Incontro di presentazione del progetto Orti Urbani

Titolo: Incontro di presentazione del progetto Orti Urbani
Luogo: Biblioteca autogestita Enzo e Gioconda, Largo Feruccio Mengaroni, Tor Bella Monaca
Descrizione:

Il primo incontro di presentazione del progetto Orti Urbani si terra’

Venerdi 22 giugno 2007, alle 21:00

alla Biblioteca autogestita Enzo e Gioconda

Largo Feruccio Mengaroni, Tor Bella Monaca

in occasione della cena di sottoscrizione per la Biblioteca Autogestita di TBM (vedi dopo)

Come arrivare:

* Mezzi pubblici: dalla Stazione Termini, tram Termini Laziali-Pantano: da capolinea a fermata Grotte Celoni

* Mezzi pubblici: da Largo Mengaroni, bus notturno 050: da capolinea a Stazione Termini

* Auto: sono disponibili quattro posti in auto, previo accordo in mailing list

Mailing list:

Chi è interessato a partecipare al progetto può iscriversi alla mailing list del Libero Ateneo della Decrescita di Roma

Cena di sottoscrizione per la Biblioteca Autogestita di Tor Bella Monaca

Salve a Ognuno,

la biblioteca autogestita di quel dì romano e brullo di Tor Bella Monaca,
il giorno 22 Giugno alle nove, venerdì

è lieta d’inivitare un numero di chicchessia lettori ad una goliardica cena sociale, a base di cibo succulento e bio ad opra di giovani cuoche educate all’arte della nonna, e vino fresco dei castelli col quale degustare succinte e invitanti prelibatezze..

il tutto con musica lieve e, speriamo, cara brezza estiva a rinfrancare prominenti panze piene.
Per chi volesse, è permesso schiarire l’ugola e leggere forte e chiaro brani di libri amati, per celebrare l’evento.

il tutto al socialissimo prezzo di 10euro

e per chi porta un libro in dono…8euro!!

per chi voglia far parte di di questo scenario bacchico
e sopratutto aiutarci a far nascere una biblioteca nel quartiere per ora provvisto solo dell’ idea di una biblioteca,

mandate una mail di cenaconferma a siblarval [chiocciola] gmail [punto] com !
l’indirizzo è:

Biblioteca autogestita Enzo e Gioconda (forse, ma questo nome e provvisorio)
Largo Feruccio Mengaroni, Tor Bella Monaca.
per chi volesse tirare fino a tardi senza dover dormire tra i libri,
notturno nm 050 termini-capolinea di fronte alla biblioteca.

vi aspettiamo per gozzovigliare !!

a presto.

i biblitici.

Ora inizio: 21:00
Data: 22/06/2007

La Libera Scuola delle Alternative

Per una Scuola delle Alternative: : cosa sono la “decrescita” e la “critica allo sviluppo”?
di Dalma Domeneghini – 06/05/2007

Introduzione

Il testo che segue contiene la sintesi della proposta del gruppo che ha promosso le prime tre edizioni estive della “Libera Scuola delle Alternative” (Parco dell’Aspromonte – RC 2004, Parco Isola Polvese – PG 2005, Agape – TO 2006) e che ha preparato anche la quarta edizione (Agape – TO 2007); il gruppo è composto da studiosi ed ‘animatori di reti’ che hanno deciso di approfondire la riflessione sul tema della “critica allo sviluppo” tramite una scuola estiva e specifiche ricerche e seminari, per cercare di rispondere a queste domande: cosa sono la “decrescita” e la “critica allo sviluppo”?

Diciamo subito che decrescita è il termine con cui sempre più spesso si indica la posizione critica, forse la più netta, ad un sistema economico dominante la cui caratteristica fondamentale è quella di fondarsi su una crescita continua dei consumi e delle merci messe a disposizione sul mercato. Il termine che abitualmente si usa per alludere a questo aspetto è “sviluppo”, che, pertanto, può essere ampiamente considerato ai fini del ragionamento (anche se non tutti sono d’accordo) un sinonimo di crescita quantitativa illimitata.

È dalla fine della seconda guerra mondiale che l’imperativo di tutte le economie – sia capitalistiche che socialiste – è stato lo sviluppo. Dal mondo industrializzato il modello è stato esportato nei paesi del cosiddetto Terzo mondo, definiti da quel momento “sottosviluppati”, divenendo, con la globalizzazione, un obiettivo planetario. Il concetto ci è talmente familiare che non ci chiediamo più cosa significhi veramente.

Ma, già a partire dagli anni ’70 del Novecento questo modello è stato sottoposto a critiche sempre più severe. Negli ultimi anni, una serie di fenomeni quali i danni alla biosfera (in particolare i mutamenti climatici), l’esaurimento progressivo delle materie prime strategiche, il fallimento dei progetti di sviluppo nel sud del mondo supportati dalla “cooperazione internazionale”, gli effetti contraddittori della globalizzazione, hanno dato sempre più argomenti a coloro che criticano lo sviluppo. La proposta della decrescita appare la più eretica in quanto i suoi sostenitori sostengono l’urgenza, pena la catastrofe ecologica e sociale, di una decrescita volontaria, consapevole e selettiva delle produzioni e dei consumi, per scendere dalle spalle del Sud povero del mondo, ridurre la dipendenza dall’importazione di materie prime e lasciare qualche speranza alle generazioni future.

La critica allo sviluppo (e quindi a maggior ragione alla decrescita) nasce quindi dalla registrazione dei danni sempre più gravi che il modello economico dominante provoca sul piano sociale (aumento della povertà e della disuguaglianza), e dell’ambiente (grave alterazione degli equilibri ecologici) e quindi dalla sua stessa crisi come modello di riferimento ‘planetario’.

È ovvio che mettere in discussione il sistema economico dominante, un sistema che ha permesso (e permette tuttora) anche se solo a una parte molto limitata della popolazione mondiale, un livello di vista sicuramente agiato, susciti il rifiuto non solo dalle élite dominanti (economisti, imprenditori, politici ecc.), ma anche da chiunque senta minacciato il tenore di vita di cui gode.

La critica allo sviluppo significa in sostanza critica del modello socio-economico industriale e capitalistico? Si, certamente, ma in verità entra nel merito anche di quel modello socio-economico e politico che per quasi tutto il Novecento è sembrato, agli occhi di molti, essere la sua alternativa: il socialismo. In verità la parola socialismo indica cose molto diverse, ma qui non è possibile fare i necessari distinguo. Diciamo quindi solamente che, se il nocciolo del progetto socialista era costituito dall’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione e dalla sua sostituzione con la direzione dello Stato, come è accaduto nella scomparsa Unione Sovietica, questo modello non è stato meno ‘sviluppista’ di quello capitalista. Anzi, le terrificanti condizioni ecologiche dell’Europa dell’Est dimostrano che lì lo sviluppo industriale è stato ancora più pesante. In qualunque caso quel modello, là dove era stato costruito, è entrato in crisi e quindi oggi non costituisce più un alternativa reale. Esso è stato giudicato da molti nient’altro che un capitalismo di Stato che ha condiviso con il capitalismo occidentale gli stessi obiettivi e le stesse modalità di sfruttamento dell’uomo e della natura.

I critici dello sviluppo, già a partire dagli anni ’60, hanno messo in discussione quindi l’aspetto più profondo della società industriale e hanno cioè affermato che questa non può essere estesa a tutta l’umanità: è oramai evidente che il pianeta non potrà mai sostenere una popolazione planetaria (anch’essa in crescita.), in cui tutti vivono secondo il nostro stile di vita e quindi quello che probabilmente accadrà, sino al collasso ambientale che si prospetta sempre più prossimo, sia un fenomeno cui già assistiamo che vede aumentare la pressione sul pianeta da parte di pochi privilegiati e la sottrazione di risorse e la conseguente sempre maggiore esclusione, fino all’indigenza assoluta, del resto dell’umanità.

Il livello di vita della società dei consumi di massa, così come si è affermato nel Nord America e in Europa (e a cui già si affacciano Cina e India) non può essere sostenuto dal pianeta: calcolando l’impatto dei nostri consumi sulla natura (rifiuti e utilizzo delle risorse, la cosiddetta “impronta ecologica”) e estendendo il nostro stile di vita per ogni abitante del mondo, otterremmo che sarebbero necessari cinque pianeti Terra per soddisfare tutte le nuove necessità.

La critica allo sviluppo si articola però in diverse posizioni. Accanto a quella della decrescita che ci ha attratto per la sua radicalità e per la crescente diffusione che sta conoscendo, va registrata un’altra prospettiva che cerca di salvare il concetto di sviluppo mostrando che esso può essere corretto in modo che sia “sostenibile” o “durevole”. Questi due aggettivi sono diventati molto frequenti, specie il primo, nei documenti di molte agenzie internazionali tra cui l’ONU. L’aspetto essenziale del concetto di “sviluppo sostenibile” consiste nella fiducia di potere ricomporre le ragioni dell’economia e della natura. Questa formula racchiude una certa consapevolezza della necessità di un limite alla crescita, ma conserva il primo posto allo sviluppo o forse sarebbe meglio dire, senza tanti infingimenti, alla crescita.

In ultima analisi per saperne di più e per raccordare le risorse intellettuali e le pratiche che in Italia fanno riferimento alla ‘critica dello sviluppo’ abbiamo deciso di redarre una proposta di manifesto con cui rendere visibili e raccogliere in un’ottica di rete le realtà che si muovono sul tema della “critica dello sviluppo”, a partire da una proposta concreta, sul terreno specifico della formazione alle alternative alla “crescita senza fine” (sul terreno economico, sociale, culturale, ecc.).

Il progetto si propone di collegarsi in primo luogo a quanto già esiste, per verificare insieme livelli più ampi di confronto e di pratiche condivise.

*Il manifesto della scuola*

Il progetto di una “Libera Scuola delle Alternative” nasce dalla constatazione che il modello di sviluppo dominante produce anche e sempre più distruzione, degradazione e morte verso il vivente e i viventi.

I tentativi di imbrigliarlo e ‘riportarlo a ragione’ appaiono sostanzialmente falliti: mai come oggi assistiamo al suo devastante trionfo senza regole, favorito dalle organizzazioni economiche e finanziarie internazionali e dalle politiche liberiste dei governi nazionali.

Mai come oggi, però, leggiamo anche i segnali di una sua crisi profonda, di una inadeguatezza strutturale, di un’esposizione palese dei limiti intrinseci alla sua stessa espansione.

La parola ‘decrescita’ nasce da qui: dalla consapevolezza che sia necessario cambiare immaginari, premesse, prospettive di visione e di orientamento, metodologie.

Se le nostre società sono quindi chiamate a cambiamenti così profondi risulta urgente e necessario l’avvio di un intenso processo (auto)formativo che le faciliti in questo impegnativo e complesso percorso di trasformazione.

I processi di apprendimento, a questo livello, infatti, possono essere anche dolorosi, faticosi, frustranti, perché presuppongono una messa in discussione radicale delle nostre abitudini di pensiero e di azione. Per potersi ‘mettere in gioco’ in una ricerca comune così inedita, è importante essere accompagnati in questa ‘sfida’ da sostegni adeguati e da una buona dose di curiosità e creatività.

Ecco perché i metodi di studio e di apprendimento della scuola che proponiamo dovranno tendere, per coerenza, a favorire la presa di coscienza e la partecipazione, il coinvolgimento attivo di ciascuno e di tutti, la co-costruzione di sensi e significati, l’espressività nei suoi vari codici e linguaggi, una forte integrazione tra mente e corpo, teorie e pratiche, discipline e saperi.

Essi dovranno rappresentare un’alta ed evoluta mediazione del conflitto tra efficacia funzionale (mirata a contenuti e compiti) e sensibilità estetica (centrata su relazioni e contesti), mediazione oggi ancora estremizzata a tutto vantaggio dell’efficacia.

Il mercato cerca di impadronirsi di ogni conoscenza, anche ‘altra’; le istituzioni che dovrebbero occuparsi di ricerca sono disabituate a ‘leggere/ascoltare’ il territorio e i processi di apprendimento degli attori che vi intervengono; i movimenti sociali e tutti i soggetti che sviluppano esperienze alternative rischiano di non avere orizzonti comuni di riferimento ‘teorico’: la natura relazionale e cooperativa della produzione del sapere fatica ad emergere.

Proponiamo quindi una scuola in grado di leggere i bisogni dei territori, per favorirne i processi di autosviluppo sostenibile; di decostruire i quadri di riferimento tradizionali per cercare di impedire che il sistema dominante inglobi il significato di ogni pensiero ed azione sociale e ‘solidale’; di puntare sugli apprendimenti cooperativi, reticolari, tra pari per mostrare in concreto come si costruiscono le relazioni collaborative di rete; di basarsi sulla condivisone della conoscenza, considerandola ‘bene comune’, per contrastare i processi di privatizzazione e di criminalizzazione delle conoscenze sociali; di praticare percorsi non solo analitici, ma che sviluppino la capacità dei partecipanti di reinterpretare la propria soggettività.

Una scuola davvero alternativa, quindi, non solo per i temi, ma anche per i suoi metodi.

Il Consumatore contro la Comunità

di Mark Winston Griffith (da Tom Paine Common Sense 31.03.2005)

 

La proprietà della casa, per la destra vero e proprio pilastro e feticcio della propria società ideale, può essere invece un concreto ostacolo alla costruzione della comunità e della partecipazione.

“Una società di proprietari”. Grazie al presidente Bush, quelle due parole rotolano sulla lingua come fossero una sola. Ma ci sono momenti in cui la nozione di proprietà trama contro l’idea di società: specialmente quando si confrontano nella vita quotidiana delle città americane. Quello di cui l’America ha davvero bisogno è una politica che accenda il sentimento comunitario e la cooperazione fra cittadini, anziché semplicemente insegnar loro a investire la vita nell’ American Dream. La Società dei Proprietari vuole essere la risposta del XXI secolo al New Deal o alla Great Society: programmi dove il governo aveva un ruolo definito nel migliorare la vita degli americani. Programmi che avevano dei difetti, certamente, ma che promuovevano il lavoro e la responsabilità collettiva. Spingevano gli americani a porre al centro il benessere della comunità, a considerare il proprio destino personale come inestricabimente legato a quello del prossimo. Quando il Presidente Bush parla della sua Ownership Society, invece, offre un programma che esalta le possibilità del singolo consumatore. La proprietà della casa ne è un esempio perfetto. Pilastro centrale della società dei proprietari, la proprietà della casa è abitualmente dipinta come la più alta forma di cittadinanza alla quale gli americani dovrebbero aspirare. Questa valorizzazione è sostenuta da una notevole quantità di studi sulla proprietà. L’ossessione inizia con la teoria secondo cui la casa della singola famiglia rappresenta un investimento fondativo per la comunità. Ciò significa, prosegue la teoria, che i proprietari sono meno propensi a muoversi, saranno portati alla manutenzione della proprietà, all’attenzione per l’ambiente del quartiere, di quanto non siano i loro pari, ma inquilini in affitto.

Eppure in tutti i miei anni di impegno in organizzazioni per lo sviluppo economico – oltre ad essere io stesso proprietario di casa – ho visto anche come la proprietà possa spingere la gente a concentrarsi su di sé, a spese della comunità che gli sta intorno. Nei miei dodici anni a capo di un’organizzazione di base a Central Brooklyn, la maggior parte dei gruppi di proprietari di casa con cui sono entrato in contatto erano del tipo NIMBY ( Not In My Backyard). Erano più appassionati ed efficienti nell’organizzare giri per le case in pietra caratteristiche della zona, e a bloccare vari progetti cittadini in partenza, anziché ad iniziare qualunque programma di beneficio sociale. Alle assemblee del mio condominio, sono regolarmente trascinato in discussioni in buona fede coi miei colleghi proprietari, inevitabilmente orientate a proteggere il valore della nostra proprietà e i nostri interessi. Quando penso a me stesso in modo ristretto, come proprietario di casa, il mio cortile diventa l’universo. Qualunque cosa, dalla cacca di cane sul mio prato alle case popolari all’angolo, diventa una minaccia. Vengo colto da impulsi di autodifesa, reazionari e gretti che non sapevo di avere. Siamo chiari: aumentare la possibilità che le famiglie a basso reddito possiedano una casa è senza dubbio uno degli elementi più importanti per la costruzione del benessere, utilizzati dai professionisti dello sviluppo economico comunitario in tutto il paese. In un’economia dove tante persone si sentono escluse, la proprietà della casa spesso offre alle famiglie un rifugio, una fetta di dignità e un modo per esercitare controllo sulle proprie vite e il proprio ambiente. Ma è comunque fuorviate fare della proprietà della casa un feticcio, conferendole virtù mistiche di misura del valore dell’individuo per la società, in base a ciò che possiede. Se lo scopo della Ownership Society del presidente Bush è quello di creare soggetti che siano responsabili, membri attivi della società, abbiamo davvero bisogno di una leadership nazionale che sappia distinguere il consumismo dalla cittadinanza.

La proprietà della casa è una scommessa di alto profilo. Proponendo un’idea individualista come quella dei buoni scuola o delle assicurazioni private per la sicurezza sociale, la politica interna americana isola sempre più vite familiari e vicende economiche che un tempo erano esperienze condivise da tutti. Contemporaneamente, la nostra cultura incoraggia i ceti operai e medi a concentrare la propria sicurezza finanziaria nella casa familiare. In queste condizioni, l’impegno civico non direttamente legato agli interessi della proprietà diventa un lusso che pochi si possono permettere. Programmi come la American Dream Downpayment Initiative (ADD), approvata all’unanimità dal Congresso nel 2003 con enorme sostegno bipartisan, offrono sostegni al pagamento degli interessi per famiglie a basso reddito. Ma se la ADD è un’iniziativa valida, sia questa che altri programmi per la proprietà della casa si concentrano esclusivamente nell’ungere gli ingranaggi del mercato immobiliare. Anziché accettare solo i paradigmi del mercato, i progressisti dovrebbero guardare alla Ownership Society per quello che realmente è. Così gli strumenti potrebbero diventare nelle mani dei professionisti di sviluppo locale mezzi per promuovere modelli come i land trusts o le cooperative a proprietà indivisa, forme di proprietà alternative che consentano agli abitanti di condividere e diffondere sia i rischi che i benefici della proprietà. Nello stesso modo, quando si parla di rimuovere gli ostacoli all’accesso alal casa in proprietà, i legislatori dovrebbero tutelare e aggiornare il Community Reinvestment Act e introdurre leggi di giustizia economica contro gli impedimenti discriminatori e strutturali del mercato della proprietà e dell’affitto, come i mutui ad alto costo predatori. Quando parlano di società dei proprietari, i leaders locali, politici, religiosi, dovrebbero parlare della responsabilità dei proprietari di casa verso i propri vicini, di come si possano usare il capitale e la posizione sociale per ricostruire la comunità che ci sta attorno. Forse, allora, la proprietà di casa potrà essere usata per ispirare qualcosa di più elevato del “Prenditi ciò che è tuo”.

traduzione di Fabrizio Bottini per Eddyburg

Intervista a Yochai Benkler

 

di OmniaCommunia

Milano, 10 maggio 2007. Yochai Benkler presenta il suo libro “La ricchezza della Rete” e noi lo intervistiamo a lungo su produzione orizzontale, commons, proprietà intellettuale e social software. Ecco le sue risposte.

Cos’è la produzione orizzontale (commons-based peer production)? Come trasforma il modo in cui guardiamo all’economia?

Gli elementi in gioco sono due: i commons (beni comuni) e la produzione orizzontale. La parola “commons” si riferisce a un modo di organizzare le risorse. Strade, marciapiedi e piazze sono commons. Significa che tutti possono usarli entro un dato insieme di norme oppure senza alcuna regola, senza chiedere il permesso a nessuno. La produzione basata sui beni comuni può essere commerciale o non commerciale. Per esempio, qualcuno che tiene uno spettacolo in piazza per raccogliere denaro sta seguendo un modello commerciale basato sui commons: sta usando uno spazio comune, a differenza di quello che farebbe in un teatro.

“Produzione orizzontale” si riferisce invece a un fenomeno di cooperazione su larga scala dedicato a un certo progetto o problema. Ciò che caratterizza la produzione orizzontale è che essa rappresenta un modello alternativo di organizzare la gente, rispetto a quelli delle aziende e del mercato. Più che rispondere al comando manageriale o al sistema dei prezzi, i produttori orizzontali (i pari) organizzare le loro attività tramite motivazioni sociali e comunicazione.

L’avvento della produzione basata sui commons in generale, e della produzione orizzontale in particolare, crea un nuovo settore all’interno dell’economia dell’informazione e della conoscenza. Dà vita a nuove fonti di competizione per le imprese consolidate, ma anche a nuove opportunità per quelle imprese che sapranno adattarsi abbastanza rapidamente. I desideri che esaudisce sono vecchi, come il bisogno di enciclopedie, ma lo fa in forme nuove. Inoltre fornisce alle persone cose completamente nuove, in particolare forme di espressione tramite parole, suoni e immagini.

In che modo libertà di espressione e libertà politiche possono essere migliorate da media digitali open access e many-to-many (da molti a molti)?

Ciò che conosciamo, il modo in cui conosciamo, quello che pensiamo del mondo e il modo in cui riusciamo a immaginarlo sono cruciali per la libertà individuale e la partecipazione politica. Il fatto che oggi così tanta gente possa parlare, e che si stia raggruppando in reti di citazione reciproca, come la blogosfera, fa sì che per ogni individuo sia più facile farsi ascoltare ed entrare in una vera conversazione pubblica.

Al contempo, sulla Rete ci sono un sacco di sciocchezze. Ma incontrare queste assurdità è positivo. Ci insegna a essere scettici, a cercare riferimenti incrociati e più in generale a trovare da soli ciò che ci serve. La ricerca di fonti differenti è un’attività molto più coinvolgente e autonoma rispetto alla ricerca della risposta da parte di un’autorità. Quindi ora, quando entriamo nel mondo, adottiamo due atteggiamenti politicamente interessanti. Innanzitutto vediamo le cose con gli occhi di chi può commentare ciò che vede in una piattaforma politica di un certo peso. E lo facciamo con uno sguardo da critici scafati, invece che da credenti.

Quali forze politiche, in Europa e America, stanno supportando produzione sociale, libertà digitali e riduzione della protezione monopolistica garantita da brevetti e copyright?

Credo che ci troviamo di fronte all’emergere di un movimento per l’accesso globale alla conoscenza che rappresenta la risposta alle spinte degli anni Ottanta e Novanta in direzione dell’estensione di brevetti e copyright in ogni aspetto dell’innovazione e della creatività e della loro integrazione nel sistema globale del commercio tramite gli accordi Trips all’interno della Wto. Di questo movimento fanno parte alcune alleanze sorprendenti. Un primo elemento è costituito dalle organizzazioni tradizionali della società civile: associazioni di consumatori e gruppi per i diritti civili che percepiscono l’importanza della partecipazione degli individui alla produzione del loro ambiente informazionale.

Un altro elemento è rappresentato dai programmatori. L’emergere del movimento del free software ha portato più di un milione di informatici, soprattutto negli Stati uniti e in Europa, alla consapevolezza di subire gli effetti di copyright e brevetti, e li ha politicizzati in modi che per gli ingegneri del passato sarebbero risultati estremamente atipici. Gli scontri su musica e video, insieme alle disponibilità su larga scala di strumenti che rendono qualunque teenager un potenziale creativo (e un potenziale criminale) hanno guidato il movimento degli studenti per la free culture e quello dei Creative Commons.

Al contempo, le maggiori aziende di tecnologia dell’informazione stanno comprendendo che l’ecosistema legale all’interno del quale si trovano a operare sta alzando i costi che esse devono sopportare senza dar loro alcun vantaggio reale. Molte aziende di It si trovano a spendere milioni di dollari in brevetti che hanno solo scopi difensivi, e a doversi preoccupare della possibilità che i loro standard vengano trafugati dal possessore di un brevetto, oppure che chi detiene un diritto di proprietà intellettuale li citi in giudizio per cifre astronomiche a causa di una tecnologia da loro sviluppata.

Anche alcuni paesi in via di sviluppo, in particolare il Brasile, hanno cominciato a fare causa comune con questa grande coalizione sotto la sigla “A2K” – Access to Knowledge. Si tratta di un movimento molto simile a quello apparso negli Stati uniti tra il 1999 e il 2001, quando organizzazioni della società civile e compagnie tecnologiche cominciarono a formare una lobby che per quasi un decennio ha prevenuto l’approvazione di leggi o regolamenti che facessero gli interessi degli incumbent dell’economia industriale dell’informazione. Inoltre è simile al movimento europeo contro la brevettazione del software. Ma ora sta raggiungendo dimensioni globali.

Il 2006 è stato l’anno del social networking e del web 2.0. Credi che finiranno come la bolla delle dot-com o che sia davvero possibile cavarne un sacco di denaro, come sembrano inclini a credere Google e Murdoch?

Innanzitutto, non dovremmo confondere l’esplosione del folle stock market con un fallimento del decollo di internet. Non scordiamocelo: Google, Amazon, eBay, eccetera sono tutte aziende sorte prima e durante e rimaste in vita dopo l’esplosione della bolla. Le pratiche sociali ed economiche dell’industria dell’informazione sono cambiate e il risultato è stato un aumento enorme del valore e della produttività delle aziende. Non prendiamo la Bolla 1.0 soltanto come un periodo di inganni. È stata una fase di crescita, innovazione e sviluppo enormi, che è finito soffocato da avidità e follia. È la seconda parte, non la prima, a essere collassata.

Credo insomma che web 2.0 e social networking rappresentino una combinazione di innovazioni fondamentali – alle quali dedico molto spazio nel mio libro – e di inganni e tentativi di fare un sacco di soldi in poco tempo. Prima o poi, non possiamo sapere se fra uno o cinque anni, un bel po’ di gente diventerà avida e sconsiderata e perderà denaro. Ma ciò non renderà meno reali o meno stabili i nuovi modelli economici, l’innovazione e la crescita. Per cui sì, credo che ci sia un intero schieramento di modelli economici attorno ai commons informazionali. Alcune imprese stanno già facendo grandi guadagni, altre ci stanno gettando un sacco di soldi e c’è molta incertezza. Ma il cambiamento cruciale in direzione della decentralizzazione del capitale umano e fisico e le opportunità rappresentate dall’integrazione di questi esseri umani dotati di nuove capacità all’interno delle pratiche sociali ed economiche ci saranno ancora.

I principi della teoria liberale della giustizia richiedono che le amministrazioni pubbliche e le istituzioni educative utilizzino software libero/open source?

No, non credo che si debbano derivare scelte così specifiche dalla teoria liberale. Le amministrazioni hanno molte responsabilità, incluso assicurare l’uso di software eccellente, per esempio utilizzabile dai bambini come dagli studenti. Se il free software non risponde a queste caratteristiche, allora è legittimo che un governo decida di non usarlo.
Però credo che le istituzioni pubbliche ed educative non debbano avere pregiudizi in favore dei modelli proprietari solo perché esistono e sono stati oggetto di attività di lobby.

Devono verificare le applicazioni disponibili e pensare a lungo termine, riflettendo sull’alfabetizzazione informatica e su quanto la differenza tra i due modelli possa aumentare nei ragazzi la consapevolezza relativa a ciò che stanno usando e a come usarlo. Se una piattaforma rischia di diventare monopolistica o se le capacità del sistema vengono azzoppate affinché aderiscano alle esigenze dell’industria, come nel caso dei cosiddetti trusted system, allora sì: l’uso di sistemi aperti acquisisce grande valore e può diventare una strategia cruciale.

Tuttavia ci sono altri aspetti che supportano l’adozione del free software. Lo sviluppo, per esempio, è fortemente influenzato dal software libero perché quest’ultimo facilita la nascita di un mercato interno per i programmatori, che possono quindi partecipare al mercato globale dei servizi software in modo più immediato rispetto a quanto potrebbero fare se conoscessero solo i sistemi proprietari e quindi per l’accesso alla competizione dipendessero dalle licenze. La Difesa e i sistemi della sicurezza nazionale tendono a utilizzare free software, in parte per la sua robustezza, ma soprattutto perché garantisce indipendenza da qualunque azienda e possibilità di adattare il software alle proprie esigenze.

Per riassumere: ci sono molti buoni motivi per adottare il software libero, nelle scuole e in qualunque altro luogo. Dal mio punto di vista, l’impegno a favore di un’infrastruttura comune e aperta, incluso il livello del software, è coerente con l’impegno in direzione della libertà e della giustizia. Questo impegno dovrebbe informare le decisioni pubbliche, ma non sono certo che debba sovrastare altre considerazioni politiche.