Una moneta per San Lorenzo

di Edoardo Sassi, Corriere della Sera – 30 novembre 2012

Cinema Palazzo e Istituto Svizzero, tra arte ed economia Protagonisti L’economista Andrea Fumagalli e i creativi Annette Amberg, Nuri Koerfer, Daniel Knorr

Di cosa si tratti esattamente lo si scoprirà, certamente, questo pomeriggio. Ma l’evento, a metà strada tra arte ed economia (reale? utopica? Gli animatori assicurano, o almeno vorrebbero, che si trattasse di economia reale) è talmente curioso che val forse la pena di anticiparlo e presentarlo, anche per la singolarità della partnership: da una parte l’Istituto Svizzero di Roma, organo ufficiale del Paese elvetico ma da sempre realtà attenta alla sperimentazione in campo artistico; dall’altra il collettivo Nuovo Cinema Palazzo, esperienza nata da una occupazione  cittadini, artisti, studenti, associazioni, abitanti del rione iniziata nell’aprile 2011 per opporsi all’apertura di una specie di casinò-sala giochi.Da questa esperienza si è sviluppato un fitto, articolato e interessante laboratorio artistico, che ora, volendo favorire la presenza dell’azione artistica in contesti specifici e reali, volendo insomma verificare l’efficacia del processo creativo sulla realtà, vuol dare vita, con l’Istituto Svizzero e altri partner, a «Una moneta per San Lorenzo», una moneta di quartiere che nasce per ora come possibilità, ma che punta a diventare realtà concreta.Per saperne di più, appunto, c’è l’incontro di oggi alle 18 dal titolo «Unità di dismisura. Una moneta per San Lorenzo», nella sede dell’Istituto (ingresso libero, via Liguria 20, tel. 06.42042620, www.istitutosvizzero.it), al quale partecipano, tra gli altri, l’economista Andrea Fumagalli (laurea alla Bocconi, docente all’università di Pavia), il collettivo Nuovo Cinema Palazzo Roma, il direttore dell’Istituto Svizzero Christoph Riedweg e tre artisti con esperienza internazionale: Annette Amberg (1978, lavora a Zurigo), Nuri Koerfer (1981, lavora tra Berlino e Zurigo) e Daniel Knorr, di Bucarest, 198, anche lui attivo a Berlino.Oggi saranno spiegati tempi e modalità per arrivare alla battitura di una vera e propria moneta locale che attraverserà diverse fasi: studio economico e del territorio, individuazione delle nuove necessità della collettività, analisi delle esperienze pregresse di moneta locale in altri contesti culturali e sociali, utilizzo dell’arte e la sua «dismisura» per immaginare nuovi modelli formali da applicare concretamente nel mondo reale.Per provare a rendere efficace questo potenziale di una moneta di scambio locale si è infatti ritenuto opportuno chiamare alcuni tra i tanti artisti che negli ultimi anni hanno utilizzato la moneta come oggetto della loro creatività. «Openings Out to the Reality» è il motto di questa iniziativa, che in realtà è anche un ciclo espositivo curato da Salvatore Lacagnina e Lorenzo Gigotti. L’evento di stasera è il debutto, poi si andrà avanti nel corso dell’anno.

La moneta (del) comune. Intervento di Stefano Lucarelli

Summer School: la moneta (del) comune, commenti a Christian Marazzi

di STEFANO LUCARELLI

Il tema della rendita e del biopotere è stato immediatamente declinato da Christian Marazzi come un problema che risponde a una domanda che credo si possa formulare nel modo seguente: di che moneta ha bisogno la soggettività costituente per non essere assoggettata?

I passaggi logici che vanno dai concetti di rendita e di biopotere fino ad una domanda del genere li do per scontati. Ricordo solo che quando ci riferiamo alla rendita lo facciamo a un certo livello dello sviluppo capitalistico – che abbiamo definito capitalismo cognitivo e finanziarizzato. Essa va dunque compresa tenendo conto del fenomeno del divenire rendita del profitto. Il biopotere è un’espressione presente in Foucault che chiama tutti in causa, poiché rinvia alla dicotomia soggettività/assoggettamento, quella dicotomia che caratterizza una forma della sovranità a questo stadio di sviluppo del capitalismo, che sempre Foucault ha chiamato governamentalità. Intendo qui la governamentalità come una peculiare evoluzione della sovranità che cerca di imbrigliare le soggettività, lasciando le briglie in talune circostanze, per valutare e conoscere la produttività, la creatività, che si può dare al di fuori delle forme tradizionali del comando, per poi ritirare le briglie. In tal senso la governamentalità partecipa di una certa forma di libertà, che presuppone che noi (in quanto soggettività costituenti) ci liberiamo da questa modalità di partecipazione ad una forma non autentica (cioè capitalistica poiché funzionale al regime di accumulazione contemporaneo) di libertà.

Di che moneta ha bisogno la soggettività costituente per non essere assoggettata, per non limitarsi ad una libertà non autentica? Ciò che qui è innanzitutto rilevante è che ci poniamo questa domanda in un momento in cui l’Europa monetaria va sgretolandosi a causa delle sue contraddizioni monetarie e istituzionali, o meglio istitutive, o ancora meglio biopolitiche. La stessa Banca Centrale Europea partecipa della governamentalità, la subisce. Di questo ha già parlato Christian Marazzi. Queste carenze istituzionali vanno analizzate in un particolare orizzonte, l’orizzonte dei movimenti sociali che dovrebbero sottrarsi a qualsiasi ripiego sovranista, nel pieno di un processo costitutivo che deve restare aperto. E che quindi comporta una comprensione cosciente della moneta innanzitutto, e della moneta, si è detto, come Comune. Dire moneta come Comune significa nominare un processo in divenire; pertanto siamo dinanzi ad una espressione che si accompagna a stati confusionali che dobbiamo fronteggiare.

Il punto di partenza che ho deciso di assumere per la comprensione della moneta è antico ma non per questo inutile: mi sono posto pertanto il problema dell’uso proprio e dell’uso improprio della moneta. Per questo voglio leggere e commentare un brano tratto dall’opera di Aristotele. Aristotele parte da una costatazione: la moneta sembra la ricchezza stessa. Se la moneta fosse effettivamente ricchezza sarebbe il più perfetto oggetto del desiderio. Ma la sua natura è di essere interamente legge.

«Infatti, il più delle volte si ritiene che la ricchezza consista in una quantità di moneta, giacché è la moneta ciò su cui sembra concentrarsi il commercio. E tuttavia, accade una buona volta che la moneta appaia invece come peculiare “nonsenso”, cioè come qualcosa la cui natura è di essere interamente legge – e non qualcosa che sorga da sé e in vista di sé -, dal momento che, quando coloro che ne fanno uso l’hanno effettivamente scambiata, essa non ha più alcun valore, e nemmeno è di una qualche utilità per le necessità della vita. E in effetti, un uomo ben provvisto di moneta può trovarsi a mancare degli alimenti a lui necessari. Ma sarebbe davvero assurdo che la ricchezza fosse tale che un uomo ben provvisto di essa si trovasse a morire di fame, come Mida nel mito: al quale, per via della sua ingorda preghiera, tutto ciò che gli veniva offerto si trasformava in oro.»[1]

Quindi moneta e legge hanno dei tratti comuni. Quali? Quali sono gli elementi specifici di una legge. Stiamo riferendoci alla legge in senso aristotelico, cioè a qualcosa che non può essere limitato alla sovranità intesa come imposizione di un certo comportamento ad una popolazione. Quando la moneta è usata in modo proprio, essa ha la stessa costitutiva inappropriabilità che è propria della legge. Se una legge non è semplicemente un comando volto a realizzare una coazione a ripetere, nessuno deve appropriarsene. Si potrebbe anche dire nel modo seguente: un processo costituente moltitudinario deve sempre lasciare aperti spazi di mediazione. Affinché la moneta non si muti in un dispositivo di assoggettamento essa deve mantenere una costitutiva inappropriabilità. La legge, proprio perché sempre inappropriabile, lascia aperto il desiderio persistente di farla propria. Qui sta il tratto del Comune, che è radicalmente altro dal gesto di imposizione. È possibile immaginare una moneta di questo tipo? Una moneta che lasci la soggettività libera dall’assoggettamento. Cioè, detto in altri termini, esiste la possibilità che la moneta non sia “denaro come capitale”, “denaro come comando monetario”? Il denaro, come ci insegna la lettura dei Grundrisse, «è la dimostrazione che il movimento del valore è pura precarietà, che la sua solidità è solo tendenziale e riesce solo a determinarsi nel continuo alternarsi fra medietà sociale del lavoro necessario e sua sovradeterminazione forzosa» (Antonio Negri, Marx oltre Marx, Feltrinelli, 1979, p. 51). Il denaro è qui ciò che la moneta non deve essere. Siamo di fronte ad un uso improprio della moneta, sebbene appropriato per la struttura capitalistica fondata sullo sfruttamento. Da uno sfruttamento che è costituito immediatamente dal modo in cui si convive con il denaro stesso. Cosa è la precarietà del valore? Esattamente la tensione riferita alla rendita sociale, su cui Christian Marazzi si è soffermato in conclusione del suo intervento. La precarietà del valore ci dà subito, immediatamente, al livello del denaro, l’immagine di un riconoscimento di una lotta per determinare ciò che è valore. Il riconoscimento comune di ciò che è valore comporta sempre la possibilità di un’appropriazione violenta (un’espropriazione), cioè il piegarsi alle esigenze della valorizzazione capitalistica. La solidità del denaro è solo tendenziale e riesce solo a determinarsi nel continuo alternarsi fra medietà sociale del lavoro necessario e sua sovradeterminazione forzosa. Il lavoro necessario non è semplicemente lavoro astratto che all’interno del processo produttivo viene imposto dal tipo di socializzazione capitalistica, dalla capacità di mettere in relazione i soggetti assoggettandoli, ma può essere riconosciuto come soggettività rivoluzionaria, come lavoro vivo che abbiamo imparato a non appiattire solamente all’interno delle mura della fabbrica a questo stadio del capitalismo. Dal lavoro vivo espresso come soggettività può partire una messa in discussione dei processi di valorizzazione capitalistici, anche del criterio di valore, quindi anche del denaro per riaffermare una diversa moneta.

Gli aspetti inaggirabili della moneta, nel suo uso proprio, quel suo partecipare alla costitutiva inappropriabilità e al desiderio persistente di farla propria che fa sì che la moneta e la legge siano considerate un tuttuno da Aristotele, andrebbero declinati secondo il metodo della tendenza antagonista. Ora il punto è che istituire una moneta comune che determina antagonismo, io credo che sia una contraddizione; ma non solo una contraddizione logica, proprio una contraddizione reale. Quindi stiamo procedendo bene: la contraddizione reale è porsi dinanzi al problema della moneta pretendendo di istituire una moneta comune che determini l’antagonismo. Proprio per questo, proprio perché la sfida delle soggettività, la sfida di una moltitudine è nell’istituzione di una moneta comune che determini un antagonismo, può aprire ad un processo istitutivo di una moneta che preservi l’antagonismo, quello che nell’epoca fordista era fossilizzato negli spazi di mediazione conquistati dalle lotte. Che tipo di spazi di mediazione possiamo aprire?

Su questo piano la moneta ha dei tratti comuni con il linguaggio, che nasce proprio dal desiderio di appropriarsi dell’interdetto e che comunque deve mantenere una libertà. Nel momento in cui il linguaggio viene fossilizzato ed imposto non è più un linguaggio, ma è un linguaggio di tipo orwelliano, rappresentato ottimamente nel film di Kubrick Arancia Meccanica. Il linguaggio del potere, la regola che blocca dinanzi alle possibilità creative.

A questo punto giunge la frattura: io non conosco delle pratiche rivoluzionarie, anche di fronte a questa crisi, che dal basso pretendano di costituire una moneta nel senso su indicato. L’immagine di una moneta che colga la sfida del metodo della tendenza antagonista è davvero difficile da rendere: una misura che mantenga in sé esplicitamente l’espressione di una dismisura che ogni volta va svelata, al di là delle pratiche sovrane presenti nel capitalismo. Vi è un suggerimento presente in Foucault, che rinvia a un saggio provocatorio di Klossowski, La moneta vivente, un testo su cui non ho però avuto modo di riflettere adeguatamente. Si tratta di un punto di vista che non funziona allo stesso modo della critica dell’economia politica, sebbene sia anch’esso critico della storia data. Credo che porre il problema di una moneta vivente voglia dire cercare di rappresentare – non certo nel senso politico­-istituzionale, ma quantomeno dal punto di vista estetico (della percezione sensoriale) – una moneta che rompa con l’uso capitalistico della moneta, che aspiri ad istituire una misura che serba in sé una dis-misura che ogni volta va svelata, e che non legittimi le pratiche sovrane dello sviluppo capitalistico.

Devo allora fermare il mio ragionamento al punto in cui sta il mio lavoro di economista. Presento dunque in questa sede un lavoro di ricerca al quale sto partecipando, e che è coordinato da Massimo Amato e Luca Fantacci, due studiosi dell’Università Bocconi per nulla bocconiani, i quali sono impegnati a Nantes nell’implementazione di una moneta che funzioni a partire dal principio del clearing. Si tratta di una moneta comune.

La domanda di partenza, la percezione del problema, è la stessa: cosa caratterizza il comando monetario? Il denaro, la moneta capitalistica, il comando monetario nel capitalismo cognitivo-finanziarizzato diremo noi, è improntato al principio della liquidità. Come scrive André Orléan, «il mondo della liquidità è un mondo artificiale, regolato dalle convenzioni. Esso istituisce una temporalità e delle forme di valutazione che rompono con i tempi produttivi e i vincoli della gestione delle imprese. […] Il capitale ha una natura contraddittoria. Esso è l’articolazione di due logiche specifiche, l’impresa e la speculazione. Per noi, la forma “mercato finanziario” non è allora una forma neutra. La liquidità esprime la volontà di autonomia e di dominio della finanza»[2]. Ecco ciò che è il principio della liquidità a questo stadio del capitalismo: un principio che ha guidato una struttura istituzionale in cui diviene centrale la compravendita dei debiti e dei crediti, dei privati e, poi, di conseguenza, degli Stati. Cosa accade se nel capitalismo diventa centrale il ruolo dei mercati finanziari, cioè se il risparmio collettivo è drenato dalle Borse? Accade che il finanziamento dell’economia si sposta dal settore bancario a quello borsistico. Ne deriva che, come ha ribadito Christian Marazzi nel suo intervento, la Banca Centrale si trova in qualche modo costretta ad assecondare la domanda di liquidità proveniente da posizioni debitorie via via crescenti. Il principio della liquidità amplia la gamma della creazione monetaria secondo le logiche dei mercati finanziari, logiche convenzionali in cui alle ondate di euforia seguono prolungati momenti di panico, nei quali – nel nome della liquidità – domina la tesaurizzazione. Oggi, anche grazie agli interventi paventati dal Governatore Centrale Mario Draghi, le convenzioni finanziarie si vanno riorganizzando mentre si consolida il divenire rendita – credo si possa dire così – degli stessi Stati nazionali. Infatti quando la possibilità di realizzare plusvalenze si fonda su una bolla del debito sovrano, si assiste alla completa etero-direzione della finanza pubblica nazionale. In questa dinamica la tecnocrazia è funzionale alle logiche finanziarie che scommettono su quei processi di riconoscimento della rendita sociale che partecipano della dismisura espressa dalle soggettività. La disgregazione dello Stato Sociale presente (ma soprattutto futuro) è la base su cui si fonda il rilancio della operatività dei mercati finanziari. Perché ho parlato di Stato Sociale futuro? L’operaismo ci ha insegnato che il welfare state, prima di degenerare nella lottizzazione legittimata dal sistema dei partiti e funzionale alla disgregazione delle rivendicazioni sociali più coscienti, è una struttura istituzionale che si afferma solo a partire dalle lotte di classe. In tal senso esso è anche il frutto di una capacità di immaginare un’altra società, di godere dunque di una rendita sociale. In questo processo costituente sta anche la necessità un’espansione monetaria necessaria a finanziare lo sviluppo sociale (parafrasando Schumpeter la moneta è qui il complemento di una particolare innovazione che non è prodotta dal sistema industriale, ma dalla società). Il rovesciamento di questa moneta in denaro, in comando monetario sulla composizione di classe (nella terminologia presente in Primo Maggio) è sempre possibile.

Contro il principio della liquidità si erge il principio del clearing, un principio chiaramente espresso da John Maynard Keynes a Bretton Woods nel 1944[3]. Christian Marazzi ha notato che la moneta del Comune non ha a che fare con la moneta comune. Tuttavia egli è approdato al termine del suo intervento ad una rilettura di Keynes in chiave rivoluzionaria, ad una nuova declinazione del keynesismo di cui abbiamo bisogno: un keynesismo che conduca ad investire nella cultura, nella socialità, nella sanità, nell’istruzione, cioè in un modello antropogenetico.

In ogni scritto di Keynes si può riscontrare un’innata pratica rivoluzionaria, una vera e propria potenza costituente, la stessa che si può riscontrare nelle sperimentazioni linguistiche di Virginia Woolf, negli atteggiamenti provocatori di Vanessa Bell, nelle picconate che Lytton Strachey riserva alla società vittoriana nelle sue biografie sugli Eminent Victorians… insomma Keynes è prima di tutto un Bloomsbury, e da omosessuale scandalizzerà lo stesso Bloomsbury group quando deciderà di sposarsi con una donna, la ballerina russa Lydia Lopokova.

La sua prima opera A Treatise on Probability è caratterizzata dall’idea che dinanzi all’incertezza ciò che conta non è tanto il calcolo delle probabilità in senso classico, ma il funzionamento degli effettivi processi cognitivi e di credenza associati all’uso dei concetti di causa e caso. La logica della probabilità è studiata da Keynes da un punto di vista pratico – direi del potere costituente della parola – è il punto di vista del discorso ordinario, non quello del linguaggio artificiale della logica formale. D’altro canto la stessa General Theory è una trappola teoretica tesa agli economisti ortodossi, i quali a partire da semplici identità contabili impossibili da rifiutare sul piano logico (X=C+I), si trovano ingarbugliati in categorie psicologiche per loro del tutto nuove, come la propensione marginale al consumo, o la trappola della liquidità, o la stessa efficienza marginale del capitale, che li costringono a riconoscere le funzioni sociali degli aggregati economici, l’intreccio fra capitalismo ed incertezza radicale, sino a giungere – senza di fatto nominarle – alle classi sociali tra loro in conflitto. Nella General Theory, in un certo modo, Keynes si fa beffa della scienza economica, riempendola di categorie politiche pronte a mandarla in tilt. Come ha scritto Toni Negri nel suo John M. Keynes e la teoria capitalistica dello stato nel ’29 (in AA.VV. Operai e Stato, Feltrinelli 1975, p. 86): «quando si dice domanda si dice classe operaia, si dice movimento di massa che ha trovato una identificazione politica, si dice possibilità di insurrezione e di sovversione del sistema».

Keynes indica la necessità di tenere a bada i bisogni relativi, cioè quei bisogni che esistono soltanto in quanto la loro soddisfazione ci fa sentire superiore ai nostri simili. Egli si adopera per costruire l’adeguata struttura istituzionale volta a perseguire l’eutanasia del potere oppressivo e cumulativo del capitalista di sfruttare il valore di scarsità del capitale, unico contesto in cui poter governare la socializzazione di una certa ampiezza degli investimenti, senza che lo Stato si assuma la proprietà degli strumenti di produzione. Non solo, giunge ad immaginare un sentiero di sviluppo in cui un’equa distribuzione dei redditi, un elevato tasso di accumulazione del capitale e un giusto controllo demografico possano condurre gli uomini a cambiare il proprio codice morale considerando spregevole l’amore per il denaro. Poco importa a mio modo di vedere che questa progettualità sia anche sorretta dalla paura che nel pieno della crisi economica il conflitto di classe possa condurre ad una crisi sociale e politica.

Per tutti questi motivi non escluderei a priori che il principio del clearing riscontrabile in Keynes sia la strada da seguire per istituire la moneta appropriata al modello antropogenetico richiamato da Christian Marazzi nel suo intervento (la moneta del Comune).

Il progetto di moneta locale così come è stato pensato per Nantes dall’equipe coordinata da Massimo Amato e Luca Fantacci si compone di un circuito creditizio e di un circuito monetario, integrati[4]. Una delle condizioni necessarie affinché questa struttura funzioni è che vi sia un tasso di interscambio locale fra le imprese che non sia trascurabile. La moneta che viene istituita è una moneta locale, con un tasso di cambio fisso 1:1 nei confronti dell’Euro che tuttavia non è convertibile in altre valute. Nel concreto è una moneta di conto che non svolge la funzione di riserva di valore.

Il circuito creditizio è concepito come una camera di compensazione per agevolare gli scambi fra le imprese. La camera di compensazione, o clearing union è una banca municipale (specificamente prevista nel sistema giuridico francese), una banca che offre semplicemente il servizio di coordinare le imprese nelle loro compravendite. Presso la clearing union ciascuna impresa ha un conto corrente, denominato in moneta locale, che può essere utilizzato per pagare e ricevere pagamenti da altre imprese partecipanti. Ciascuna impresa è creditrice o debitrice nei confronti di tutte le altre attraverso la camera di compensazione. Detto in altri termini si viene a costituire una struttura volta alla compensazione multilaterale dei pagamenti.

Per ogni singola impresa, il saldo può dunque essere, di volta in volta, negativo o positivo. Tuttavia, l’obiettivo è che vi siano tendenzialmente conti in pareggio. Per assicurare il raggiungimento tendenziale di questo obiettivo, sono fissati massimali sugli squilibri ed è previsto che siano pagati oneri non solo sui saldi negativi ma anche, simmetricamente, sui saldi positivi; infatti crediti eccessivi creano sempre debiti eccessivi per qualcun altro (si tratta dello stesso meccanismo progettato da Keynes a Bretton Woods in un contesto macroeconomico in cui il problema era quello dei rapporti commerciali far Stati diversi.).

Alternativamente, le imprese hanno la possibilità di utilizzare i saldi positivi per remunerare i propri lavoratori, alimentando così il circuito monetario locale (vedi la Figura 1 sotto).

A questo livello del ragionamento si pone la possibilità di pensare ad un primo spazio politico di mediazione (e di rivendicazione), in cui possa realizzarsi fra lavoratori ed imprese una contrattazione di secondo livello in moneta locale: il salario diverrebbe nuovamente funzionale alla tenuta della domanda effettiva a livello locale, e conquisterebbe, in qualche modo, una sua indipendenza.

I lavoratori sono dotati di un borsellino elettronico che consente loro di utilizzare la moneta locale per effettuare acquisti presso le imprese partecipanti. Nella misura in cui un lavoratore non spenda tutta la sua moneta locale presso le imprese, una parte del saldo residuo è periodicamente trasferita a un’organizzazione non profit a sua scelta fra quelle che partecipano al circuito.

Emerge a questo livello del ragionamento un secondo spazio di mediazione politico – come ha suggerito Andrea Fumagalli in una discussione avvenuta a Bergamo ospitata dai compagni di BgReport. Infatti non è detto che alle associazioni non-profit del progetto originario non si possa sostituire una cassa municipale per i servizi sociali. Il precariato metropolitano potrebbe così rivendicare uno spazio di rappresentanza diretta[5]. Né è detto che debbano essere i lavoratori i soggetti su cui grava questo incentivo al de-cumulo, cioè l’esigenza di spendere la moneta: potrebbero essere direttamente le imprese a versare moneta alla cassa municipale per i servizi sociali.

In questo modo, la moneta locale entra nel secondo sottocircuito, in cui le organizzazioni non-profit (nella versione originale) e la cassa municipale per i servizi sociali (nella variante proposta da Andrea Fumagalli), anch’esse dotate di un apposito borsellino elettronico, spendono presso le imprese le somme che hanno ricevuto.

E qui si apre un’altra possibilità istitutiva laddove dalla cassa municipale per i servizi sociali dipendano gli investimenti necessari a realizzare il modello antropogenetico prefigurato da Christian Marazzi nel suo intervento. Ciò comporterebbe una moneta dotata di una temporalità diversa, sebbene sempre sottratta alle forme del comando capitalistico.

Il sistema così congegnato fa sì che la moneta locale sia sempre disponibile in misura adeguata a sostenere le esigenze degli scambi locali; circoli più rapidamente della moneta ufficiale, dal momento che chi la detiene ha sempre un incentivo a spenderla; contribuisca ad attenuare la situazione paradossale, tipica delle crisi, in cui ci sono beni invenduti e capacità di lavoro non valorizzata in presenza di bisogni insoddisfatti.

Voglio concludere questa mia nota richiamando un passo elaborato durante il lavoro di inchiesta del gruppo sulla moneta della rivista Primo Maggio: «Se riteniamo che la forma-stato oggi palesemente dispiegata abbia la sua origine nell’ideologia della crisi e nel programma restrittivo da quella indotto, che questa ideologia abbia fornito il terreno costituente dei nuovi rapporti tra partiti, che essa sia la base storicamente determinata del compromesso storico, che sia la giustificazione del potere emarginante, riuscire a ribaltare tutto questo ed imporre quindi non un ritorno alla vecchia forma conflittuale dei rapporti tra partiti ma dei ‘vincoli dal basso’ al capitale, non è cosa da poco. A maggior ragione oggi che l’imperialismo più svagato, quello di Jimmy Carter, a differenza dei ragionieri ottusi del Fmi, ha capito che in Italia il sistema di valori e di comportamenti che si vuole oggi governare accoppiando pratica dell’austerità e ordine, è più forte di quanto si creda. E che allora tanto vale (questo è l’attuale indirizzo di Carter) sganciare quattrini, iniettare denaro-comando a più non posso tramite la grande banca privata internazionale. Cominciamo a farlo diventare ‘denaro come denaro’, a trasformare questo potere sul lavoro altrui in potere sui propri bisogni, sui propri spazi di organizzazione e di cultura, molla di sviluppo della nuova composizione di classe; cominciamo a strappare al ‘sistema dei partiti’ i poteri residui sulla riproduzione delle classi ed a determinarlo dal basso invece, in modo da garantire i sistemi di valori e i comportamenti che la nuova composizione di classe ha legittimato nelle lotte degli ultimi mesi»[6].


[1] Aristotele, Politica, Libro I, 1257b 8-17, traduzione di Massimo Amato in Massimo Amato, L’enigma della moneta, Et.Al., 2010, p. 245.

[2] Cfr. André Orléan, Le pouvoir de la finance, Odile Jacob, 1999, p. 12, citato nella introduzione mia e di Andrea Fumagalli ad André Orléan, Dall’euforia al panico. Pensare la crisi finanziaria e altri saggi, ombre corte, 2010, p. 12.

[3] Cfr. John Maynard Keynes, Eutopia. Proposte per una moneta internazionale, a cura di Luca Fantacci, Et.Al., 2011.

[4] Cfr. Massimo Amato e Luca Fantacci, Come salvare il mercato dal capitalismo, Dozelli, 2012, pp. 157-191.

[5] Cfr. ad esempio Andrea Fumagalli, Lavoro. Vecchio e nuovo sfruttamento, Punto Rosso 2006, pp. 174-178.

[6] Sergio Bologna , a cura di, La tribù delle talpe, Feltrinelli, 1978, p. 40. Sul gruppo sulla moneta di Primo Maggio si può leggere il mio saggio “Sentieri interrotti: il lavoro del gruppo sulla moneta di Primo Maggio”, in Cesare Bermani, La rivista Primo Maggio (1973-1989), Roma, DeriveApprodi, 2010, pp. 111-137.

La moneta (del) comune. Intervento di Christian Marazzi

Summer School: la moneta del comune

di CHRISTIAN MARAZZI

A me sta il compito di tentare di inquadrare la situazione così come si è venuta a determinare recentemente fino alle ultime decisioni prese dalla BCE. Quando si seguono le vicende monetarie e finanziarie si viene travolti dal divenire della situazione e molto spesso non si riesce a riflettere oltre queste stesse questioni finanziarie. La colonizzazione finanziaria della mente è qualcosa di reale, ma credo che almeno su tre cose sia importante soffermarsi:

la prima questione è come si è arrivati a queste ultime misure prese dalla BCE in questi giorni e con gli effetti euforici che hanno provocato sui mercati;

la seconda ha a che fare con il rompicapo della moneta unica. Come ci posizioniamo noi di fronte al dilemma relativo alla sopravvivenza dell’Unione Monetaria Europea?;

il terzo punto credo che sia un inizio di riflessione su questa categoria che abbiamo buttato lì, ma che mi sembra potenzialmente interessante per lo meno sotto un profilo politico, la moneta del Comune.

Come si è arrivati a queste misure in sede BCE, prese quasi all’unanimità ma con l’opposizione della Bundesbank, di intervenire in modo illimitato sul mercato secondario dei titoli pubblici al massimo a tre anni, con una serie di misure collaterali. Questa decisione era già circolata tra la fine del mese di Luglio e il 2 di Agosto, al vertice di Bruxelles. Per arrivare a questo compromesso all’interno del Board della BCE, era stato necessario, per lo meno per Draghi, cedere sulla questione delle condizionalità aggiuntive da accompagnare a qualsiasi forma di aiuto ai Paesi che ne hanno bisogno, l’Italia e la Spagna. Io credo che questa concessione, necessaria per ottenere il consenso della maggioranza nel Board della BCE, sia una concessione alla Bundesbank, agli ortodossi più incalliti, e che sia importante. Credo che sia questa la cosa più importante in realtà da sottolineare. La maggiore flessibilità della politica monetaria della BCE è altrettanto importante, ma bisogna considerare che questi interventi nel mercato delle obbligazioni pubbliche e dei titoli sovrani non sono stati presi per la prima volta. Sono misure attuate già l’anno scorso, sia nei confronti dell’Italia che della Spagna. Sono state poi riprese, con l’iniezione di 1000 miliardi, fra Dicembre ed inizio Febbraio, da parte della BCE. I precedenti ci dimostrano anche che queste misure sono durate quanto sono durate. Non sono state risolutive, insomma, dei problemi strutturali che affliggono l’Eurozona. Ci siamo confrontati da due anni a questa parti con una specie di finanziarizzazione emergenziale: credo che tutti condividano la conoscenza dei problemi fondamentali dell’architettura dell’Euro, però allo stesso tempo vediamo che si continua a procedere con misure di emergenza, tentativi di guadagnare tempo; ma non sappiamo bene per cosa si stia guadagnando tempo. Qual è l’orizzonte temporale di questo processo? Siamo in presenza di misure emergenziali e del diffondersi di una netta sensazione che i problemi fondamentali dell’Eurozona non siano per niente risolti. Perché questo movimento sincopato sul piano delle politiche monetarie? Quest’ultima misura viene a coronamento di una fase in cui di nuovo l’Euro ha rischiato un collasso. Abbiamo assistito a un frazionamento dello spazio finanziario europeo. C’è stato un vero e proprio ripiegamento di tipo sovranista-bancario; è diminuito moltissimo il cross border lending, cioè il prestito tra le banche di Paesi diversi sul mercato all’ingrosso, con cui le banche si finanziano correntemente; si è assistito in questi mesi a una fuga di capitali dalla Spagna e dall’Italia molto importante. Gli operatori finanziari hanno lavorato su un’ipotesi di spaccatura dell’Euro. A partire da questa ipotesi hanno posto un premio al rischio che è molto elevato e si sono attivati per uscire dai Paesi periferici per mettersi al riparo da questa eventualità. Sappiamo che questa fuga di capitali, per un meccanismo che sta all’interno della zona Euro e che si chiama Target 2, ha comportato un aumento impressionante della posizione debitoria della BCE sulla banca maggiormente creditrice, la Bundesbank, si parla di 727 miliardi (c’è anche chi dice che questo non dovrebbe causare problemi nel caso in cui dovesse collassare l’Euro); è difficile immaginare una situazione in cui i cittadini dei Paesi indebitati non si trovino a subire le pressioni dei creditori, laddove veramente si dovesse uscire dall’Euro. Quello che voglio dire è che la BCE in questi mesi ha dimostrato di non avere più il controllo sui tassi di interesse, tanto è vero che abbiamo una divergenza fra i tassi di interesse nei vari Paesi  (quando il progetto dell’Euro doveva consistere in una convergenza dei tassi di interesse dei Paesi membri). Questo significa che la BCE non può far fronte al proprio mandato, alla stabilità del sistema, anche se esso è inteso nel senso ortodosso del controllo dell’inflazione. Da questo punto di vista la situazione è grave tanto quanto lo era l’anno scorso. Oltre all’incremento del costo del denaro per le imprese e i cittadini, vi è la consapevolezza della crescita di un movimento politico di rifiuto dell’Euro all’interno dei vari Paesi. A questo proposito io credo che un movimento anti-Euro sia molto più forte e pericoloso in Germania, cioè nei Paesi forti, non nei Paesi deboli. Nei Paesi deboli non mi pare ci sia un’avversione popolare all’Euro, se mai c’è un’avversione alle politiche di austerità indotte dal funzionamento dell’Euro. In questa situazione una mossa da parte della BCE ci voleva. Draghi è dunque stato da una parte abile, dall’altra parte a me sembra che queste misure (che vedremo quanto dureranno e che sono senza dubbio impressionanti – pensate che la Banca Svizzera sta facendo ormai da un anno interventi illimitati sul mercato dei cambi per evitare la rivalutazione del franco, interventi che al momento non si sono tradotti in inflazione immobiliare come molti di noi temevano) non reggeranno, per una ragione semplice: non sta funzionando in Inghilterra, dove questa politica di intervento da parte della Banca Centrale è in corso da tempo, non mi sembra che abbia funzionato in modo splendido neanche negli Stati Uniti dove questa politica è ricorrente. Bisogna tener conto che i benefici di questa misura sicuramente sono tutti per le grandi banche tedesche e francesi; infatti l’aumento del valore dei titoli pubblici dei Paesi periferici permette alle banche tedesche e francesi che hanno in bilancio ancora parecchi di questi titoli di rivalutarli. Abbiamo a che fare con una partita all’interno del mondo finanziario e bancario. L’aggiungersi di misure di condizionalità oltre a quelle già introdotte con il fiscal compact in questi ultimi mesi non è uno scherzo. Nessuno sa bene quali saranno queste condizionalità, credo che varieranno da Paese a Paese e che ci sarà una sorta di fine tuning, di regolazione flessibile a seconda di quante riforme, o meglio controriforme, sono state realizzate qui e là, ma, da questo punto di vista, ancora non si sa cosa potrà succedere. Vi è poi la questione della sovranità: vedremo come si pronuncerà la Corte Costituzionale tedesca di Karlsruhe il 12 Settembre, sembrerebbe già abbastanza incredibile che dovesse considerare incostituzionale la creazione di questo secondo “Fondo salva Stati”, il Financial Times scrive che uscirà un sì al Fondo ma con queste condizioni aggiuntive[1]. Certo che per un Governo tecnocratico che assume il vincolo dei mercati e che si trova a dipendere da altre condizionalità sembra incredibile: da questo punto di vista la questione della sovranità nazionale sembra non esistere. Esiste se mai un ritorno alla sovranità bancaria, ma questo tende alla frammentazione. Questo pone un problema serio: da una parte un vuoto di sovranità nazionale politico, di margini di manovra per decidere della politica monetaria, della politica economica sul piano nazionale, e dall’altra frazionamento e nazionalizzazione delle politiche bancarie, quindi ulteriore divergenza.

Io mi sono espresso più volte sull’ipotesi della rottura dell’Euro. Quando si critica l’Euro sembra che si critichi l’Europa. Ma andiamoci piano! Qui non si vuole criticare l’Europa come nostro orizzonte, come nostro spazio identitario, come nostro spazio di lotta, si critica l’Euro come “gabbia d’acciaio”, come “camicia di forza”, che, come ho appena finito di dire, non ha spazi di socializzazione né di generalizzazione della lotta di classe. D’altra parte la caduta dell’Euro sembra andare di pari passo al ritorno di una politica sovranista, al ritorno delle monete nazionali, al ritorno del Sistema Monetario Europeo, che avevamo visto tra 1979 e il 1992, monete nazionali collegate l’una all’altra con tassi fissi, aggiustabili annualmente, per dare più ossigeno alle politiche nazionali. Da una parte questo Euro, che a me non piace, dall’altra una spaccatura dell’Euro nel nome di un ritorno alle sovranità nazionali. Qui non si può dire delle due l’una. Siamo di fronte ad un problema sul quale dobbiamo esprimerci. Nei prossimi mesi sono convinto che partirà una grossa mobilitazione, e che sarà incasinata e confusa e difficile anche da definire politicamente secondo gli schemi attuali, contro le politiche introdotte dall’Euro. Come ci staremo dentro?  Da una parte credo che dovremo essere molto determinati nella critica di questo Euro, una moneta attuata e pensata secondo la teoria neoliberale, monetarista, dall’inizio alla fine, da Robert Mundell in poi, la teoria delle zone monetari ottimali, la quale è basta su delle ipotesi di cui una è particolarmente saliente: che vi sia mobilità perfetta del fattore lavoro. Questo è a mio modo di vedere il progetto dell’Euro, cioè creare un grande bacino di forza-lavoro migrante. La condizione migrante ha a che fare con quella che secondo me è una delle ragioni del mantenere in vita questo Euro. L’Euro sta determinando un effetto di dumping salariale, di fuga non solo di capitali, ma anche di persone, dai Paesi più malmessi. Questa nostra critica all’Euro è anche un’occasione di porre la questione dell’alternativa fra sovranità sovranazionale e sovranità nazionale. Viviamo in una sovranità caratterizzata dalla crisi della rappresentanza, una sovranità tecnocratica, che non ha nulla a che fare con la diversità degli interessi radicati nel mondo, nella vita, nel lavoro e nel non-lavoro. Questo significa affrontare la questione della linea di fuga (non mi piace l’espressione terza via) da questo dilemma, da questo rompicapo “Euro-non Euro”, ponendo la questione della moneta del Comune.  Voglio porre una differenza fra “moneta comune” e “moneta del Comune”. La prima (la moneta comune) ha a che fare con il piano proposto da Keynes a Bretton Woods. L’idea è quella di istaurare una moneta di conto, un Bancor sovranazionale che funga da veicolo di potere d’acquisto fra i Paesi che si scambiano beni e servizi. Non è di per sé una cosa nuova, diciamo che è meglio dell’attuale situazione, sempre che ci si muova nella direzione keynesiana. Per arrivare a questo bisognerebbe spaccare l’Euro e ritornare alle monete nazionali.

Io credo che parlare in termini di moneta del Comune sia più corretto per quanto ci riguarda perché pone la questione in termini radicalmente diversi. Cosa è la moneta del Comune? È quella moneta che dà espressione e riconosce ciò che è comune nella moltitudine, diciamo così, in uno spazio politico, sociale, demografico quale è oggi l’Europa. Quindi io non so. Ho sentito mesi fa Michael Hardt presentare il libro che ha scritto con Toni sulle diverse forme della soggettività (Comune. Oltre il privato e il pubblico, Rizzoli 2010). Costruire oggi un progetto, come dire, di insubordinazione, di mobilitazione, che riguardi l’uomo indebitato, l’uomo securizzato, o l’uomo mediatizzato, l’uomo rappresentato, credo abbia a che fare con la costruzione della “moneta del Comune”, credo sia un buon punto di partenza. Ragionare sulla “moneta del Comune” potrebbe significare partire da qui, partire da una definizione soggettiva di cosa è il Comune, di cosa è il Comune oggi. Cosa è che ci accomuna?

C’è il fatto che stiamo subendo dei processi di espropriazione, di privatizzazione di beni che sono essenziali (le public utilities sono indubbiamente uno degli obiettivi dei processi di privatizzazione perché grantiscono delle entrate continue a chi ne acquista il controllo, la possibilità di sfruttarle). Partiamo allora da qui.

Occorre però anche definire la “moneta del Comune” come processo. Niente di nuovo, ma ribadiamolo solo per non illuderci sul possibile esito di questo processo. Certo a me non dispiacerebbe immaginare un Euro con l’effige Common. La moltitudine ha bisogno di avere una sua espressione monetaria e non solo in negativo. In questo processo bisognerà confrontarsi, prendere delle scelte in termini di alleanze. Uno dei motivi per i quali in questi anni c’è stata una divergenza dal punto di vista dei debiti pubblici è stato un certo tipo di interpretazione del keynesismo. Una delle cose di cui si è parlato più lungamente è questa: i Paesi che oggi sono più compromessi dal punto di vista dell’indebitamento pubblico sono i Paesi che hanno più investito in infrastrutture legate ai trasporti, alle strade e alle ferrovie (per esempio la Grecia). Questa è una cattiva interpretazione di quello che è il keynesismo di cui noi oggi abbiamo bisogno. Noi abbiamo bisogno di investimenti, ma gli investimenti nelle così dette grandi opere sono un disastro, opere in cui il lavoro vivo, il lavoro salariato, rappresenta il 25% dei costi totali, e si concentra solo nella fase finale del processo (mediamente 10 anni). Infatti si tratta di opere ad alta intensità di capitale. Non è questo il tipo di keynesismo di cui noi oggi abbiamo bisogno. Abbiamo invece bisogno di investimenti nell’immateriale. C’è tutto un territorio nel quale investire, non nell’hardware o nel software, ma nel cognitivo, nella nostra possibilità di essere cognitivamente autonomi. Credo anche che questo tipo di keynesismo rientri perfettamente in quel modello economico antropogenetico di cui io sono sempre più convinto. Io credo che l’occidente possa tenere rispetto ai Paesi emergenti solo se investe nella cultura, nella socialità, nella formazione e nella sanità. Questi sono i quattro settori su cui indirizzare gli investimenti. Non mi sembra che si stia andando in questa direzione. Il liberismo montiano mi sembra proprio che vada nella direzione di un rilancio delle così dette grandi opere come la TAV.

Non è facile portare avanti il discorso sul capitalismo contemporaneo come capitalismo cognitivo, non tanto dinanzi alle critiche, ma proprio dal punto di vista dei soggetti: il confronto con i soggetti protagonisti della Primavera araba, oppure dei riot inglesi non conduce a facili declinazioni della categoria del “lavoratore cognitivo”. Come fare a riconoscere la produttività di questi soggetti in un’economia che ha generalizzato la conoscenza? Credo che dobbiamo comunque tenerci su questo terreno, non perché dobbiamo scegliere un soggetto (non è mai stato così anche quando si parlava di operaio massa). Più che il lavoratore cognitivo la figura più rappresentativa della nostra società mi pare essere il precario flessibile, comunque la centralità del cognitivo rispetto alle rivendicazioni dei prossimi mesi n on è da mettere in discussione.

Si parla di project bonds (meno in questi ultimi mesi), di obbligazioni emesse per poter finanziare le grandi opere. A me sembra interessante contrapporre a questi project bonds delle cose simili ma che si pongano il problema di uno sviluppo locale sostenibile. La questione ambientale è all’ordine del giorno. In questo discorso va anche compreso il tema della rendita sociale. Perché parlare di rendita sociale invece che di reddito di cittadinanza? Non tanto per cambiare cosmesi: il capitalismo finanziario è un capitalismo che produce una rendita, ma una rendita che rinvia ad una produttività dei legami sociali e della cooperazione; è un’affermazione monetaria di quello che noi consideriamo essere il nostro contributo all’economia, alla vita… un contributo che è fatto di lavoro e di sofferenza che non è riconosciuto, come non è riconosciuto il lavoro riproduttivo delle donne. Da questa prospettiva non si può pensare che i lacci alla finanza rimettano le cose a posto. Pensare ad una de-finanziarizzazione del capitalismo contemporaneo è una contraddizione in termini: il nostro problema non è certo quello di eternizzare il capitalismo finanziario, ma di partire da questo livello di sviluppo e sviluppare delle lotte che siano a questa altezza e preferibilmente proiettate in avanti. Parlare di rendita sociale è un modo di tenere insieme i due corni del dilemma: il bio-valore da una parte e la sua forma monetaria.


[1] Il 12 Settembre 2012 la Corte Costituzionale tedesca ha approvato il fondo salva Stati. Tuttavia ha posto una serie di condizioni sull’operatività del fondo; in particolare stabilisce che i due rami del Parlamento tedesco siano informati delle decisioni dell’Esm e fa sapere che l’esposizione della Germania al fondo salva Stati non deve superare i 190 miliardi di euro senza il via libera del Bundestag, la Camera Bassa. La barriera da 190 miliardi di euro al contributo della Germania all’Esm, anche se non sembra sufficiente per un bailout di Spagna e Italia, non spaventa i mercati europei che dopo la sentenza della Corte tedesca si sono subito rafforzati. A Piazza Affari il Ftse Mib testa il massimo della mattinata a quota 16.416 punti e sale dell’1,17%. In rialzo anche il Cac40 (+0,79%), il Dax (+0,40%) e l’Ibex (+1,35%). Unica eccezione il Ftse 100 (-0,30%).

La città greca di Volos mette in pratica un sistema economico alternativo

di Antonio Cuesta (Gara/Rebelión), 21 Maggio 2012

Le epoche di crisi di solito fanno germinare soluzioni ingegnose dirette a superare le difficoltà. Nel caso della città greca di Volos (una piccola località di 100.000 abitanti) la creazione della cosiddetta Rete di Interscambio e Solidarietà, due anni fa, non è derivata tanto dalla grave situazione economica che attraversa il Paese, ma dalla necessità di articolare un’alternativa per far fornte all’attuale sistema capitalista.

L’idea di fondo è partita dalle molteplici esperienze di comunità di trueque [1], che scambiano prodotti e servizi senza utilizzare alcuna moneta. Nel caso di Volos l’idea è stata perfezionata con la creazione di un modello di interscambio, il TEM (Unità Alternativa Locale, in greco), e di un avanzato sistema informatico così semplice nel suo funzionamento quanto efficace nei risultati.

Quando qualcuno entra a far parte della Rete gli si assegna un numero di conto e gli si concedono 300 TEM (1 TEM equivale a 1 Euro solo come riferimento nel momento di stabilire il valore di vendita), facilitando così il suo inizio per comprare o vendere prodotti o servizi. Il maggior numero di scambi si realizza il sabato in un mercatino all’apparenza tradizionale ma nel quale è escluso l’uso del denaro. Un’ampia offerta che include frutta, verdura, vestiti, libri, artigianato… ma anche apparecchi elettrici e perfino materiale per l’idraulica. Inoltre il sito web dell’associazione offre una lista completa sia di professionisti (medici, professori, elettricisti…) che di attività del luogo che fanno parte anch’esse della Rete (ottici, officine meccaniche, panetterie, macellerie…), che permettono il pagamento in TEM per tutta la settimana nell’orario commerciale ordinario. La pagina comprende anche una sezione di annunci dove ogni membro offre o chiede quello di cui ha bisogno. Più di 1.000 persone compongono già questo sistema economico alternativo e il numero continua a crescere.

“Con l’aiuto iniziale –spiega a Gara Emilia, una ceramista di 47 anni- ho potuto comprare frutta e zucchero per fare marmellate che poi vendo il sabato. Ho cominciato tre settimane fa e ho già ottenuto 800 TEM”, anche se confessa di averne spesi 500 per il parrucchiere, alimentari e qualche piccolo elettrodomestico di cui aveva bisogno. Alexandra vende insieme a suo padre, Iraklis, uova fresche provenienti dalle galline che tengono nel pollaio, “al principio ci costavano di più perché il loro cibo lo pagavamo in euro, ma ora abbiamo trovato un fornitore di mangimi per animali che vende in TEM”, ci racconta. Per questa giovane di 25 anni l’iniziativa “è una filosofia per cambiare le cose senza denaro. Non sono contro l’euro, ne ho bisogno per pagare certe cose -chiarisce- ma per quanto possibile cerco di non usarlo. Preferisco il TEM perché è una cosa che tutti possono usare, l’euro ce l’ha solo chi lavora”. E assicura convinta che “con il TEM si può accedere a molte opzioni, in vari modi, decidi tu. Tutti hanno qualcosa da dare o da offrire”.

L’uso di internet ha facilitato in grande misura l’interscambio e soprattutto il controllo del debito. Khristos, un ingegnere appassionato di software libero e cofondatore del progetto, è il responsabile dello sviluppo di un sistema informatico che è stato progettato su misura grazie ai programmi a codice aperto. Il suo avanzato funzionamento gli ha valso il riconoscimento della Banca d’Inghilterra per la forma e la sicurezza con cui si effettuano i trasferimenti. Migliore e più veloce di qualsiasi banca su internet, i movimenti tra venditori e acquirenti sono registrati istantaneamente senza commissioni né ritardi, permettendo anche uno scoperto fino a 1.200 TEM nel conto di un utente.

Dato che il TEM non esiste fisicamente, la forma di pagamento si realizza in tre modi: usando un contrassegno (uguale agli assegni bancari) dotato di un marchio di sicurezza, mediante trasferimenti via internet e, fiore all’occhiello, con un semplice SMS. Inviando un messaggio con i numeri dell’ordinante e del beneficiario, oltre all’importo, il sistema manda immediatamente messaggi confermando il trasferimento e mostrando a ognuno di essi il saldo risultante nel loro conto dopo l’operazione effettuata.

Per quanto il volume degli scambi non sia ancora molto elevato, Khristos calcola che un sabato di mercato si possano raggiungere i 3.000 o 4.000 TEM, anche se questa cifra scende durante la settimana. I prodotti alimentari, la frutta e la verdura sono di gran lunga i più richiesti, insieme ai servizi professionali (idraulici, avvocati…). In ogni caso, “la cosa più importante è che la gente si conosca e che esista una reciproca fiducia, la Rete è importante ma il contatto diretto è fondamentale -ci spiega Khristos-. La nostra iniziativa non è stata motivata dalla crisi economica, ma dalla necessità di applicare i nostri valori e cambiare l’attuale sistema economico. Contro tutto questo è stata pensata la Rete, come forma alternativa di interscambio economico”.

Un’altra dei fondatori di questo progetto è Marita Hupis, fortemente influenzata dalle esperienze sviluppate in Argentina e Uruguay dieci anni fa. Marita espone i principi sui quali si basa la Rete di interscambio: uguaglianza, parità, trasparenza, solidarietà e partecipazione. “Tutti i membri sullo stesso piano decidono in assemblee periodiche le questioni relative al funzionamento della Rete. Le decisioni sono collettive, facendo leva sul carattere sociale dell’iniziativa, e sono orientate alla creazione della società che vogliamo”.

La crescita dell’organizzazione li ha portati a pensare la creazione di un “centro assistenza” nelle strutture cedute dall’Università della Tessaglia. “Il centro disporrà di ambulatori medici, naturopati, massaggiatori… tutto ciò di cui uno può aver bisogno nel campo della salute”, ci informa. E ci sarà anche un caffè dove lavoreranno diverse persone disoccupate. Dato che gli edifici erano abbandonati da tempo si è dovuto restaurarli e condizionarli, contando per questo sull’aiuto di tecnici e, anche di artisti locali che hanno collaborato alla ristrutturazione. Tutti i componenti dei gruppi di lavoro (segreteria, pubblicità, infrastrutture, pulizia…) riscuotono lo stesso importo: 6 TEM ogni ora di lavoro. “Questi gruppi sono aperti e vi partecipa tanta gente quanta è necessaria in un dato momento”, ci spiega Marita.

Il successo della Rete, che oltrepassa già le frontiere, sta incoraggiando altre città greche a seguire l’esempio. “È una buona opzione per cambiare le cose e in un certo senso è un cambiamento rivoluzionario”, aggiunge orgogliosa Alexandra.

Fonte: http://www.rebelion.org/noticia.php?id=149932

NOTA [1]: Sembra opportuno lasciare il termine originale spagnolo trueque (baratto) proprio perché nell’esperienza di Volos c’è un evidente riferimento al modello argentino, come spiega più avanti uno dei fondatori della rete

Traduzione Andrea Grillo, SenzaSoste.it

La moneta municipale: una strada contro la stretta creditizia

di Massimo Amato, Linkiesta – 16/05/2012

Le imprese soffrono sempre più di una difficoltà di accesso al credito. Ieri, anche su questo giornale si è dato risalto al problema con un’infografica che mostra l’allungamento nei tempi di pagamento fra le imprese. Una possibile risposta può essere data da sistemi di compensazione fra imprese. Molti ne stanno sorgendo spontaneamente. Gli autori di questo blog stanno lavorando alla costituzione di un simile sistema presso la municipalità di Nantes, in Francia. Riportiamo qui di seguito un articolo, apparso su Arcipelagomilano, che ne descrive lo scopo e il funzionamento.

Un’unità di conto, legata all’euro da un rapporto fisso di uno a uno ma utilizzata solo per gestire una camera di compensazione multilaterale fra le imprese di un territorio: può apparire astruso ma in realtà non vi è nulla di più sensato in una situazione di crisi del credito come quella in cui versano le imprese da un anno a questa parte.
Proviamo a spiegarci. Ogni impresa può avere dei clienti solo se ha la possibilità di rifornirsi presso i propri fornitori, e quindi ogni impresa è al contempo potenzialmente creditrice e debitrice, rispettivamente verso i propri clienti e verso i propri fornitori. Ma precisamente questo è il senso della crisi del credito attuale. Molte imprese non riescono a evadere gli ordini che pure avrebbero perché il sistema bancario lesina loro la liquidità necessaria per acquistare materie prime e semilavorati e per pagare i lavoratori. Ma la cosa non si ferma qui. L’illiquidità di un’impresa porta con sé la crisi delle altre, a valle e a monte. I fornitori non forniscono, i clienti non hanno da comprare.
Certo, le imprese potrebbero farsi credito fra loro. E il sistema è noto: si firmano cambiali per le forniture e si paga a incasso fatto. Solo che in questo caso il debito è bilaterale, e ogni creditore deve aspettare che il suo debitore lo paghi, posto che a sua volta il debitore riesca a incassare dai suoi creditori. Se le cose stanno così, si può cominciare ad apprezzare il vantaggio connesso alla multilateralità. Se ogni creditore potesse immediatamente spendere il proprio credito presso i propri fornitori, quel credito si rivelerebbe eminentemente liquido, anzi diventerebbe proprio moneta.
È questo il senso di una camera di compensazione: i crediti sorti con i propri partner diventano crediti nei confronti della camera di compensazione e dunque sono immediatamente spendibili presso tutti gli altri aderenti alla camera di compensazione. La quale crea dunque liquidità per le imprese partecipanti. Una liquidità che esse possono utilizzare per pagarsi fra loro senza ricorrere a prestiti bancari. E che di fatto distruggono ogni volta che spendono i loro crediti. Con l’effetto di non alimentare spirali inflazionistiche. Il progetto che la città di Nantes sta attuando va precisamente in questa direzione. Una banca pubblica, il Crédit Municipal, offrirà alle imprese un servizio di pagamento in compensazione in moneta locale per tutte le transazioni sul territorio. Ogni impresa parteciperà alla camera di compensazione in ragione del suo coinvolgimento nell’economia locale.
Non solo le imprese si pagheranno fra loro, ma potranno anche utilizzare la moneta locale per la contrattazione di secondo livello con i lavoratori. Una parte dei salari potrà, infatti, essere pagata in moneta locale, con l’effetto di sostenere la domanda locale di beni locali e dunque di sostenere la capacità del sistema territoriale nantese di sostenere i livelli occupazionali. La domanda locale comprenderà anche un certo numero di servizi pubblici che il Comune di Nantes accetterà di fornire in moneta locale. E infine, una parte degli attivi in moneta locale potrà finanziare il terzo settore nantese, attraverso una politica di incentivi alle donazioni.
Quello di Nantes non è un semplice espediente locale, o peggio localista, per fare fronte alla crisi del credito. È il primo tentativo di mettere a punto su scala adeguata un modello di credito e di circolazione monetaria locale che potrebbe essere replicato in Francia, ma anche in Italia. L’interesse da parte degli amministratori pubblici innovativi sta crescendo. E nel frattempo i circuiti di credito in compensazione autogestiti vanno aumentando, senza nemmeno attendere la sponsorizzazione pubblica. Ma è bene che spontaneità della società civile e senso di responsabilità della classe politica s’incontrino. Una nuova possibilità può essere colta.

Massimo Amato

 

E se all’euro affiancassimo le monete locali?

di Nicolò Cavalli, Linkiesta – 22/04/2012

Questa sera Report ha parlato del progetto di una valuta complementare all’euro in corso a Nantes  messo a punto da Massimo Amato e Luca Fantacci della Bocconi. Ripubblichiamo un’intervista a Fantacci dell’agosto dell’anno scorso dove spiega la proposta: occorre che l’euro «sia affiancato, non sostituito, dalle monete nazionali». Così «le economie locali potrebbero tornare ad avere una moneta adeguata e una reale autonomia politica». Secondo l’economista, «è l’unica via d’uscita plausibile». 

Luca Fantacci insegna Scenari economici internazionali e Storia, istituzioni e crisi del sistema finanziario globale all’Università Bocconi di Milano. Distinguished Visting Fellow presso il Christ’s College di Cambridge, il professor Fantacci ha recentemente curato una raccolta di saggi di Keynes, intitolata Eutopia – Proposte per una moneta internazionale e ha pubblicato, insieme a Massimo Amato, Fine della Finanza. Da dove viene la crisi e come si può pensare di uscirne. A lui abbiamo chiesto lumi sulla situazione finanziaria che sta destando la preoccupazione di risparmiatori, politici, investitori di tutto il mondo.

Professore, che cosa sta succedendo da qualche settimana nelle borse?
Niente, e proprio questo è il problema. Non c’è un solo fatto nuovo che giustifichi il terremoto finanziario delle scorse settimane: dalle difficoltà di Obama con il Congresso alle fragilità fiscali dell’Europa, tutto era già presente e noto. Perfino il downgrading degli Usa era già stato più volte preannunciato. Per non parlare dei debiti pubblici, che hanno potuto crescere per anni senza preoccupare nessuno. Davvero, non è successo niente di nuovo e sconvolgente.

Nulla di cui preoccuparsi, dunque?
Tutt’altro. È proprio questo terremoto in assenza di novità il dato allarmante, su cui è opportuno riflettere: se oggi, senza motivo, i mercati finanziari tremano, vuol dire che fino a ieri erano spavaldi, ugualmente senza motivo. Niente giustificava i guadagni di ieri, così come niente può spiegare le perdite di oggi o i recuperi di domani. I mercati finanziari dimostrano di avere sempre meno un criterio attendibile per distinguere fra quando va bene e quando va male, fra chi va bene e chi va male.

Una finanza che vive in un mondo che ha poco a che fare con la realtà?
Non mi riferisco a una semplice scollatura tra finanza ed economia reale. È perfettamente legittimo, e anzi necessario, che il valore di borsa di un’azienda possa discostarsi temporaneamente dall’andamento corrente dei suoi affari. Perché la borsa, per sua natura, guarda avanti: guarda ai profitti futuri, non a quelli attuali; esprime aspettative e può sbagliarsi. Ma, affinché questo gioco di scommesse abbia un senso, bisogna che almeno due condizioni siano rispettate. Primo, occorre che a un certo momento una linea sia tracciata e i conti siano fatti. Bisogna che finisca la gara, in modo che si veda chi ha scommesso sul cavallo vincente. Secondo, occorre che l’esito della corsa non sia condizionato dall’andamento delle scommesse. Ma questo è proprio ciò che non avviene in borsa, dove non si verifica né la prima né la seconda condizione.

Cosa intende dire?
È molto semplice: gli andamenti dei valori di borsa non riflettono più alcun tipo di “fondamentale”, non si basano più su alcun giudizio in merito alla solidità economica o politica dell’emittente. Nei momenti di massima volatilità, come in questi giorni, siamo tutti d’accordo a dire che “basta un nulla” per scuotere i mercati e che a tenere il campo sono le aspettative che si autorealizzano. Tanto è vero che si parla comunemente, anche sulla stampa finanziaria, di “speculazione” e si dà per scontato che è il mercato finanziario a dettare l’andamento dell’economia reale, perfino le sorti di interi paesi, e non viceversa. Ma c’è da chiedersi se, nei periodi cosiddetti normali, la maggiore calma non dipenda unicamente da una maggiore unanimità delle aspettative, da una maggiore tenuta delle convenzioni, da una maggiore stabilità emotiva. In finanza come in amore, rischiamo di essere in balia delle emozioni, attrattive o repulsive che siano: e quello che, fino a ieri, era visto come un investitore benefico, oggi è chiamato un avido speculatore, con la stessa volubile inconsistenza che fa apparire l’amante della sera prima come un’opportunista spregevole.

Il che non sembra molto rassicurante per le sorti del nostro Paese, finito anch’esso nel mirino degli “speculatori”.
Ecco, ciò che sta accadendo con i titoli del debito pubblico italiano è un buon esempio del carattere autoreferenziale dei mercati. I buoni del tesoro possono anche essere visti come un investimento nell’azienda-Italia. Ma, a dispetto di quest’orribile espressione, gli stati nazionali, a differenza delle aziende, non sono fatti per fare profitti e per remunerare i detentori dei titoli, non presentano un bilancio consuntivo, e non esiste alcun criterio certo sulla base del quale possano essere giudicati redditizi o anche semplicemente solvibili. Eppure, tutto ruota attorno a quel punto: la caduta del prezzo dei titoli di stato e il corrispettivo incremento del loro rendimento, e dunque l’ampliarsi del differenziale rispetto al rendimento degli omologhi tedeschi, i timori di un’ulteriore recessione, le preoccupazioni per la disintegrazione dell’euro, il crollo delle borse… tutto è stato scatenato dal timore di un possibile default dell’Italia.

Si tratta di un rischio concreto?
Questo è appunto il problema. Per poter rispondere, e magari assegnare un grado di probabilità all’evento, come si pretende di fare sul mercato, bisognerebbe poterne dare una definizione univoca. Ora, che cosa significhi essere “in default”, o “insolvente”, nel caso di un’impresa è chiaro: significa non essere in grado di pagare i propri debiti, ossia non avere attività sufficienti per far fronte alle proprie passività. Ma, sulla base di questa definizione, tutti gli stati sono insolventi! Nessuno stato è in grado di ripagare i propri debiti. D’altro canto, gli stati non sono nemmeno tenuti a ripagare i loro debiti. I debiti degli stati, da quando hanno preso la forma di titoli negoziabili sul mercato, ossia da poco più di trecent’anni, non sono più fatti per essere ripagati, bensì per essere continuamente rinnovati e per circolare indefinitamente. I titoli di stato sono emessi, sono acquistati e rivenduti ripetutamente sul mercato e, quando giungono a scadenza, sono rimborsati con i proventi dell’emissione di nuovi titoli.

In che senso, allora, si può parlare oggi di stati a rischio di insolvenza?
Il termine è utilizzato con un’accezione ben diversa, per riferirsi all’incapacità di uno stato di rifinanziarsi sul mercato a condizioni sostenibili. Si dovrebbe parlare, propriamente, non di “solvibilità”, ma di “sostenibilità” del debito. Ed è ben più problematico. Non soltanto perché il concetto è più vago, privo di una definizione univoca. Ma soprattutto perché il fenomeno che esso descrive è fortemente autoreferenziale. Infatti, quanto meno un debito pubblico appare sostenibile, tanto più costa allo stato indebitarsi; ma quanto più aumenta il costo del debito, tanto meno risulta sostenibile.

Un circolo vizioso che conduce gli stati sull’orlo del baratro.
Si tratta di un problema che è al tempo stesso politico ed economico. Quando uno stato, come l’Italia o la Grecia, accumula un tale debito nei confronti degli stranieri da dover rendere conto delle proprie decisioni ai creditori prima ancora che ai cittadini, allora si ha un problema politico: in che senso possiamo ancora parlare di una democrazia, quando a dettar legge non è il popolo né il parlamento né il governo, bensì una trojka internazionale Bce-Ue-Fmi, in rappresentanza degli interessi dei creditori? D’altro canto, quando la capacità di un debitore di ripagare i propri debiti dipende assai più dal grado di fiducia dei mercati che dalle proprie prestazioni, comunque le si voglia misurare, allora il problema è anche economico: in che senso si può ancora parlare di un investimento, quando il tasso di rendimento non ha alcun rapporto con alcuna misura, per quanto imprecisa, di produttività, ma dipende unicamente dal grado di sfiducia dei creditori? Sul piano politico, la concessione di crediti condizionati, subordinati all’adozione di determinate misure, come quelli che la Bce oggi concede all’Italia, non può essere letta che come l’instaurazione di un regime di sovranità limitata nel paese debitore. Sul piano economico, la concessione di crediti a tassi d’interesse del 16%, come quelli che oggi il mercato accorda alla Grecia, non ha altro nome che usura.

È la crisi dell’Europa?
Senza dubbio. Una crisi dovuta alla pretesa di costruire l’unione politica sull’unificazione monetaria. Ma il problema non consiste nel ritornello secondo cui “ha prevalso l’economia sulla politica”, piuttosto nel fatto che si è mancato di vedere il piano politico e il piano economico nella loro articolazione. L’unificazione economica e monetaria è già, in sé, un atto politico. Non c’è nessuna legge economica che ne detti la necessità, tanto meno la forma. Può essere realizzata in modi diversi: il mercato comune non implica necessariamente la moneta unica, la libera circolazione dei beni non comporta necessariamente il movimento indiscriminato dei capitali. Come mostra concretamente il precedente storico dell’Unione Europea dei Pagamenti che, negli anni ’50, ha assicurato ai paesi europei crescita, stabilità e integrazione economica, senza bisogno di una moneta unica. Viceversa, l’euro ha accordato un po’ di stabilità e un po’ di crescita, ma a costo di una crescente divergenza fra i paesi membri che oggi rischia di compromettere sia la crescita sia la stabilità.

E che cosa si dovrebbe fare?
Credo che sia opportuna una riforma radicale della governance dell’Unione Europea, come da più parti auspicato: una revisione del patto di stabilità, un emendamento dello statuto della Bce, e magari anche la ricostituzione dell’Unione Europea dei Pagamenti. Per gestire l’emergenza, ossia la crisi dei debiti pregressi, sono convinto che non ci sia altro da fare che consentire alla Bce di agire da prestatore di ultima istanza, acquistando titoli del debito pubblico dei paesi membri. E naturalmente, è bene che tali prestiti siano accompagnati da raccomandazioni ai governi che ne beneficiano, perché adottino politiche di rigore, in modo da arginare l’azzardo morale, ossia la tentazione del figliol prodigo di tornare a spendere, abusando della misericordia del padre. Ma sarebbe ben più efficace di qualunque raccomandazione se gli stati europei non potessero né dovessero continuare a contrarre nuovi debiti, emettendo titoli sui mercati internazionali.

Sembrerebbe un’utopia…
In verità, proprio questo sarebbe reso possibile se si mettesse in opera un’istituzione analoga all’Unione Europea dei Pagamenti, che fungesse da camera di compensazione multilaterale per i debiti e i crediti contratti tra paesi dell’eurozona. Questo avrebbe un duplice vantaggio. Primo, consentirebbe di distinguere il debito pubblico, che è un affare interno fra i cittadini e lo stato, e il debito estero, che è un rapporto fra paese creditore e paese debitore. Secondo, consentirebbe di apprezzare il fatto che il debito estero beneficia entrambi i paesi, poiché permette al debitore di acquistare ciò che altrimenti non potrebbe acquistare, ma permette anche al creditore di vendere ciò che altrimenti non potrebbe vendere. Se il sistema dei crediti fra paesi s’interrompe, ci rimettono entrambi. Non è un caso se la crisi del debito nell’Europa meridionale ha comportato anche un arresto della crescita in Germania, come registrano i dati di questi giorni. Se gli italiani non comprano, i tedeschi non vendono. Il mercato è aperto, ma nessuno ci va…

Quindi?
Quindi è bene che, a differenza di quanto oggi avviene, l’onere del debito non venga sopportato, economicamente e simbolicamente, soltanto dai paesi debitori. Mentre le nuove istituzioni create per gestire la crisi debitoria europea, come l’Efsf (European Financial Stability Facility) continuano a far gravare l’onere e l’onta degli squilibri sui paesi debitori, l’istituzione di una camera di compensazione europea consentirebbe di ripartire equamente l’onere dell’aggiustamento fra creditori e debitori.

Sta parlando di un’Europa senza euro?
No, la mia proposta non è affatto di abolire l’euro, ma anzi di difenderlo dai suoi stessi difetti, che oggi rischiano di portarlo alla dissoluzione. E, per far questo, occorre che sia affiancato, non sostituito, dalle monete nazionali, e magari anche da monete regionali e locali. Così l’euro potrebbe essere davvero soltanto un mezzo di scambio, per agevolare il commercio europeo. Ma, al tempo stesso, le economie locali potrebbero tornare ad avere una moneta adeguata e una reale autonomia politica, senza rinunciare all’apertura verso l’esterno. Altrimenti continueremo a sacrificare ogni comunità in nome della Comunità Europea, salvo poi sacrificare la Comunità Europea in nome del mercato globale.

Ma è una strada percorribile quella che propone?
Dal mio punto di vista, è l’unica via d’uscita plausibile da una situazione in cui gli stati hanno sempre meno margini di manovra e i mercati hanno sempre meno contatto con la realtà. A differenza di quattro anni fa, non possiamo più fare affidamento sull’intervento pubblico. Oggi l’alternativa a una riforma radicale non è l’intervento dello stato in economia, ma l’interferenza sempre più cogente e pervasiva del mercato finanziario nella vita politica. Infatti, stante l’attuale forma delle istituzioni economiche, l’unica politica concessa è quella che viene giudicata adeguata dal mercato finanziario, indipendentemente dal suo contenuto. E che cosa vuole il mercato? Niente di chiaro e definito. Vuole soltanto essere rassicurato. Le manovre dei nostri governi possono essere opportune e risolutive, oppure insensate e controproducenti, ma, in ogni caso, se il mercato le reputa adeguate, ricomincia ad acquistare i nostri titoli, i rendimenti scendono, e noi siamo salvi. Come l’autocrate totalitario descritto da Koestler, il mercato ha sempre ragione, purché non si metta mai in dubbio la sua parola, anche se dovesse dichiarare ad ogni istante una verità nuova.

Una banca che finanzia le pmi e non specula? Esiste

di Alessandro Montesi, Linkiesta – 12/04/2012

È una banca che finanzia un quarto delle pmi svizzere ma non cumula e non specula ed è fondata sulla circolazione sicura del credito. È la Wirbank, istituto cooperativo svizzero basato su una moneta complementare e alternativa e nato non casualmente nel 1934, in mezzo alla Grande Depressione. I wir sono una moneta gestita attraverso una camera di compensazione (uno spazio condiviso per banca e cliente) che assicura una fonte di finanziamento costante e sicura per le Pmi. Si crea così un credito sempre presente, come dimostrano i dati in un rapporto: si stima che nel 2010 la circolazione di wir era pari a 1,3 miliardi di franchi svizzeri, circa un miliardo di euro.

Si è detto e si continua a dire che la crisi dell’economia mondiale iniziata nel 2007 è una crisi di credito, tecnicamente credit crunch o crisi di liquidità. Una crisi di liquidità che ci priva non solo del credito, ma anche della moneta stessa nel momento in cui essa non è spesa ma accantonata. Ma il credito non implica necessariamente la cessione di denaro: è moneta nel momento in cui la si considera come una merce (quindi scambiabile in un mercato) e il tasso d’interesse che rappresenta il suo prezzo.

Secondo due docenti dell’Università Bocconi Massimo Amato e Luca Fantacci, autori del libro “Fine della finanza”, il credito non è moneta ma più semplicemente «un’anticipazione» in vista di una chiusura. La forma più semplice di anticipazione è il differimento del saldo del debito. Il credito non è una cosa (la moneta) ma una relazione. Il credito non necessita affatto di una accumulazione di moneta, scrivono Amato e Fantacci, «quanto piuttosto dell’istituzione di uno spazio condiviso (per creditore e debitore) di promessa e attesa».

In Svizzera c’è una banca che potrebbe rispondere alle criticità della crisi attuale. Wirbank è una banca cooperativa svizzera basata su una moneta complementare e alternativa, i wir e ha sette succursali a Basilea, Berna, Lucerna, Losanna, Lugano, San Gallo e Zurigo e una agenzia a Coira. Il wir è una moneta non fisica ma solo contabile e quindi totalmente indipendente dal mercato finanziario. Una moneta gestita attraverso una camera di compensazione (uno spazio condiviso per banca e cliente) che assicura una fonte di finanziamento costante e sicura per le piccole medie imprese. Wir che in tedesco significa «noi», ricorda ai soci-partecipanti della banca che il circuito economico è rappresentato dalla comunità stessa.

La storia della Wirbank inizia non casualmente nel 1934 ed è direttamente collegata alla Grande Depressione seguita al giovedì nero del 1929. Colpiti dalla prima grande crisi economica mondiale del credito, un gruppo di 16 imprenditori svizzeri, con in mente le teorie dello studioso Silvio Gesell, si unì per creare un nuovo circuito economico. Per ovviare alla mancanza di liquidità, decisero di utilizzare un sistema di compensazione di crediti e debiti non basato sulla moneta ufficiale, il franco svizzero, ma basato su una moneta complementare, il wir. Oggi, a quasi 80 anni dalla sua fondazione, la cooperativa movimenta circa 1,5 miliardi di wir l’anno (equivalenti ma non convertibili in franchi svizzeri) e finanzia un quarto delle pmi svizzere (circa 82mila imprese con al massimo 200 dipendenti, come risulta anche da una recente ricerca accademica).

Dall’euro al dollaro, la moneta è una riserva di valore e rappresenta per il suo detentore «la ricchezza», come si impara da bambini mettendo via i soldi nel salvadanaio. Questo concetto di risparmio monetario implica una sottrazione dalla moneta dal circuito economico. Ad esempio, la crisi subprime è stata caratterizzata proprio dall’assenza di liquidità: si preferiva risparmiare piuttosto che comprare i cosiddetti titoli tossici (subprime). J.M. Keynes nel suo “Trattato sulla riforma monetaria”(1930), identifica la moneta come un puro intermediario, diversamente da adesso, senza un vero significato, che scorre da una mano all’altra. Un intermediario che «è ricevuto e speso, e, quando il suo lavoro è compiuto, sparisce dalla somma delle ricchezze di una nazione.».

Come ovviare alla mancanza di liquidità che caratterizza i mercati? La Wirbank ha risposto a questo domanda usando una camera di compensazione e una valuta complementare a quelle reali, come il franco svizzero (o l’euro e il dollaro). In un sistema come quello della camera di compensazione, la liquidità non serve come non servono le riserve di moneta. Nei libri contabili della banca vengono registrati solo crediti e debiti nella moneta complementare, ripagabili attraverso l’incasso dei futuri investimenti. All’interno di questo sistema, non conta quanta moneta uno detenga, ma la posizione positiva o negativa nei confronti degli altri membri del circuito. Tutto tende naturalmente al pareggio dal momento che è la compensazione fra crediti e debiti ad assicurare l’incontro fra creditore e debitore. Nessun rischio di “cartolarizzazione” del titolo di credito-debito, dato che una delle caratteristiche del wir è quella di fare della moneta solo un’unità di conto e un mezzo di scambio. Per i correntisti di Wirbank risparmiare wir non ha senso poiché non esistono e non sono riconvertibili in franchi, mentre per un italiano risparmiare euro è il problema maggiore perché non sempre reperibili e il più delle volte trattenuti dalle banche.