del giardinaggio collettivo a Montréal

Il giardinaggio comunitario a Montréal
L’emergere del giardinaggio collettivo

1.2 Che cos’è un orto collettivo ?

Come sono strutturati ?

1.3 Gli obiettivi del giardinaggio collettivo

Gli obiettivi globali del giardinaggio collettivo
Il giardinaggio collettivo : uno strumento  per costruire la sicurezza alimentare
Il giardinaggio collettivo : uno strumento per favorire l’empowerment

2 Come creare un orto collettivo ?

2.1 Mobilitare le persone attorno ad un progetto di orto collettivo

Fare per, o fare con ?
Mobilitiamoci! Ma da dove cominciare ?
a) Fare un analisi del quartiere
b) Situare bene l’emergenza dell’idea
c) Chiarificare i propri obiettivi preliminari
d) Unirsi ad un gruppo comunitario
e) Mobilitare i suoi membri
f) Identificare un numero iniziale di partecipanti
g) Condividere l’ispirazione
h) Consolidare il numero iniziale di partecipanti
i) Condividere le responsabilità
j) Allargare la base di appoggio e di partecipazione degli attori comunitari

2.2 Dove cercare un terreno e come negoziare ?

Qualche argomento per aiutarvi nella vostra negoziazione
Dove cercare ?
Terreno di un centro comunitario
Terreno di una chiesa
Terreno di una scuola
Terreno di un giardino comunitario della città di Montréal
Terreno di case HLM
Terreno pubblco
Terreno privato
Qualche consiglio supplementare

2.3 Cercare sovvenzioni

2.4 Cercare un’ animatrice

Definire bene l’incarico
Qual’è il profilo dell’animatrice ?

3 I come e i perchè dell’animazione

3.1 Riguardo all’animatrice

Ben posizionarsi rispetto al periodo di attività come animatrice

3.2 Riguardo alle giardiniere

hi è « Maria » ?
Esercizio : « Maria »
Quali sono i bisogni di « Maria » ?
Come comprendere al meglio le motivazioni delle nostre giardiniere
Cosa bisogna fare per prender parte ad un orto collettivo?

3.3 L’empowerment – Collegare i bisogni delle vostre giardiniere e la vostra animazione

Esercizio : che cos’è per voi l’empowerment  ?
Esercizio : l’empowerment secondo il modello di William Ninacs

3.4 Gli obiettivi dell’animazione ed il vostro ruolo di animatrice di un orto collettivo

Esercizio : stabilire i vostri obiettivi di animazione per il periodo di attività
Gli obiettivi dell’animazione
a) Assicurare lo sviluppo di una dinamica di gruppo positiva e collettiva
b) Incoraggiare all’apertura ed alla diversità soclale
c) Assicurare un meccanismo di funzionamento trasparente ed accessibile
d) Trasmettere competenze in modo democratico
e) Assicurare un follow-up sociale ai partecipanti
f) Favorire lo sviluppo di coscienza politica
g) Facilitare il coinvolgimento delle giardiniere nella vita di quartiere

3.5 Come animare i  diversi momenti del periodo di attività

a) Mobilitare le giardiniere
b) Planificare l’orto in gruppo
c) Comprendere, prevenire e gestire gli abbandoni
d) Gestire la divisione del raccolto
e) Fare una valutazione partecipativa


Allegato A : Risorse per il giardinaggio collettivo e l’agricoltura urbana

Gruppi attivi nel movimento per il giardinaggio a base comunitaria
… in Québec
… fuori dal Québec
Il movimento per la sicurezza alimentare e l’agricoltura duratura

Allegato B : Risorse collegate al giardinaggio collettivo

L’animazione
L’empowerment
La valutazione partecipativa
Risoluzione dei conflitti
La sicurezza alimentare ed il sistema alimentare
La sanità mentale

Allegato C : Risorse relative al giardinaggio biologico, al giardinaggio da balcone ed alla permacoltura

Il giardinaggio biologico
La permacoltura
Sementi biologiche
Il giardinaggio da balcone

 

L’agricoltura sinergica

a cura di A. Satta per l’Associazione di Agricoltura Sinergica

L’Agricoltura Sinergica è un metodo agronomico applicabile esclusivamente in regime di agricoltura biologica. In estrema sintesi si può dire che l’Agricoltura Sinergica sia ad oggi l’ultima frontiera dell’agricoltura biologica e si pratica scegliendo di impiegare in modo permanente e senza compromessi alcune delle tecniche che in agricoltura biologica sono solo consigliate e auspicate ma non obbligatorie.

Nel suo complesso non ci sono incompatibilità fra Agricoltura Sinergica e agricoltura biologica, dunque un’azienda che pratica l’Agricoltura Sinergica può ottenere la  certificazione biologica senza controindicazioni.

In pratica il metodo sinergico si basa su pratiche agronomiche ed accorgimenti che mirano principalmente alla fertilità del suolo e alla conseguente migliore salute dell’intero sistema suolo-microrganismi-piante piuttosto che al mero aumento della produttività, esattamente come l’agricoltura biologica, ma con misure più incisive.

La principale caratteristica del metodo sinergico è che lo si pratica allestendo delle strutture permanenti anche per le colture annuali. I passaggi che vengono normalmente lasciati nel terreno tra le file di ortaggi per consentirne la cura e la raccolta, in Agricoltura Sinergica vengono realizzati in modo da essere definitivi, quindi si stabilisce in modo univoco dove si cammina (o dove si passa con il mezzo agricolo) e dove si coltiva, applicando ogni accortezza affinché non ci sia più bisogno di calpestare le zone coltivate.

Per semplicità si chiamano
“passaggi” i percorsi calpestabili e “bancali” o “aiuole”
le zone coltivate.

Il rispetto delle aree
coltivate, ovvero dei bancali, è fondamentale per poter applicare l’Agricoltura
Sinergica.

Già da molti anni la
scienza agronomica ha constatato le conseguenze negative dell’eccessiva
aratura. Sia in regime biologico che in quello convenzionale si raccomanda
ormai ovunque di evitare il rivoltamento delle zolle nel terreno, ma
anche l’aratura profonda è una pratica limitata ormai a situazioni
estreme e non più sistematica come un tempo. In agricoltura biologica
comunque si raccomanda di limitare il più possibile l’aratura, anche
se superficiale, alle situazioni di effettiva necessità e sempre nelle
migliori condizioni del suolo (che deve essere in tempera).

In Agricoltura Sinergica
si evita completamente l’aratura, anche superficiale, e perfino la
sarchiatura. Si è constatato che si ottengono migliori risultati con
degli accorgimenti applicabili a delle strutture permanenti.

In primo luogo i bancali
coltivati sono rialzati di circa 30-40 cm rispetto al suolo; si usa
un sistema simile agli orti fuori terra presente anche nella tradizione
contadina dell’Italia del nord, con la differenza che allora i bancali
erano formati da sterco bovino o equino e se ne sfruttava soprattutto
il calore emesso (il principio del letto caldo di cultura) per poter
avere ortaggi anche in inverno, invece nel metodo sinergico il bancale
è formato dalla terra smossa dalla superficie dei passaggi e non viene
preparato e disfatto ogni anno, come nella tradizione, perché è permanente.

Il tuo browser potrebbe non supportare la visualizzazione di  questa immagine.Col
sistema sinergico c’è quindi solo un lavoro iniziale di allestimento
dei bancali direttamente sul terreno che, se eccessivamente compresso,
può subire per l’ultima volta un’aratura superficiale (circa 35
cm).

Nel caso di terreni
molto poveri, in questa fase iniziale, si preferisce aggiungere sostanza
organica ai bancali in modo da favorire i processi di umificazione.

Il grosso del lavoro
di aratura artificiale viene sostituito in modo naturale dalle radici
delle piante stesse ed il fatto di lavorare su dei bancali rialzati
favorisce ulteriormente l’aerazione del suolo.

Sui bancali non viene
praticata la monocultura (ampiamente sconsigliata anche in regime di
agricoltura biologica) ma al contrario è essenziale garantire una vasta
bio-diversità e parte delle piante coltivate viene scelta proprio in
funzione delle forti radici che arano il terreno in modo efficiente
come nessun mezzo meccanico potrebbe mai fare. L’accortezza di non
sradicare le piante al momento della raccolta, neanche quelle spontanee
(tranne ovviamente nel caso di infestanti che si riproducono dalle proprie
radici come la gramigna) ma di lasciare invece che le radici si decompongano
naturalmente nel suolo è alla base di questo meccanismo. Il resto del
lavoro viene svolto dalla fauna del sottosuolo come i lombrichi e altri
insetti scavatori, presenti in grande quantità grazie al suolo imperturbato,
che con la loro attività creano tunnel e spazi nei quali le radici
si insediano con facilità.

La forma rialzata del
bancale viene mantenuta nel tempo grazie ad alcuni accorgimenti:

  • il primo è ovviamente che
    non venga mai compresso, quindi non deve essere calpestato in alcun
    modo, neanche con i piedi. La forma dei bancali è fatta in modo da
    poter accedere alle colture da entrambe i lati senza doverci camminare
    dentro, in genere la dimensione giusta è di circa 120 cm di larghezza,
    facendoli lunghi quanto si vuole, con un passaggio intermedio circa
    ogni 4-5 mt. Nel caso di colture estensive, come i cereali, la larghezza
    del bancale è determinata dalla distanza tra le ruote del mezzo meccanico
    con cui si effettuano le lavorazioni;
  • il secondo è di proteggere
    la superficie del suolo dall’erosione degli agenti atmosferici (pioggia,
    sole e vento) mediante culture in successione che non lascino mai il
    terreno nudo in nessun periodo dell’anno ed inoltre con una pacciamatura
    permanente fatta inizialmente solo di paglia, in seguito costituita
    sia da paglia che dai residui colturali che si deve aver cura di lasciare
    sul posto al momento della raccolta. In agricoltura biologica per ottenere
    tale protezione del suolo si consiglia ad esempio l’inerbimento tra
    i filari, ma con il metodo sinergico tale pratica non basta;
  • la pacciamatura permanente
    organica è molto più efficiente non solo perché protegge materialmente
    il suolo dall’erosione, ma anche perché decomponendosi crea sotto
    di se le condizioni per lo sviluppo del humus che rende soffice e non
    compattato il bancale.

Per l’irrigazione
il metodo più appropriato risulta il sistema goccia a goccia da installare
sotto la pacciamatura. Trattandosi di un allestimento permanente risulta
un sistema conveniente sia per la facilità d’uso che per il grandissimo
risparmio d’acqua.

L’assenza di aratura
artificiale, oltre ad essere un vantaggio economico (sommando il risparmio
di tempo, mezzi e risorse moltiplicato per tutte le pratiche evitate
negli anni può diventare una cifra considerevole), porta soprattutto
a dei vantaggio in termini di fertilità del suolo.

Infatti, come in agricoltura
biologica, anche in Agricoltura Sinergica il parametro di misura dell’efficienza
delle pratiche attuate è il bilancio umico.

E’ ampiamente dimostrato
che l’aratura, anche superficiale, comprometta immediatamente la quantità
e la qualità del humus (che si trova proprio nello strato superficiale
del suolo). Questo perché l’aratura è una pratica che disturba il
delicato equilibrio del suolo fertile, ma nei terreni coltivati è diventata
indispensabile per consentire la semina, il percolamento dell’acqua
e la crescita delle radici delle piante che altrimenti troverebbero
il terreno troppo compatto.

Col metodo sinergico
si risolve il problema del compattamento del suolo con l’allestimento
dei bancali, dunque non essendo necessaria l’aratura si evita di perturbare
il suolo che quindi, sotto la pacciamatura organica permanente, mantiene
integre le condizioni per lo sviluppo della sostanza organica.

La caratteristica peculiare
dell’agricoltura biologica certificata (e probabilmente anche la più
nota al pubblico dei consumatori) è il divieto di usare sostanze chimiche
di sintesi a favore dell’uso di prodotti di origine naturale.

Su questo argomento
si potrebbero aprire interi capitoli di considerazioni e statistiche
sulla reale efficacia dei prodotti naturali. Non è questa la sede per
affrontarli ma senz’altro è utile fare una breve valutazione dei
dati che mostrano come le aziende agricole che hanno richiesto sistematicamente
deroghe all’ente certificatore per poter usare sostanze chimiche a
causa di situazioni parassitarie molto gravi oppure quelle che sono
risultate positive ai controlli campione sui residui chimici, siano
quelle che si sono convertite al biologico dopo molti anni di convenzionale:
in generale è probabile che l’errore di fondo sta nel non aver compreso
che l’agricoltura biologica è profondamente diversa dal convenzionale
non solo negli strumenti ma soprattutto nella filosofia, nell’approccio
alla coltivazione. E’ ancora diffusa la convinzione che l’agricoltura
biologica sia nient’altro che l’agricoltura convenzionale attuata
senza l’uso di pesticidi chimici. Questo porta inevitabilmente al
fallimento dell’intento biologico di migliorare e conservare il livello
di humus nel suolo, in quanto le pratiche agricole convenzionali abbassano
questo livello e di conseguenza fanno crescere vegetali meno resistenti
agli attacchi parassitari che quindi non possono essere difesi con sostanze
naturali in vece dei potentissimi veleni chimici.

Così come non ha alcun
senso parlare di “lotta biologica ai parassiti” perché non si tratta
di una “lotta” ma piuttosto di una profonda comprensione dei meccanismi
di difesa e delle relazioni fra specie nell’eco-sistema che porta
semmai a delle pratiche preventive, al costante monitoraggio del loro
funzionamento ma soprattutto l’attenzione sulla salute dell’intero
sistema suolo-microrganismi-piante.

In percentuale le aziende
che sono partite a produrre biologico sin dall’inizio e le aziende
che anche prima della certificazione optavano per delle pratiche rispettose
dell’ambiente, sono quelle che ottengono i migliori risultati.

In definitiva si può
concludere che nessuno può affermare che l’agricoltura biologica
sia semplice da praticare, ma questo non vuol dire che non si possano
ottenere dei buoni raccolti con i metodi biologici.

Per quanto riguarda
i prodotti di origine naturale, sia antiparassitari che fertilizzanti,
in Agricoltura Sinergica si usano il meno possibile perché si preferisce
applicare strategie preventive di coltura piuttosto che usare dei prodotti
che pur essendo naturali sono comunque estranei all’eco-sistema. In
generale, la grande cura profusa nel conservare le condizioni ideali
di formazione del humus nei bancali e le pratiche qui descritte permettono
la crescita di piante sane e decisamente resistenti a parassiti e malattie.

La filosofia è di cercare
di tenere in salute tutto l’insieme in modo che compensi autonomamente
l’eventuale insorgere di patologie.

Come in agricoltura
biologica, è fondamentale la scelta delle varietà da coltivare, con
preferenza per quelle più rustiche e spontaneamente resistenti.

Inoltre, nel metodo
sinergico, si utilizzano molte consociazioni all’interno dello stesso
bancale, in considerazione delle indicazioni fitosociologiche di reciproco
stimolo alla crescita e di reciproca difesa.

E’ importantissima
la prassi di coltivare delle piante ad azione repellente (come il tagete,
la calendula, il nasturzio, molte piante aromatiche, ecc.) in mezzo
agli ortaggi, i quali a loro volta sono scelti in modo che in ogni bancale
siano presenti almeno tre famiglie diverse contemporaneamente.

La scelta delle famiglie
ricade spesso su quelle che portano maggiori vantaggi al suolo, come
le leguminose azoto fissatici che non devono mai mancare all’interno
di un bancale.

Oltre alla specifica
azione repellente, la diversificazione delle colture a così stretto
contatto è una grande difesa contro molti tipi di attacchi parassitari
che in questo modo hanno una diffusione molto limitata.

Il risultato di una
coltivazione con il metodo sinergico è un impianto permanente con una
vastissima bio-diversità dove piante perenni trovano posto vicino a
colture annuali che, a loro volta, hanno una posizione sistematica ma
intervallata da diverse famiglie. Con tale metodo le colture non seguono
una rotazione ma delle successioni perché nello stesso appezzamento
convivono piante con diversi periodi di sviluppo che vengono sostituite
singolarmente con altre specie che iniziano il loro ciclo vitale in
corrispondenza della fine delle precedenti.

A replicable global village model

Imagine a village with buildings of dirt (CEB) with year-round greenhouses (sawmill, CEB, bioplastics from local trees), with all
facility energy produced by a solar turbine, where people drive hybrid cars with car bodies (bioplastics) made from local weeds, with critical motors and metal structures (aluminum) extracted from on-site clay, which are fueled by alcohol produced on-site, on a wireless
network linked to the greater world. That’s just a sampling of the technology base. Food, energy, housing sufficiency. There are no poor among us – because we are all evolving human beings and farmer scientists.

Guida alle monete comunitarie

 Il libro “Guida alle monete comunitarie” di Bernard Lietaer e Gwendolyn Hallsmith è stato tradotto da Socialforge come contributo divulgativo per la quarta edizione della Libera Scuola delle Alternative che si terrà ad Agape (TO) dal 19 al 23 agosto 2007.

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Storia degli Orti Urbani

testo parzialmente tratto dal sito de La Compagnia del Giardinaggio

Per capire il perché di questo rinnovato interesse per la coltivazione dell’orto, bisogna tornare un po’ indietro con gli anni, all’epoca pre-industriale.
Fino a tale periodo, campagna e città hanno convissuto bene insieme, anzi, si può dire che nella storia occidentale ad ogni fase di crescita urbana si sia accompagnata una proporzionata crescita del patrimonio verde e dei campi a coltura.
Pensiamo alle ville venete del Settecento, che si trasformavano in cuori di prospere aziende agricole…

Gli orti erano piuttosto comuni in tutte le grandi città,
ad esempio Roma manteneva un aspetto paesano
ancora alla fine del XIX secolo, elemento che la caratterizzava
fortemente specie agli occhi dei visitatori stranieri, e che adesso
rivive nelle famose cartoline “Roma com’era”.
Londra, cuore della Rivoluzione Industriale, seguiva opposto
destino. Engels rimarcava come si potesse camminarvi per ore senza
neanche supporre la vicinanza con la campagna.

Lo stesso Engels, nella sua opera “La questione delle abitazioni”
condannava il cosiddetto “cottage operaio”, cioè le casette
costruite dai proprietari delle fabbriche per le famiglie operaie, le
quali per averne diritto, dovevano pagare un affitto e venivano
stipendiate di meno.

Un altro elemento su cui si basa la “guerra all’orto” pronunciata
dalla moderna urbanistica è la convinzione
– rivelatasi tragicamente sbagliata –
di molti architetti (principalmente Le Corbusier), che le sorti e i destini
della città e delle persone che lavorano dentro di essa, fossero
autonomi e distinti da quelli della campagna.

E fu proprio nelle grandi città che si formò un forte contrasto tra
proletariato e borghesia, che represse l’edilizia spontanea popolare con
la sua cultura estetica e la sua morale dominante; ed è nelle grandi città
che nacquero le prime moderne associazioni operaie, i sindacati, il cartismo,
e movimenti politici come il socialismo.

Negli anni Trenta e Quaranta i regimi totalitari si impegnarono molto
per favorire l’accesso alla proprietà della casa da parte dei ceti
meno abbienti. Nacquero così le “borgate popolarissime”, mentre in
America proprio in quegli anni si assisteva ad un fenomeno di
neo-ruralismo: molti scappavano dalle città sempre più inospitali per
andare a vivere in campagna.

In Italia il minimo storico della coltivazione amatoriale dell’orto è
stato raggiunto negli anni Sessanta e Settanta. La coltivazione di
orti all’interno delle città era una vera anomalia, una stranezza, ed
era sempre guardata con sospetto ed avversione: l’orto in
cittàin poche parole- divenne simbolo di una
condizione sociale ed economica inferiore. La città era considerata (e
purtroppo lo è ancora) luogo per parchi e giardini, non per orti. E la
vedevano in questo modo sia gli urbanisti che la gente comune:
entrambi consideravano l’orto in città un elemento di degrado
paesaggistico.

Come i picchi minimi del numero di orti urbani sono collocabili nei
venti anni di boom economico successivo al Secondo Dopoguerra, la
rinascita dell’interesse per la coltivazione dell’orto coincide con
la crisi economica che ha colpito l’Europa a partire dagli anni
Ottanta.

Ma alla base della coltivazione amatoriale dell’orto in tempi attuali
non è tanto la necessità di fare economia (le statistiche evidenziano
infatti come una buona parte della produzione venga regalata ad amici
e parenti), quanto il desiderio di “sapere cosa si mangia” e la
preoccupazione alimentare per se stessi ed i propri figli.

È proprio di questi ultimi venti anni una rinascita di una vecchia
istituzione, quella degli “orti senza casa”, cioè di orti allocati
all’interno del tessuto urbano, che non appartengano a chi li
coltiva, ma proprietà di associazioni o delle amministrazioni comunali
ed assegnati a coltivatori non professionisti.
Il fenomeno nasce a Lipsia, in Germania, verso la metà del XIX secolo,
con i kleingarten riservati ai bambini, ma trova il suo aspetto più
interessante nei jardins ouvriers francesi.

I jardins ouvriers (giardini operai) sono un fenomeno nato alla fine
dell’Ottocento dall’attività di Monsignor Jules Lemire. Egli fu non
solo uomo di chiesa, ma anche professore e uomo politico di grande
statura. Durante i suoi trentacinque anni di mandato alla Camera dei
Deputati ottenne molte riforme per la protezione per gli operai e i
lavoratori. Nel 1899 chiese l’istituzione del Ministero del Lavoro,
che fu costituito nel 1906. Nel 1896 fondò la Ligue Française du Coin
de Terre e du Foyer (divenuta in seguito Fédération Nationale des Jardins Familiaux), che aveva come scopo quello di
favorire l’accesso degli operai alla proprietà della casa.
L’intento di Monsignor Lemire
non era unicamente materiale, ma anche morale: coltivare l’orto era
non solo una risorsa economica ed alimentare, ma anche un modo sano e
retto di passare il proprio tempo libero in compagnia della propria
famiglia, a contatto con la natura e al riparo della tentazione dell’
alcolismo, allora molto diffuso. La filosofia del jardin ouvrier
è sintetizzata nel famoso motto dello stesso Lemire:
“Il giardino è il mezzo, la famiglia è lo scopo”.

La Ligue trasse origine anche dall’Enciclica di Leone XIII
Rerum Novarum e dalle allora nascenti dottrine
democratico-cristiane, ma ben presto si liberò dell’influenza
religiosa, che ad esempio, pretendeva il riposo domenicale.

Nel 1906 la Ligue fu ammessa alle esposizioni della Société Nationale
d’Horticolture, e nel 1900 partecipò all’Esposizione Universale,
mentre nel 1927 si avviarono dei congressi internazionali a cui
parteciparono moltissime nazioni europee: Germania, Austria, Belgio,
Finlandia, Gran Bretagna, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Olanda,
Polonia, Svezia, Svizzera e Cecoslovacchia.
Questi congressi sfociarono nella creazione dell’Office International des Jardins Ouvriers.

Nei trent’anni del boom economico successivo al Secondo
Dopoguerra i jardins ouvriers
vissero un periodo di declino, segnato da trascuratezza e disordine,
tale che le lamentele riguardo a questa forma di inquinamento
paesaggistico si fecero sempre più numerose ed insistenti, e si asserì
che la presenza degli orti operai all’interno
delle città le facesse assomigliare a delle bidonvilles. Ma già a
partire dagli anni Ottanta si assistette ad una rinascita, prodotta
principalmente dall’interesse e dalla collaborazione
delle autorità, locali e nazionali, che infusero nuovo vigore alla Ligue, tanto che attualmente alcuni tra i più antichi
jardins ouvriers sono inseriti nel circuito dei giardini storici di
Francia.
Alcuni hanno però criticato questi “abbellimenti”
poiché dettati da una morale ed una estetica borghese
sovrapposta a quella rurale.

L’esperienza della Ligue fu ben presto esportata all’estero, in
Belgio, Germania e anche da noi in Italia, dove però non ebbe
molta risonanza.
All’epoca il Fascismo aveva promosso l’iniziativa dell’
“orticello di guerra”, nel quadro della “battaglia del grano” e
della ruralizzazione degli italiani che Mussolini perseguiva. In
particolare l’Opera Nazionale del Dopolavoro Ferroviario fu molto
attiva in questo senso, e promosse concorsi per l’abbellimento delle
stazioni ferroviarie. Il “Dopolavoro” partecipava anche alle
periodiche riunioni dell’Office International.

Negli anni Trenta anche l’America conosceva l’esperienza dei
relief gardens (orti di soccorso) e durante la Seconda Guerra Mondiale quella dei victory gardens.
Dopo la Guerra gli orti urbani subirono un declino, fino ai primi
community gardens che nacquero intorno agli
anni Settanta, nel corso dei quali alcuni gruppi di cittadini,
denominati “green guerrillas”, reagirono all’inerzia delle
pubbliche amministrazioni di fronte al degrado paesaggistico, urbano
e morale di interi quartieri. Si recuperarono quindi zone abbandonate a
se stesse, degradate e fatiscenti, per riportarle a nuova vita (avete
visto “Green Card, matrimonio di convenienza”?).

L’iniziativa si diffuse velocemente in tutte le grandi metropoli
statunitensi (in particolare New York e San Francisco) e canadesi, ma
purtroppo le finalità economiche e politiche finirono per prevalere su
quelle naturalistiche ed ecologiche, e gli orti urbani sono oggi
diventati un importante strumento di politica sociale.

In questa fase di seconda giovinezza degli orti urbani c’è una
maggiore diversificazione del beneficiario dell’orto. Non solo operai
e gente di basso ceto, ma anche impiegati, insegnanti, e
professionisti. Diminuiscono i pensionati e si abbassa l’età
media. Aumentano le colture da fiore e il gusto borghese per il
decoro, si incrementa il numero delle donne.

L’Italia, oltre la parentesi fascista, prontamente chiusa e rimossa,
non ha una storia associativa riguardo agli orti urbani. La creazione
di orti urbani è sempre originata da iniziative individuali,
disorganiche, spesso abusive, mal tollerate se non apertamente
disprezzate od osteggiate dagli abitanti dei quartieri in cui si
trovano.

A tutt’oggi le statistiche rivelano che per la totalità degli
intervistati gli orti non possono convivere con la città, che sono
antiestetici e danno un aspetto decadente, “di paese”. Insomma, che
il posto dell’orto è la campagna, mentre la città è il luogo del
giardino e del parco. I tenutari degli orti sono considerati dei
poveracci, dei parassiti della società, improduttivi, quasi dei
“barboni”.

Il declino dell’orticoltura ornamentale negli anni Sessanta e
Settanta è stato la conseguenza del disprezzo per ogni forma di
economia domestica imposto dalla cultura industriale e urbana, ma
anche dalla nascita di altri modi per impiegare il proprio tempo
libero. Deleteria a tal riguardo è stata la televisione, tanto che la
storia dell’orto in Italia si può dividere in epoca pre e
post-televisione. A ciò va aggiunto il processo di democratizzazione
della vacanza al mare. Infatti in quegli anni alla rispettabilità
sociale e familiare conferita da un orto o un giardino ben tenuto, si
sostituisce quella del “mese al mare” ( avete presente “Il sorpasso”?), ovviamente incompatibile con il mantenimento di un orto,
interrompendo così la secolare tradizione di un giardino come segno di
distinzione sociale delle classi più agiate, e dell’orto come una
prerogativa di quelle meno abbienti.

Il rinnovato interesse per l’orticoltura ha anche un’altra causa:
oltre a comportare uno stretto rapporto con la natura, non c’è
necessariamente bisogno di mettersi in discussione e a reinventare
continuamente se stessi e il proprio gusto. In poche parole tiene
attivi e rilassa.

Inoltre, proprio per la sua capacità di rispondere ad un duplice
ordine di esigenze intime socializzare con gli altri
ma anche isolarsi e dialogare con se stessi, la cura dell’orto è da
sempre un’attività praticata sia dalla gente comune che dagli
intellettuali.

Crean La Lionza para mercado del trueque

“El Universal” 21.06.2007

En
Urachiche, Yaracuy, se realizó el Mercado Comunitario del Trueque en el
que campesinos, cooperativas y pequeños comerciantes intercambiaron
bienes, servicios y productos autóctonos.

El presidente del
Instituto Nacional de Desarrollo de la Pequeña y Mediana Industria
(Inapymi), Américo Mata, destacó que no se busca sustituir el valor de
la moneda. “La idea es que participe el pueblo, que se dé un
intercambio humanista, socialista. No se trata de eliminar el dinero”.

En
este sistema, los participantes ofrecen bienes y servicios y como
contraprestación reciben una moneda simbólica e intercambiable por
otros productos.

Mata explicó que es una alternativa al capitalismo y que este método tiene factibilidad a pequeñas escalas.

“La
Lionza” es la moneda comunitaria, cuyo nombre fue elegido por voluntad
popular a través de una asamblea del grupo del trueque, y se utiliza
como facilitador de intercambio, pues no es acumulativa y tiene
vigencia por tiempo determinado. María Arismendi, una de las
organizadoras de la actividad, explicó que “La Lionza” no es una moneda
comercial, “sólo se puede intercambiar en el mercado del trueque”.

El
comunicado de prensa de Inapyme señala que esta es una propuesta de una
nueva economía no condicionada por el dinero, caracterizada por ser
justa, que fomenta la cooperación en vez de la competencia.

Realizado Primer Mercado Comunitario del Trueque

Realizado 1er Mercado Comunitario del Trueque
“No se pretende eliminar el dinero”

(Caracas,
20 de junio de 2007) La comunidad de Urachiche, estado Yaracuy, sirvió
de escenario al Primer Mercado Comunitario del Trueque en el que
campesinos, cooperativas y pequeños comerciantes intercambiaron bienes,
servicios, saberes y productos autóctonos de la zona. En la actividad,
el Presidente del Instituto Nacional de Desarrollo de la Pequeña y
Mediana Industria (INAPYMI), Américo Mata, destacó que no se busca
sustituir el valor de la moneda, “La idea es que participe el pueblo,
en sus barrios, en sus localidades, que se de un intercambio humanista,
socialista. No se trata de eliminar el dinero”.En este sistema, los participantes ofrecen bienes y servicios, y como
contraprestación reciben una moneda simbólica e intercambiable por
otros productos. Mata explicó que es una alternativa al capitalismo,
que este método tiene factibilidad a pequeñas escalas. La importancia
es que a través de estas experiencias “participa el poder del pueblo
porque es una vía para la satisfacción de necesidades básicas, se
genera la circulación permanente de productos en una economía
incluyente y más humana”, aseguró.

“La Lionza” es la moneda comunitaria, cuyo nombre fue elegido por
voluntad popular a través de una asamblea del grupo del trueque, y se
utiliza como facilitador de intercambio, pues no es acumulativa y tiene
vigencia por tiempo determinado. María Arismendi, una de las
organizadoras de la actividad, explicó que “La Lionza” no es una moneda
comercial, “La Lionza sólo se puede intercambiar en el mercado del
trueque”. Ésta es una propuesta de una nueva economía no condicionada
por el dinero, caracterizada por ser justa, que fomenta la cooperación
en vez de la competencia.

José Palencia, caficultor del Caserío de Los Begotes, en Urachiche,
manifestó que el acercamiento cultural que ofrece esta forma de
comerciar es muy positivo. “Comunidades y pueblos se pueden conectar,
permite encontrarlas y no alejarlas como hace la moneda. Acerca a la
familia, a los grupos”, recalcó. Asimismo, explicó uno de los
propósitos del trueque: “esto es para dejar el individualismo, el
capitalismo. Aquí una cosa que yo necesite producir la puedo obtener
por otra, esa es la fortaleza”.

Este intercambio de bienes se efectuó en medio de un ambiente festivo,
musical y muy propio de la localidad de Urachiche. Los lugareños
pudieron presentar las expresiones artísticas más arraigadas de su
entorno, y la cultura también se hizo presente con el canje de
artesanías y alimentos típicos del lugar.

(Prensa Inapymi/L.Z.-R.A)

Incontro di presentazione del progetto Orti Urbani

Titolo: Incontro di presentazione del progetto Orti Urbani
Luogo: Biblioteca autogestita Enzo e Gioconda, Largo Feruccio Mengaroni, Tor Bella Monaca
Descrizione:

Il primo incontro di presentazione del progetto Orti Urbani si terra’

Venerdi 22 giugno 2007, alle 21:00

alla Biblioteca autogestita Enzo e Gioconda

Largo Feruccio Mengaroni, Tor Bella Monaca

in occasione della cena di sottoscrizione per la Biblioteca Autogestita di TBM (vedi dopo)

Come arrivare:

* Mezzi pubblici: dalla Stazione Termini, tram Termini Laziali-Pantano: da capolinea a fermata Grotte Celoni

* Mezzi pubblici: da Largo Mengaroni, bus notturno 050: da capolinea a Stazione Termini

* Auto: sono disponibili quattro posti in auto, previo accordo in mailing list

Mailing list:

Chi è interessato a partecipare al progetto può iscriversi alla mailing list del Libero Ateneo della Decrescita di Roma

Cena di sottoscrizione per la Biblioteca Autogestita di Tor Bella Monaca

Salve a Ognuno,

la biblioteca autogestita di quel dì romano e brullo di Tor Bella Monaca,
il giorno 22 Giugno alle nove, venerdì

è lieta d’inivitare un numero di chicchessia lettori ad una goliardica cena sociale, a base di cibo succulento e bio ad opra di giovani cuoche educate all’arte della nonna, e vino fresco dei castelli col quale degustare succinte e invitanti prelibatezze..

il tutto con musica lieve e, speriamo, cara brezza estiva a rinfrancare prominenti panze piene.
Per chi volesse, è permesso schiarire l’ugola e leggere forte e chiaro brani di libri amati, per celebrare l’evento.

il tutto al socialissimo prezzo di 10euro

e per chi porta un libro in dono…8euro!!

per chi voglia far parte di di questo scenario bacchico
e sopratutto aiutarci a far nascere una biblioteca nel quartiere per ora provvisto solo dell’ idea di una biblioteca,

mandate una mail di cenaconferma a siblarval [chiocciola] gmail [punto] com !
l’indirizzo è:

Biblioteca autogestita Enzo e Gioconda (forse, ma questo nome e provvisorio)
Largo Feruccio Mengaroni, Tor Bella Monaca.
per chi volesse tirare fino a tardi senza dover dormire tra i libri,
notturno nm 050 termini-capolinea di fronte alla biblioteca.

vi aspettiamo per gozzovigliare !!

a presto.

i biblitici.

Ora inizio: 21:00
Data: 22/06/2007

La Libera Scuola delle Alternative

Per una Scuola delle Alternative: : cosa sono la “decrescita” e la “critica allo sviluppo”?
di Dalma Domeneghini – 06/05/2007

Introduzione

Il testo che segue contiene la sintesi della proposta del gruppo che ha promosso le prime tre edizioni estive della “Libera Scuola delle Alternative” (Parco dell’Aspromonte – RC 2004, Parco Isola Polvese – PG 2005, Agape – TO 2006) e che ha preparato anche la quarta edizione (Agape – TO 2007); il gruppo è composto da studiosi ed ‘animatori di reti’ che hanno deciso di approfondire la riflessione sul tema della “critica allo sviluppo” tramite una scuola estiva e specifiche ricerche e seminari, per cercare di rispondere a queste domande: cosa sono la “decrescita” e la “critica allo sviluppo”?

Diciamo subito che decrescita è il termine con cui sempre più spesso si indica la posizione critica, forse la più netta, ad un sistema economico dominante la cui caratteristica fondamentale è quella di fondarsi su una crescita continua dei consumi e delle merci messe a disposizione sul mercato. Il termine che abitualmente si usa per alludere a questo aspetto è “sviluppo”, che, pertanto, può essere ampiamente considerato ai fini del ragionamento (anche se non tutti sono d’accordo) un sinonimo di crescita quantitativa illimitata.

È dalla fine della seconda guerra mondiale che l’imperativo di tutte le economie – sia capitalistiche che socialiste – è stato lo sviluppo. Dal mondo industrializzato il modello è stato esportato nei paesi del cosiddetto Terzo mondo, definiti da quel momento “sottosviluppati”, divenendo, con la globalizzazione, un obiettivo planetario. Il concetto ci è talmente familiare che non ci chiediamo più cosa significhi veramente.

Ma, già a partire dagli anni ’70 del Novecento questo modello è stato sottoposto a critiche sempre più severe. Negli ultimi anni, una serie di fenomeni quali i danni alla biosfera (in particolare i mutamenti climatici), l’esaurimento progressivo delle materie prime strategiche, il fallimento dei progetti di sviluppo nel sud del mondo supportati dalla “cooperazione internazionale”, gli effetti contraddittori della globalizzazione, hanno dato sempre più argomenti a coloro che criticano lo sviluppo. La proposta della decrescita appare la più eretica in quanto i suoi sostenitori sostengono l’urgenza, pena la catastrofe ecologica e sociale, di una decrescita volontaria, consapevole e selettiva delle produzioni e dei consumi, per scendere dalle spalle del Sud povero del mondo, ridurre la dipendenza dall’importazione di materie prime e lasciare qualche speranza alle generazioni future.

La critica allo sviluppo (e quindi a maggior ragione alla decrescita) nasce quindi dalla registrazione dei danni sempre più gravi che il modello economico dominante provoca sul piano sociale (aumento della povertà e della disuguaglianza), e dell’ambiente (grave alterazione degli equilibri ecologici) e quindi dalla sua stessa crisi come modello di riferimento ‘planetario’.

È ovvio che mettere in discussione il sistema economico dominante, un sistema che ha permesso (e permette tuttora) anche se solo a una parte molto limitata della popolazione mondiale, un livello di vista sicuramente agiato, susciti il rifiuto non solo dalle élite dominanti (economisti, imprenditori, politici ecc.), ma anche da chiunque senta minacciato il tenore di vita di cui gode.

La critica allo sviluppo significa in sostanza critica del modello socio-economico industriale e capitalistico? Si, certamente, ma in verità entra nel merito anche di quel modello socio-economico e politico che per quasi tutto il Novecento è sembrato, agli occhi di molti, essere la sua alternativa: il socialismo. In verità la parola socialismo indica cose molto diverse, ma qui non è possibile fare i necessari distinguo. Diciamo quindi solamente che, se il nocciolo del progetto socialista era costituito dall’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione e dalla sua sostituzione con la direzione dello Stato, come è accaduto nella scomparsa Unione Sovietica, questo modello non è stato meno ‘sviluppista’ di quello capitalista. Anzi, le terrificanti condizioni ecologiche dell’Europa dell’Est dimostrano che lì lo sviluppo industriale è stato ancora più pesante. In qualunque caso quel modello, là dove era stato costruito, è entrato in crisi e quindi oggi non costituisce più un alternativa reale. Esso è stato giudicato da molti nient’altro che un capitalismo di Stato che ha condiviso con il capitalismo occidentale gli stessi obiettivi e le stesse modalità di sfruttamento dell’uomo e della natura.

I critici dello sviluppo, già a partire dagli anni ’60, hanno messo in discussione quindi l’aspetto più profondo della società industriale e hanno cioè affermato che questa non può essere estesa a tutta l’umanità: è oramai evidente che il pianeta non potrà mai sostenere una popolazione planetaria (anch’essa in crescita.), in cui tutti vivono secondo il nostro stile di vita e quindi quello che probabilmente accadrà, sino al collasso ambientale che si prospetta sempre più prossimo, sia un fenomeno cui già assistiamo che vede aumentare la pressione sul pianeta da parte di pochi privilegiati e la sottrazione di risorse e la conseguente sempre maggiore esclusione, fino all’indigenza assoluta, del resto dell’umanità.

Il livello di vita della società dei consumi di massa, così come si è affermato nel Nord America e in Europa (e a cui già si affacciano Cina e India) non può essere sostenuto dal pianeta: calcolando l’impatto dei nostri consumi sulla natura (rifiuti e utilizzo delle risorse, la cosiddetta “impronta ecologica”) e estendendo il nostro stile di vita per ogni abitante del mondo, otterremmo che sarebbero necessari cinque pianeti Terra per soddisfare tutte le nuove necessità.

La critica allo sviluppo si articola però in diverse posizioni. Accanto a quella della decrescita che ci ha attratto per la sua radicalità e per la crescente diffusione che sta conoscendo, va registrata un’altra prospettiva che cerca di salvare il concetto di sviluppo mostrando che esso può essere corretto in modo che sia “sostenibile” o “durevole”. Questi due aggettivi sono diventati molto frequenti, specie il primo, nei documenti di molte agenzie internazionali tra cui l’ONU. L’aspetto essenziale del concetto di “sviluppo sostenibile” consiste nella fiducia di potere ricomporre le ragioni dell’economia e della natura. Questa formula racchiude una certa consapevolezza della necessità di un limite alla crescita, ma conserva il primo posto allo sviluppo o forse sarebbe meglio dire, senza tanti infingimenti, alla crescita.

In ultima analisi per saperne di più e per raccordare le risorse intellettuali e le pratiche che in Italia fanno riferimento alla ‘critica dello sviluppo’ abbiamo deciso di redarre una proposta di manifesto con cui rendere visibili e raccogliere in un’ottica di rete le realtà che si muovono sul tema della “critica dello sviluppo”, a partire da una proposta concreta, sul terreno specifico della formazione alle alternative alla “crescita senza fine” (sul terreno economico, sociale, culturale, ecc.).

Il progetto si propone di collegarsi in primo luogo a quanto già esiste, per verificare insieme livelli più ampi di confronto e di pratiche condivise.

*Il manifesto della scuola*

Il progetto di una “Libera Scuola delle Alternative” nasce dalla constatazione che il modello di sviluppo dominante produce anche e sempre più distruzione, degradazione e morte verso il vivente e i viventi.

I tentativi di imbrigliarlo e ‘riportarlo a ragione’ appaiono sostanzialmente falliti: mai come oggi assistiamo al suo devastante trionfo senza regole, favorito dalle organizzazioni economiche e finanziarie internazionali e dalle politiche liberiste dei governi nazionali.

Mai come oggi, però, leggiamo anche i segnali di una sua crisi profonda, di una inadeguatezza strutturale, di un’esposizione palese dei limiti intrinseci alla sua stessa espansione.

La parola ‘decrescita’ nasce da qui: dalla consapevolezza che sia necessario cambiare immaginari, premesse, prospettive di visione e di orientamento, metodologie.

Se le nostre società sono quindi chiamate a cambiamenti così profondi risulta urgente e necessario l’avvio di un intenso processo (auto)formativo che le faciliti in questo impegnativo e complesso percorso di trasformazione.

I processi di apprendimento, a questo livello, infatti, possono essere anche dolorosi, faticosi, frustranti, perché presuppongono una messa in discussione radicale delle nostre abitudini di pensiero e di azione. Per potersi ‘mettere in gioco’ in una ricerca comune così inedita, è importante essere accompagnati in questa ‘sfida’ da sostegni adeguati e da una buona dose di curiosità e creatività.

Ecco perché i metodi di studio e di apprendimento della scuola che proponiamo dovranno tendere, per coerenza, a favorire la presa di coscienza e la partecipazione, il coinvolgimento attivo di ciascuno e di tutti, la co-costruzione di sensi e significati, l’espressività nei suoi vari codici e linguaggi, una forte integrazione tra mente e corpo, teorie e pratiche, discipline e saperi.

Essi dovranno rappresentare un’alta ed evoluta mediazione del conflitto tra efficacia funzionale (mirata a contenuti e compiti) e sensibilità estetica (centrata su relazioni e contesti), mediazione oggi ancora estremizzata a tutto vantaggio dell’efficacia.

Il mercato cerca di impadronirsi di ogni conoscenza, anche ‘altra’; le istituzioni che dovrebbero occuparsi di ricerca sono disabituate a ‘leggere/ascoltare’ il territorio e i processi di apprendimento degli attori che vi intervengono; i movimenti sociali e tutti i soggetti che sviluppano esperienze alternative rischiano di non avere orizzonti comuni di riferimento ‘teorico’: la natura relazionale e cooperativa della produzione del sapere fatica ad emergere.

Proponiamo quindi una scuola in grado di leggere i bisogni dei territori, per favorirne i processi di autosviluppo sostenibile; di decostruire i quadri di riferimento tradizionali per cercare di impedire che il sistema dominante inglobi il significato di ogni pensiero ed azione sociale e ‘solidale’; di puntare sugli apprendimenti cooperativi, reticolari, tra pari per mostrare in concreto come si costruiscono le relazioni collaborative di rete; di basarsi sulla condivisone della conoscenza, considerandola ‘bene comune’, per contrastare i processi di privatizzazione e di criminalizzazione delle conoscenze sociali; di praticare percorsi non solo analitici, ma che sviluppino la capacità dei partecipanti di reinterpretare la propria soggettività.

Una scuola davvero alternativa, quindi, non solo per i temi, ma anche per i suoi metodi.