Moneta del comune e reddito sociale garantito

di Laurent Baronian e Carlo Vercellone

Abstract. Lo scopo di quest’articolo è di gettare le basi per una concezione della moneta del comune a partire da un’interrogazione omessa dalla teoria economica dei beni comuni. Quali sono le condizioni capaci di attenuare il vincolo monetario al rapporto salariale e di favorire così lo sviluppo di forme di produzione alternative ai principi d’organizzazione sia del pubblico che del privato? Questa domanda richiede d’introdurre nella teoria del Comune il ruolo strutturante della moneta nei rapporti capitale-lavoro. Su questa base, l’articolo procede in quattro tappe. Nella prima partiremo da una critica dell’economia politica dei beni comuni dalla quale la moneta, come il lavoro, sono curiosamente assenti. La ragione di quest’assenza si trova nel fatto che questa concezione naturalista dei beni comuni accetta implicitamente uno dei postulati fondatori della teoria economica standard, ovvero la neutralità della moneta, concepita come un semplice strumento tecnico che facilita gli scambi, e non come la cristallizzazione di un rapporto sociale di potere. Si tratterà allora di caratterizzare un approccio dinamico del comune al singolare nel quale la questione della moneta e delle mutazioni della divisione del lavoro occupa un posto centrale. Questo approccio fondato sulla triade lavoro-moneta-plusvalore servirà allora egualmente da filo conduttore per rianimare la controversia che aveva opposto Marx ai proudhoniani, precursori di un approccio della moneta come comune. Nella terza tappa fonderemo il nostro ragionamento sulle teorie marxiane del circuito per mostrare che il carattere specificamente monetario del rapporto capitale-lavoro costituisce l’unico punto di partenza adeguato per una riflessione sulla moneta del comune. Questa riflessione farà infine emergere perché la nozione di reddito sociale garantito corrisponde ad un’istituzione del comune volta a rendere la creazione monetaria endogena non solo al capitale ma anche alla riproduzione autonoma della forza lavoro.

 

Parole chiave. Moneta, Comune, reddito sociale garantito, Marx, Proudhon, teoria del circuito, critica dell’economia politica dei beni comuni Continue reading

Abbondanza rossa

redplentyRed plenty platforms

di Nick Dyer-Witheford

Testo originale: Culture Machine, Vol. 14 (2013)

Traduzione: Dante Cruciani

Ho ritenuto di fare questo sforzo in quanto alcuni dei temi trattati in questo articolo sono piuttosto in sintonia con il nostro lavoro. Non tanto, ovviamente, la considerazione dell’URSS come stato socialista degenerato a causa dell’arretratezza tecnologica; quanto invece il concetto che è il capitalismo stesso, attraverso l’emergere di fenomeni come l’open source, il peer-to-peer, e attraverso la creazione di reti informatiche, super-calcolatori, sistemi di gestione della logistica molto complessi, a porre le basi per un nuovo modo di produzione. Ci sono riferimenti a romanzi, saggi, articoli di numerosi autori a me sconosciuti, che discutono di questi temi e che potrebbero fornire ulteriori spunti di riflessione. (Dante Cruciani)

Introduzione

Poco dopo il grande crollo di Wall Street del 2008, un romanzo su degli eventi storici oscuri e remoti ha fornito un inatteso spunto di discussione sulla  crisi in corso. Red Plenty” (“Abbondanza rossa”) di Francis Spufford (2010) ha offerto un resoconto romanzato del fallito tentativo da parte dei cibernetici sovietici degli anni ’60 di istituire un sistema completamente computerizzato di programmazione economica. Mescolando personaggi storici – Leonid Kantorovich, inventore delle equazioni della programmazione lineare; Sergei Alexeievich Lebedev, progettista pioniere dei computer sovietici; Nikita Krusciov, Primo Segretario del Partito Comunista – con altri immaginari e mostrandoli in azione tra i corridoi del Cremlino, le comuni rurali, le fabbriche e la città siberiana della scienza di Akademgorodok, “Red Plenty” riesce nell’improbabile missione di rendere un romanzo sulla pianificazione cibernetica una storia mozzafiato. Ma l’interesse che ha riscosso da parte di economisti, informatici e attivisti politici non è dovuto esclusivamente alla sua narrazione dello sforzo scientifico e degli intrighi politici, ma molto anche al momento in cui è stato pubblicato. Venendo alla luce in un periodo di austerità e disoccupazione, quando il mercato mondiale ancora stava vacillando sull’orlo del collasso, Red Plenty poteva essere interpretato in diversi modi:

a)      come un ammonimento che, evocando le sconfitte sovietiche, ci ricorda che il capitalismo rimane l’unico sistema possibile, anche se si è comportato male (“non c’è alternativa”);

b)      al contrario, come un ricordo di potenzialità non realizzate, non limitandosi a sussurrare lo slogan altromondista “un altro mondo è possibile”, ma ripetendo quello che David Harvey (2010) identifica come la più valida e sovversiva possibilità, di “un altro comunismo”.

Questo documento considera il romanzo di Spufford come un punto di partenza per poi imbarcarsi su un’analisi delle piattaforme di calcolo che sarebbero necessarie per una odierna “abbondanza rossa”. Non  è una discussione sui meriti e i demeriti dell’attivismo dei pirati informatici, della disobbedienza digitale, del tessuto sociale della lotta elettronica, dei tweet dalle strade e delle rivoluzioni su Facebook, ma sul comunismo digitale.

Questo è un argomento che è  già stato toccato sull’onda delle riflessioni sul mondo, dopo che il capitalismo aveva innnescato nel 1989 l’implosione dell’URSS, sfociate in proposte di “economia partecipativa” (Albert & Hahnel, 1991),  di un” nuovo socialismo” (Cockshott & Cottrell, 1993), di ”socialismo del  ventunesimo secolo” (Dieterich, 2006),  o  di “comune” (Hardt & Negri, 2009). A differenza di alcune di queste fonti, tuttavia, questo saggio non mira a fornire bozze di progetto dettagliate,  in concorrenza con le altre per un nuova società, ma piuttosto vuole dare ciò che Greig de Peuter in una  conversazione personale una volta ha chiamato “bozze rosse”, indicazioni approssimative sulle possibilità rivoluzionarie.

Nel discutere di calcolo e  comunismo è quasi impossibile sfuggire alle accuse di abbandonare le di lotte e di essere soggetti ad un determinismo meccanico. Certamente tutti i modelli automatici, teleologici ed evolutivi, incluse le  coreografiche schematizzazioni delle  forze e dei rapporti di produzione, devono essere respinti. Altrettanto importante, tuttavia, è evitare un determinismo umanista di segno opposto, che sopravvaluta l’autonomia e l’ontologico privilegio dell’uomo nei confronti della  macchina . Oggi, i modi di produzione e le lotte che li sconvolgono sono intesi come combinazioni di azioni di uomini e di macchine, assemblaggi intrecciati, ibridati e coo-determinati nel modo inteso da Deleuze e De Landian” (Thorburn, 2013).

Questo è il motivo per cui è entusiasmante la stima che mi ha inviato Benjamin Peters, storico della cibernetica sovietica, secondo il quale, rispetto alle macchine a disposizione dei pianificatori di Red Plenty, diciamo nel 1969, la capacità di calcolo dei computer più potenti nel 2019 rappresenterà all’incirca un incremento di 100 miliardi di volte delle operazioni eseguibili in un secondo; un fatto che, come Peters sottolinea, “non è per sè stesso significativo ma comunque suggestivo”. L’esposizione che segue esplora questa suggestione.  Questo articolo è quindi focalizzato sul filo diretto che lega i cibernetici sovietici ai continui tentativi di teorizzare una pianificazione economica basata sul calcolo del tempo di lavoro e i super-computer. Si discute poi delle preoccupazioni relative ad una  pianificazione autoritaria centralizzata  da parte dei social media e dei programmatori, prima di andare a considerare se la pianificazione è ridondante in un mondo di automi, di copie e repliche. A parziale risposta a quest’ultima domanda, “Red Plenty platforms” analizza il ruolo della cibernetica nella bio-crisi planetaria, per concludere con alcune osservazioni generali sulla cibernetica relative all’ “orizzonte comunista” oggi (Dean, 2012). Prima, tuttavia,  si riprendono alcuni dei problemi, sia pratici che teorici, in cui si erano cimentati i pianificatori sovietici raffigurati in Red Plenty.

Il capitalismo è un computer?

Alcuni filosofi digitali suggeriscono che l’universo possa essere una simulazione al computer programmata dagli alieni: senza abbracciare questa posizione, ci sono motivi per sposare una tesi meno estrema, vale a dire che il capitalismo è un computer. Questa è l’affermazione implicita in uno dei più gravi attacchi intellettuali messi in campo contro il pensiero comunista, “il problema del calcolo socialista”, formulato da economisti della “scuola austriaca” come Ludwig von Mises (1935) e Frederick Hayek (1945). Scrivendo nel periodo caratterizzato dal successo della rivoluzione russa, questi economisti attaccavano le premesse e la fattibilità del un’economia pianificata. Tutti i sistemi sociali, essi riconoscevano, hanno bisogno di una qualche forma di pianificazione delle risorse. Il mercato, tuttavia, crea un piano non coercitivo, esteso, spontaneo ed emergente  – ciò che Hayek (1976: 38) chiama “catallaxy”. I prezzi forniscono un segnale sinottico, astratto di esigenze e condizioni eterogenee e mutevoli, a cui l’investimento imprenditoriale risponde. Una economia pianificata, al contrario, deve essere dispotica e poco pratica, in quanto il calcolo di una distribuzione ottimale delle risorse limitate dipende da innumerevoli conoscenze locali sulle necessità di consumo e le condizioni  di produzione, che nessun metodo di contabilizzazione centrale potrebbe valutare.

Gli economisti austriaci hanno così offerto un aggiornamento della celebrazione del capitale di Adam Smith, della “mano invisibile” , ora re-immaginato come un sistema di informazione quasi-cibernetico:

è più che una metafora descrivere il sistema dei prezzi come un tipo di macchina per la registrazione dei cambiamenti, o un sistema di telecomunicazioni che consente ai singoli produttori di guardare semplicemente il movimento  di alcuni indicatori come un ingegnere potrebbe guardare le lancette di pochi sensori, al fine di adeguare le loro attività ai cambiamenti di cui non potranno mai sapere più di quanto si rifletta nel prezzo in movimento. (Hayek, 1945: 527)

Anche se ha fatto riferimento alle telecomunicazioni e all’ingegneria, Hayek, scrivendo nell’ultimo anno della Seconda Guerra Mondiale, potrebbe  aver giustamente evocato i giganteschi computer centrali del progetto  Manhattan, motivo per cui ha suggerito che il mercato abbia potuto agire come una macchina che fa calcoli automaticamente: un computer.

Questa è stata, tuttavia, un’arma a doppio taglio impiegata polemicamente contro il socialismo. Infatti, se il mercato si comporta come un computer, perché non sostituirlo con un computer? Se la pianificazione centrale soffriva di una problema di calcolo, perché non usare vere macchine di calcolo?  Questo era esattamente il punto sollevato da un avversario di Hayek, l’economista Oskar Lange, che, rivedendo  retrospettivamente il dibattito sul “calcolo socialista”, ha osservato: “Oggi il mio compito sarebbe molto più semplice. La mia risposta a Hayek … potrebbe essere: quindi qual è il problema? Mettiamo le equazioni simultaneamente su un computer elettronico e otterremo la soluzione in meno di un secondo “ (1967: 159). Tale era il progetto dei cibernetici presentati in Red Plenty, un progetto guidato dalla consapevolezza che l’apparente successo dell’industria sovietica, nonostante i suoi trionfi nel anni ‘40 e ’50, è andata lentamente ristagnando tra disorganizzazione e colli di bottiglia relativi alle informazioni. Il loro tentativo era basato su uno strumento concettuale, la tavola input-output, il cui sviluppo è associato a due matematici russi: l’emigrato Wassily Leontief, che ha lavorato negli Stati Uniti, e il sovietico Kantorovich, il protagonista principale di Red Plenty. Le tavole input-output, che sono state recentemente riscoperte, sono tra i fondamenti intellettuali dell’algoritmo PageRank di Google (Franceschet, 2010); esse tracciano la complessa interdipendenza di un economia moderna, dimostrando come le uscite da un settore (ad esempio, acciaio o cotone) forniscano gli ingressi per un altro (ad esempio, le auto o abbigliamento), così che si può stimare la variazione della domanda risultante da una variazione nella produzione di beni finali. Dal 1960 tali tabelle sono state un strumento accettato da  organizzazioni industriali di grande scala: il lavoro di Leontief giocò un ruolo importante nella logistica della  massiccia offensiva dei bombardamenti della US Air Force contro la Germania. Tuttavia, si è creduto che la complessità della intera economia nazionale abbia precluso la loro applicazione ad una tale scala.

Gli informatici sovietici hanno cercato di superare questo problema. Infatti già nel 1930, Kantorovich aveva migliorato le tavole input-output con il metodo matematico della programmazione lineare che stimava la combinazione delle tecniche di produzione migliori o “ottimizzanti” per soddisfare un determinato obiettivo. I cibernetici degli anni ’60  miravano ad attuare questa innovazione su vasta scala attraverso la realizzazione di un’infrastruttura informatica moderna per svolgere rapidamente i milioni di calcoli richiesti dal Gosplan, il Consiglio di Stato per la Pianificazione, che supervisionava i piani economici quinquennali. Dopo un decennio di sperimentazione, il loro tentativo è fallito, frustrato dal pietoso stato del settore informatico sovietico che, essendo circa due decenni dietro quello degli Stati Uniti, perse la rivoluzione del personal computer e non sviluppò un equivalente ad Internet. Era  quindi del tutto inadeguato al compito assegnato ad esso. Tutto questo, insieme all’ opposizione politica di una nomenklatura che  vedeva nel nuovo metodo di pianificazione scientifica una minaccia al proprio potere burocratico, costrinse all’abbandono del progetto (Castells, 2000; Gerovitch, 2008; Peters, 2012).

Questo non è stato l’unico progetto nel Novecento di “rivoluzionari cibernetici”; notevole è stato anche il tentativo da parte del regime cileno di Salvador Allende di introdurre una versione più decentrata di progettazione elettronica, “project Cybersyn” (Medina, 2005). Guidato dal cibernetico canadese Stafford Beer, esso fu concepito come un sistema di comunicazione e di controllo che consentisse al regime socialista di raccogliere dati economici, e di trasmetterlo ai decisori del governo, pur incorporando all’interno della sua tecnologia garanzie contro la micro-gestione statale e di incoraggiamento per discussioni poliedriche di pianificazione. Questo è stato un tentativo di ingegneria socio-tecnica del socialismo democratico che oggi forse sembra più attraente rispetto alle manovre post-staliniste dei progettisti di computer sovietici. Ma ha incontrato una sorte ancora più brutale: Progetto Cybersyn è stato chiuso col colpo di stato di Pinochet del 1973. Alla fine il fallimento dell’URSS di adattarsi ad un mondo di software e di reti ha contribuito alla sua disfatta economico/militare per mano degli Stati Uniti. La sua disintegrazione, dove, come Alec Nove (1983) ha dimostrato, i colli di bottiglia relativi alla circolazione delle informazioni e le falsificazioni dei dati hanno svolto un ruolo importante, ha sembrato dar ragione agli economisti austriaci.

L’elogio di Hayek della “catallaxy” del mercato è diventato così centrale per il “pensiero neoliberista collettivo” (Mirowski, 2009), che ha portato alla successiva marcia vittoriosa  del capitalismo globale.

La pressione combinata del disastro pratico dell’URSS e l’argomento teorico della scuola austriaca esercitò un’immensa forza all’interno di quello che è rimasto della sinistra, costringendola ad aspirare, al massimo, ad una economia di imprese di proprietà collettiva coordinate da segnali di prezzo. Le numerose varianti proposte di tale “socialismo di mercato” hanno stimolato le confutazioni da parte dei marxisti che si rifiutano di pensare ad un socialismo in cui permangano merci con valore di scambio. Forse, dato che conferiscono al mercato le funzioni di elaborazione delle informazioni automatiche attribuite dagli economisti austriaci e dai socialisti di mercato, tali varianti possono affrontare questioni di innovazione tecnologica o di disponibilità dei dati pubblici, ma non sembrano impegnarsi profondamente nello studio delle potenzialità del calcolo contemporaneo.

Oggi, dopo il crollo, chi sostiene che i mercati siano macchine informatiche infallibili può sembrare meno credibile di un quarto di secolo fa. Il furto parassitario di energia che sta alla base della trasmissione del segnale-prezzo (sfruttamento nel punto di produzione); l’incapacità delle singole borse merci di registrare azioni collettive (le cosiddette “esternalità”); e la ricorsività di un sistema crematistico che si avvita su sè stesso in speculazioni finanziarie, sono diventati temi salienti nel mezzo dell’implosione economica ed ecologica del capitalismo globale. Ma l’identificazione di tali difetti non fa venir meno l’obbligo per i comunisti di spiegare come un altro sistema di allocazione delle risorse – evitando la “servitù” della sottomissione statalista che Hayek (1944) ha predetto – potrebbe funzionare.

Algoritmi del lavoro

Nonostante la caduta del socialismo reale, l’idea della pianificazione economica computerizzata ha continuato ad essere sviluppato da piccoli gruppi di teorici, che hanno sviluppato la sua portata concettuale oltre qualsiasi cosa tentata dai cibernetici sovietici. Due scuole sono state di particolare importanza: il “nuovo socialismo” degli scienziati informatici scozzesi Paolo Cockshott e Alan Cottrell (1993), e la tedesca “Bremen School”, che comprende Peter Arno (2002) e Heinz Dieterich (2006), il secondo un sostenitore del socialismo del Ventunesimo secolo stile Venezuela. Queste tendenze sono recentemente confluite (Cockshott, Cottrell & Dieterich, 2010). Tuttavia, poiché poco del lavoro del gruppo di Brema  è tradotto, ci focalizzeremo qui sul “nuovo socialismo” di Cockshott e Cottrell.

Il segno distintivo del progetto “nuovo socialismo” è il suo classico rigore marxista. Di conseguenza, la sua pianificazione da ventunesimo secolo con super-computer segue alla lettera la logica della fine del XIX secolo illustrata nella “Critica del programma di Gotha” (Marx, 1970), che notoriamente suggerisce che al primo stadio “inferiore” di comunismo, prima che condizioni di abbondanza consentano di dare “a ciascuno secondo i suoi bisogni”, il compenso sarà determinato dalle ore di lavoro socialmente necessarie per produrre beni e servizi. Sul posto di lavoro capitalista, i lavoratori sono pagati per la riproduzione della capacità di lavoro, piuttosto che per il lavoro effettivamente estratto da loro; ed è ciò che permette al capitalista di appropriarsi del plusvalore.

L’abolizione dello stato di cose presente, sostengono Cockshott e Cottrell, richiede niente di meno che l’abolizione del denaro, cioè l’eliminazione del mezzo generale di scambio che, attraverso una serie di metamorfosi all’interno e all’esterno della forma di merce, crea il valore in auto-espansione che è il capitale. Nel loro “nuovo socialismo”, il lavoro sarebbe retribuito con buoni di lavoro; un’ora di lavoro potrebbe essere scambiata per merci che richiedono, facenda un media socialmente, un tempo equivalente a produrle. I certificati sarebbero estinti in questo scambio, non circolerebbero  e non potrebbero essere utilizzati per la speculazione. Siccome ai lavoratori sarebbe pagato il valore sociale completo del loro lavoro, non ci sarebbero i profitti dei proprietari, e non ci sarebbero capitalisti a dirigere l’allocazione delle risorse. I lavoratori sarebbero tuttavia tassati per costituire un serbatoio di tempo di lavoro disponibile per gli investimenti sociali realizzati da commissioni di pianificazione il cui mandato sarebbe fissato da decisioni democratiche su obiettivi sociali generali.

Il tempo del lavoro fornisce quindi l’oggettiva unità di valore per il “nuovo socialismo” (Cockshott & Cottrell 2003: 3). È a questo punto che gli autori tirano in ballo le capacità della tecnologia informatica. Tale sistema richiederebbe una enumerazione del tempo di lavoro speso, sia direttamente che indirettamente, nella creazione di beni e servizi, per valutare il numero di certificati contro cui questi beni e servizi possono essere scambiati, e per consentire la pianificazione della loro produzione. Riappare lo strumento di base della tavola input-output, con particolare attenzione al tempo di lavoro, sia come input necessario per la produzione di merci, sia come uscita che richiede essa stessa gli input per la formazione e l’insegnamento. Comunque, qui i “nuovi socialisti” devono affrontare un obiezione di fondo. Dalla caduta dell’URSS è stato convenzionalmente accettato che la mole di informazioni che i suoi cibernetici tentavano di elaborare era semplicemente troppo grande per essere trattata. Scrivendo negli anni 80’, Nove (1983) ha suggerito che un tale sforzo, che coinvolge la produzione di circa dodici milioni di oggetti discreti, richiederebbe una complessità di calcolo di ingresso-uscita impossibile anche per un computer. L’obiezione è stata ripetuta in recenti discussioni su Red Plenty, con i critici della pianificazione centrale che suggeriscono che, anche usando una “macchina desktop” contemporanea, risolvere le equazioni avrebbe preso “circa mille anni” (Shalizi, 2012).

La risposta di Cockshott e Cottrell tira in ballo nuovi strumenti, sia concettuali che tecnici. I progressi teorici sono tratti da rami di informatica che si occupano di abbreviare il numero di passi discreti necessari per completare un calcolo. Tale analisi, essi suggeriscono, mostra che le obiezioni dei loro avversari si basano su metodi “patologicamente inefficienti”(Cockshott, in Shalizi, 2012).

La struttura di input-output dell’economia è, fanno notare, “rada”, vale a dire solo una piccola frazione delle merci sono direttamente utilizzate per produrre qualsiasi altro bene. Non tutto è un ingresso per tutto il resto: lo yogurt non è utilizzato per produrre acciaio. La maggioranza delle equazioni invocate per sostenere un’insuperabile complessità sono quindi inutili. Un algoritmo può essere progettato per per semplificare il calcolo attraverso tavole input-output, ignorando le voci vuote, ripetendo iterativamente il processo fino ad arrivare ad un risultato di un ordine di accuratezza accettabile.

Il tempo sarebbe ulteriormente ridotto da un massiccio incremento della velocità di elaborazione dei computer dovuto alla legge di Moore. Pensare che una pianificazione economica di alto livello sia fatta su una “macchina desktop” è malafede. Il punto è la capacità dei supercomputer. Secondo una e-mail di Benjamin Peters, nel 1969, al tempo di “Red Plenty” il “cavallo di battaglia indiscusso” dell’informazione economica era il BESM-6 (“Bol’shaya electronicheskaya schetnaya Mashina”- letteralmente “grande macchina calcolatrice elettronica”), che poteva funzionare ad una velocità di di 800.000 flop o “operazioni a virgola mobile al secondo” – che è pari a 8 megaflops, o 106 flop. Entro il 2013, tuttavia, i supercomputer utilizzati nella modellazione climatica, per prove sui materiali e per calcoli astronomici hanno comunemente una velocità superiore a 10 quadrilioni flop o dieci “petaflop”. Il detentore della scettro di miglior computer al momento in cui scrivo è il Titan di Cray dell’Oak Ridge National Laboratory, che può raggiungere qualcosa come 17,6 petaflops (1015) (Wikipedia, 2013). Supercomputer con una capacità “dell’exaflop” (1018 flops) sono previsti in Cina entro il 2019 (Dorrier, 2012). Così, come Peters (2013) dice: “dando ai sovietici un po’ generosamente 107 flop nel 1969, siamo in grado di trovare (1018-107= 1011). . . un incremento 100.000.000.000 di volte maggiore fino ad oggi.”

Con queste capacità, l’ipotesi di Cockshott e Cottrell che i requisiti di sistema per la programmazione economica su larga scala potrebbero essere gestiti da impianti paragonabili da quelli ora utilizzati per scopi meteorologici, sembra quanto meno plausibile. Il “problema del calcolo”, tuttavia, comporta non solo l’elaborazione dei dati ma l’effettiva reperibilità di dati; l’obiezione di Hayek non era soltanto che i  pianificatori centrali non possono macinare dati economici abbastanza velocemente, ma che i numeri in un certo senso non esistono prima della fissazione dei prezzi, che forniscono una misura altrimenti assente di performance di produzione e di attività di consumo. Ancora una volta, Cockshott e Cottrell suggeriscono che la risposta sta nel computer utilizzato come mezzo di raccolta delle informazioni economiche. Scrivendo nei primi anni 90’, e basandosi sui livelli di infrastruttura di rete disponibile in Gran Bretagna in quel momento, essi suggeriscono un sistema di coordinamento di pochi personal computer in ogni unità di produzione, che utilizzando pacchetti di programmazione standard, elaborebbe dati di produzione locali e li invierebbe via “telex” ad un centro di pianificazione, che ogni 20 minuti, o giù di lì, avrebbe emesso via radio dei dati statistici corretti da inserire a livello locale.

Questo è uno scenario che ricorda troppo il tecno-futurismo sgangherato di Brazil, di Terry Gilliam. Per rendere   i ”nuovi socialisti”  aggiornati, dovremmo invece fare riferimento alla visione iconoclasta di Fredric Jameson a proposito di Wal-Mart, vista  come “la forma di un futuro utopico che si intravede attraverso la nebbia” (2009: 423). Il suo punto di vista è che, se uno per un momento ignora il grosso sfruttamento dei lavoratori e dei fornitori, Wal-Mart è un’entità il cui colossale potere di organizzazione modella dei processi pianificati necessari ad elevare gli standard globali di vita. E come Jameson riconosce, e altri autori documentano  in dettaglio (Lichtenstein, 2006), questo potere si basa su computer, reti e informazione. Entro la metà degli anni 2000 i data-center di Wal-Mart erano in grado di tracciare effettivamente 680 milioni di prodotti diversi a settimana e più di 20 milioni di operazioni di clienti ogni giorno, agevolati da un sistema informatico con una capacità seconda solo a quella del Pentagono. Scanner di codici a barre e punti vendita computerizzati identificano ogni articolo venduto, e memorizzano queste informazioni. Telecomunicazioni satellitari collegano direttamente i magazzini al sistema informatico centrale, e da quel sistema ai computer dei fornitori, per consentire automaticamente i nuovi ordini. La rapida adozione di Codici Universali di Prodotto da parte dell’azienda ha portato ad un “livello superiore” i requisiti per le etichette per l’identificazione con radio frequenza (RFID) di tutti i prodotti in modo da consentire il monitoraggio di merci, lavoratori e consumatori all’interno e al di là della sua catena di fornitura globale.

Wal-Mart è significativa perché si trova “sul fronte di uno spostamento sismico nell’immaginario aziendale”.  E’ uno spostamento che collega la nozione di una “rivoluzione logistica” con la produzione “just-in-time”  e “sfrutta le tecnologie digitali e cibernetiche emergenti per la gestione della produzione, della distribuzione e della vendita nel modo più rapido ed efficiente possibile” (Haiven & Stonemouth 2009: np). Questo cambiamento è stimolato dalla comparsa di un ”internet delle cose”, legato alle informazioni digitali fornite da oggetti materiali attraverso una rete di prodotti dotati di stumenti, che forniscono dati su utenti e posizioni. Resa possibile dalla diffusione di sofisticate reti wireless 4G, i servizi di archiviazione dati su richiesta attraverso la “nuvola” di aziende come Amazon, e, in particolare, dall’ultimo allargamento del protocollo internet IPV6 sulla rintracciabilità, che fornisce identificatori digitali unici per “un numero veramente gigantesco di 340.000.000.000 miliardi di miliardi di miliardi di oggetti”, la comunicazione da dispositivo  a dispositivo ormai probabilmente supera in volume i dati del traffico di Internet da persona a persona (Economist, 2012; np). Come Benjamin Bratton (2013) osserva, tale rintracciabilità, combinata con la codifica digitale compressa ad un livello sub-microscopico, apre una capacità virtualmente illimitata per l’identificazione non solo di cose e persone, ma anche dei loro componenti più elementari e delle loro relazioni.  Così l’andamento sia  delle velocità di elaborazione delle informazioni sia della capacità di raccolta dei dati pone le basi per il superamento del “problema di calcolo socialista”. Tuttavia, parlando di pianificazione in tale contesto complessivo si evocano inevitabilmente timori di un controllo di uno stato onnisciente. I “nuovi socialisti” provengono da una avanguardia marxista-leninista, con prospettiva autodichiaratamente  “giacobina” e centralista  (Cockshott, Cottrell, & Dieterich, 2011). Per trovare come una pianificazione cibernetica  potrebbe essere sviluppato in modo più trasparente  e partecipativa, abbiamo bisogno di guardare ad altre tradizioni comuniste.

Agenti comunisti

Storicamente, la tendenza anti-statalista nel marxismo è stata in gran parte dei casi rappresentata dalla variegata tradizione consiliarista, che, contro il potere del partito e dello Stato, ha insistito sul ruolo delle assemblee sui posti di lavoro come luoghi del processo decisionale, dell’organizzazione e del potere.

In un saggio antidiluviano per gli standard digitali, “Consigli operai ed economia di una società autogestita”, scritto nel 1957, ma ripubblicato nel 1972, subito dopo lo schiacciamento dei Soviet dei Consigli Operai dell’Ungheria, Cornelius Castoriadis ha sottolineato il frequente fallimento di questa tradizione nell’ affrontare i problemi economici di un “società totalmente autogestita”. La questione, ha scritto, doveva essere inquadrata fermamente nell’era del computer, dell’esplosione della conoscenza, del wireless e della televisione, delle matrici input-output , “abbandonando le utopie socialiste o anarchiche degli anni precedenti” perché “le infrastrutture tecnologiche … sono così incommensurabilmente diverse da rendere i i paragoni piuttosto privi di senso” (Castoriadis, 1972: np).

Come i progettisti di Red Plenty, Castoriadis immagina un piano economico determinato da tavole input-output e con equazioni di ottimizzazione che disciplinano la ripartizione globale delle risorse (ad esempio, l’equilibrio tra investimento e di consumo), ma con implementazione nelle mani di consigli locali. Il punto cruciale dal suo punto di vista è che, però, ci dovrebbero essere diversi piani disponibili in modo da consentire una scelta collettiva. Questa sarebbe la missione del “piano di fabbrica”, “un’impresa specifica altamente meccanizzata e automatizzata”, usando un computer la cui memoria “registrerebbe  i coefficienti tecnici e l’iniziale capacità produttiva di ciascun settore” (Castoriadis, 1972: np). Questa officina centrale sarebbe aiutata da altre che studiano le implicazioni regionali di piani specifici, innovazioni tecnologiche, e miglioramenti algoritmici. Il “piano di fabbrica” non determinerebbe quali obiettivi sociali da adottare; semplicemente genererebbe opzioni, valuterebbe le conseguenze, e, dopo che un piano è stato democraticamente scelto, lo aggiornerebbe e lo rivedrebbe, se necessario. Castoriadis sarebbero d’accordo con Raymond Williams (1983), sull’osservazione che non ci sarebbe niente di intrinsecamente autoritario nella pianificazione, a patto che ci sia sempre più di un piano.

Questo primitivo concetto di autogestione cibernetica è un precursore di una più recente visione del post-capitalismo. “Economia Partecipativa” o “Parecon” di Michael Albert e Robin Hahnel. Anche questo viene fuori da una tradizione consiliarista, sebbene da una linea di pensiero anarchica, piuttosto che marxista. Il loro lavoro è famoso per il modello di “progettazione partecipata decentrata” (Albert, 2003: 122), alternativo sia ai meccanismi di mercato che alla pianificazione centrale.

I consigli sono, ancora una volta, le unità sociali di base per la decisione democratica, ma in “Parecon” questi includono non solo il lavoratore, ma anche i consigli di consumatori. L’allocazione delle risorse è determinata dalle offerte di tali organizzazioni per i diversi livelli di produzione e di consumo, che nel corso di una serie di cicli di negoziazione sono progressivamente ottimizzati attraverso delle Commissioni di Facilitazione dell’Iterazione. Nelle fasi successive del processo di pianificazione, i consigli dei lavoratori e dei consumatori sono incoraggiati dalle CFI a rivedere le loro proposte secondo le conoscenze degli input reciproci, fino a quando si è prodotta una sufficiente convergenza da rendere possible il mettere alcuni piani al voto.

La “Parecon” è stata oggetto di notevoli controversie. Una delle obiezioni più frequenti è quella esemplificata da Oscar Wilde  quando ha osservato che  “il socialismo è una buona idea, ma richiede troppe serate”-  vale a dire che sembra richiedere riunioni senza fine. Hahnel (2008: np) suggerisce che l’ aumentata interattività sociale sia una caratteristica positiva per la “Parecon”, sia che la sua complessità non sarebbe necessariamente molto maggiore di quella di molti delle abitauli attività quotidiane richieste dalla vita capitalista – commercio, imposte, finanza ecc..  Ma sembra che la realizzazione dei cicli a più livelli ed iterativi che essi immaginano, ad una velocità sufficiente per riuscire a pianificare qualcosa, avrebbe richiesto una infrastruttura di rete molto sofisticata ed un alto livello di partecipazione tecnologicamente mediata: ampie banche dati accessibili dai consigli e da singoli soggetti, carte magnetiche elettroniche per la misurazione del lavoro e del consumo, software pronti per la preparazione di proposte, e sistemi di inventari just-in-time per la produzione (Albert, 2003: 133).

Infatti la “Parecon” sembra invocare uno sviluppo digitale che di fatto postpone la sua proposta: i social media. Una società di pianificazione partecipata, informata, collettiva, democratica e tempestiva richiederebbe piattaforme comunicative interattive, veloci, varie, in cui le proposte potrebbero essere  fatte circolare, le risposte ottenute e, a lungo o breve tempo, individuate le tendenze, stabiliti i giudizi, generate e modificate le revisioni, e così via. Sarebbe, insomma, come chiedere che Facebook, Twitter, Tumblr, Flickrr e altre piattaforme Web 2.0 non solo diventino essi stessi imprese auto-gestite dai propri lavoratori (compresi i loro contribuenti non retribuiti, i prosumer), ma anche diventino sedi della pianificazione: Gosplan con “tweet” e “like”. Dobbiamo anche pensare a questi organismi trasformati nelle direzioni introdotte da esperimenti di social network alternativi, come Diaspora, Crabgrass, Lorea, liberati dall’incentivo del profitto e dal controllo centralizzato e che assumono una forma più distribuita e federata  (Cabello et al, 2013;. Sevignani, 2013), diventando, come Hu e Halpin (2013) propongono, reti che nel loro stesso format danno priorità ai progetti di gruppo su singoli individui, o come piattaforme di “individuazione collettiva”; non tanto quindi social media ma “council media”.

Ma forse l’idea che tutti guardino lo smartphone per non perdere, non l’aggiornamento su Facebook, ma la votazione della settima iterazione del piano partecipativo, duplica aspetti poco attraenti della vita quotidiana nel capitalismo high-tech. Così filosofando ulteriormente, suggeriscono che ciò di cui la pianificazione collettiva decentrata ha veramente bisogno non è solo il supporto dei consigli ma di agenti comunisti: agenti software comunisti.

Gli agenti software sono entità complesse programmate capaci di agire “con un certo grado di autonomia … per conto di un utente (o di un altro programma)” (Wikipedia, 2013b: np). Tali agenti esprimono compiti di direzione verso gli obiettivi, loro selezione, individuazione di priorità e avvio degli stessi; possono attivare se stessi, valutare e reagire al contesto, esibire aspetti dell’ intelligenza artificiale, come l’apprendimento, e possono comunicare e cooperare con altri agenti (Wikipedia, 2013b: np).

Nel commercio, software “agenti di offerta” sono già in grado di superare gli esseri umani al punto che questi ultimi stanno sul punto di perdere il privilegio di essere gli unici agenti economici del pianeta (Kephart, 2002: 7207). La capacità di tali entità nel creare “una perfetta concorrenza” nei mercati elettronici le rende le preferite per gli economisti influenzati dalla scuola austriaca (Mirowski, 2002). Come acquirenti e venditori pre-programmati in grado di elaborare grandi quantità di dati di mercato, gli agenti software hanno trasformato il commercio elettronico a causa della loro capacità di cercare rapidamente in Internet, identificare le migliori offerte, aggregare queste informazioni per gli utenti, o, addirittura, effettuare acquisti autonomamente. Tuttavia, l’arena in cui tale agenti veramente eccellono è nel settore finanziario, dove il trading ad alta frequenza è interamente dipendente da software “bot” in grado di rispondere alle possibilità di negoziazione in millisecondi.

Non si può fare a meno di chiedersi, però, cosa accadrebbe se gli agenti software potessero essere usati per  un diverso scopo? Notando che i modelli a Sistema Multi-Agente possono essere pensati come mezzo per rispondere a problemi di allocazione di risorsa, Don Greenwood (2007: 8) ha suggerito che essi potrebbero essere orientati verso la soluzione del “problema del calcolo socialista”. Come strumenti di pianificazione, i sistemi multi-agente, egli osserva, hanno il vantaggio sui mercati reali che “gli obiettivi e i vincoli affrontati dagli agenti possono essere pre-specificati dal progettista del modello ‘(Greenwood, 2007: 9). È possibile progettare agenti con macro obiettivi che vadano oltre la massimizzazione di interessi individuali; due dei principi di “welfare” che gli economisti hanno provato ad incorparare sono l’uguaglianza e la protezione dell’ambiente.

Forse, allora, dovremmo prevedere che i ripetuti cicli di decisione-pianificazione democratica, non siano solo discussi e deliberati nei social media, ma in parte delegati ad una serie di agenti software comunisti, che assorbono le richieste rilevanti del processo, corrono al ritmo degli algoritmi del trading ad alta frequenza, si infilano fra le reti ricche di dati, fanno delle raccomandazioni ai partecipanti umani (“se ti è piaciuta la geo-ingegneria più le nanotecnologie, ma non il piano quinquennale sul nucleare, allora si potrebbe … “), comunicando e collaborando tra loro a vari livelli, preprogrammati a soglie specifiche e a configurazioni di decisione (“tenere le emissioni di CO2 inferiori a 300 parti di un milione, aumentare i redditi della bassa quintile … e nessun aumento delle ore di lavoro necessarie per una tazza di caffe”).

Nell’era degli automi, questo può essere quello a cui può assomigliare un consiglio di lavoratori.

 

Automi, copie e replicatori

Ma alla fine, è veramente necessaria la pianificazione? Gli schemi di pianificazione centralizzata, neo-socialista e le loro versioni consiliari decentrate, connesse in rete, vedono entrambi i computer come strumenti di calcolo, uno strumento di misura, in particolare per misurare il lavoro: il loro scopo è quello di abolire lo sfruttamento capitalista restituendo ai lavoratori il pieno valore del loro tempo di lavoro. Vi è, tuttavia, un’altra linea di futurismo comunista che concepisce i computer non tanto come strumenti di pianificazione quanto come macchine di abbondanza.

Ci sono, potremmo dire, due modi per battere la “catallaxy” capitalista di Hayek. Uno è quello di superarla con il calcolo. L’altro è quello di farla saltare: la scarsità viene sostituito con l’abbondanza, ponendo fine alla necessità di prezzi o di pianificazione. Per i marxisti, l’abbondanza produce la transizione dalla fase “inferiore” del comunismo, che ancora deve cimentarsi con problemi di scarsità, alla fase superiore in cui “da ciascuno secondo le le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni “. Una popolare metafora per le condizioni tecnologiche necessarie per quest’ultimo momento è il replicatore di Star Trek che automaticamente, e con una energia illimitata, provvede ai bisogni umani (Fraise, 2011). Questo saggio non vuole giudicare quale livello di soddisfazione dei bisogni dovrebbe essere considerato sufficiente, o quale combinazione di crescita e di redistribuzione è adeguato per raggiungerlo: questo sicuramente sarebbe il problema da affrontare per i pianificatori collettivi del futuro. Esso, tuttavia, identifica tre tendenze cibernetiche che puntano verso la fase “superiore” del comunismo: l’automazione, la copia e la produzione peer-to-peer.

L’automazione è stata un tema centrale nell’immaginazione comunista.  Classico è l’ormai famoso “frammento sulle macchine” nei Grundrisse, dove, osservando la fabbrica della sua epoca, Marx (1973: 690-711) predice che la tendenza del capitale a meccanizzare la produzione farà, distruggendo il bisogno di lavoro salariato, saltare l’intero sistema. Il fondatore della cibernetica, Norbert Weiner (1950), vide come la sua conseguenza principale sarebbe stata l’eliminazione di posti di lavoro a beneficio dei computer. Questa tesi della fine del lavoro digitale è stata sviluppata molto senza mezzi termini da pensatori come André Gorz (1985) e Jeremy Rifkin (1995). Nel corso della fine del ventesimo secolo, tuttavia, il capitale ha notevolmente evitato questo scenario. Lontano dall’automatizzare completamente il lavoro, esso ha sia cercato serbatoi globali di mano do’opera a basso costo, sia seguito un “marcia attraverso i settori” che spinge ad  un avanzamento della mercificazione del lavoro nei settori dell’agricoltura, dell’industria e dei servizi.

Dal 2000, tuttavia, il dibattito sull’automazione è ripreso. Continue riduzioni dei costi informatici, miglioramenti nelle tecnologie visive e tattili, gli investimenti militari delle guerre post 11 settembre in droni e veicoli autonomi, e le richieste salariali da parte dei lavoratori in Cina, India e altre fonti di manodopera in precedenza a basso costo hanno stimolato una “nuova ondata di robot … molto più abili di quelli oggi comunemente utilizzati dai produttori di automobili e di altre industrie pesanti, più flessibili e più facile da programmare, che ora stanno sostituendo i lavoratori non solo nella produzione, ma nei processi di distribuzione, di circolazione e di servizio come i magazzini, i call center e anche l’assistenza per anziani” (Markoff, 2012: np). Gli economisti Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee (2011: 9), del Massachusetts Institute of Technology, hanno suonato l’allarme che il ritmo e la portata di questo sconfinamento nelle abilità umane “sta raggiungendo un nuovo livello” con “profonde implicazioni economiche”. Queste preoccupazioni sono state riprese da economisti famosi (Krugman, 2012). All’interno del capitale, l’automazione minaccia i lavoratori con la disoccupazione e l’accelerazione della produzione. Se, tuttavia, non ci fosse una tendenza dominante strutturale ad incrementare le produttività tale da portare alla disoccupazione o ad una maggiore produzione senza riduzione del tempo di lavoro, l’automazione potrebbe sistematicamente condurre ad un minore tempo speso nei luoghi di lavoro formali. In un quadro comunista che garantisse l’accesso al valore d’uso dei beni e servizi, la robotizzazione creerebbe la prospettiva di un passaggio dal regno della necessità ad uno di libertà. Si reintroduce l’ obiettivo – abbandonato sia all’interno dell’esperimento sovietico stakanovista sia nel sindacalismo occidentale che punta all’incremento dei salari, di liberare tempo dal lavoro, con tutto ciò che comporta in termini di auto-sviluppo umano ed impegno comunitario.

La stima di Juliet Schor (1991) è che, se i lavoratori americani avessero guadagnato dagli incrementi di produttività dagli anni ’50 non in salario ma in tempo libero, nel 2000 avrebbero lavorato una ventina di ore a settimana. Questo indica la scala di un possibile cambiamento. Nella politica della sinistra sono recentemente comparse proposte per  un “reddito di cittadinanza”.

Ci sono certamente critiche da muovere a queste posizoini nel momento in cui esse sono sostenute come strategia riformista, col rischio di diventare soltanto una razionalizzazione del welfare che supporta la precarietà neoliberista. Ma sarebbe difficile da immaginare un futuro comunista sensato che non avese adottato tali misure per ottenere la riduzione del tempo di lavoro socialmente necessario, fatto reso possibile dai progressi della scienza e della tecnologia, eliminando il problema del calcolo di Hayek, togliendo ad esso la capitalistica merce primaria, la forza lavoro.

Se i robot minano la centralità del rapporto salariale, internet presenta una possibilità parallela, beni privi di un prezzo. Gli economisti famosi hanno da tempo riconosciuto le caratteristiche anomale di beni informativi non in concorrenza, che possono essere copiati senza fine quasi a costo zero,  istantaneamente diffusi e condivisi senza nulla togliere al loro valore d’uso. Dato che la produzione intellettuale e culturale è diventata sempre più digitalizzata, queste tendenze a rendere internet “un luogo di abbondanza” (Siefkes 2012: np) sono diventate sempre più problematiche per il sistema dei prezzi. Il Capitale ha lottato per mantenere la forma merce nel cyberspazio, sia nei tentativi di far rispettare la proprietà intellettuale, sia trattando flussi informativi come acceleratori di pubblicità di altre merci. Ciò nonostante, la deriva di demercificazione del software si è dimostrata inestirpabile, ed stata potenziata dalle capacità di condurre questa circolazione al di fuori dei server controllati centralmente, attraverso le reti peer-to-peer. La pirateria, che ora rappresenta la maggior fonte della musica digitale, dei giochi, dei film e di altri software distribuiti in Asia, Africa, America Latina ed Europa dell’Est (Karaganis et al., 2011) è la manifestazione clandestina e criminalizzata di questa tendenza, e il movimento del software libero e dell’open source è la sua espressione organizzata. Quest’ultimo è stato al centro dell’interesse della sinistra libertaria dalla nascita della Free Software Foundation (di Richard Stallman nel 1984), che ha rilasciato il codice sotto la General Public License (GPL), garantendo agli utenti la libertà di riutilizzare, studiare, personalizzare, ridistribuire, e cambiare il software. Come Giacobbe Rigi (2012) osserva, la clausola cosiddetta “copyleft” della licenza GPL, che richiede che qualsiasi programma che utilizzi il codice GPL sia esso stesso rilasciato sotto licenza GPL, è una  “negazione dialettica” del diritto d’autore perché contemporaneamente conserva e abolisce proprietà nel software, formulando “un diritto tutto incluso di proprietà globale” . Questo sviluppo è stato elaborato dall’organizzazione di Linus Torvalds nei primi anni ‘90 con il metodo cooperativo collettivo volontario online per la produzione del software open-source. Come Rigi (2012) dice, la combinazione della licenza GPL e la programmazione collettiva in stile Linux open source “rappresenta la sintesi del modo di produzione P2P (peer-to-peer)”; egli vede in questo una realizzazione del “comunismo superiore” di Marx , riconoscendo la natura collettiva della conoscenza scientifica, e rifiutando ogni richiesta, basata sulla scarsità, di “equivalenza tra contributo sociale alla produzione e quota del prodotto sociale”.

Il software open source ha raggiunto un consideravole successo pratico (Weber, 2004), mentre la produzione P2P si è sviluppata in varie direzioni, con il suo orientamento politico che varia dal capitalismo libertario, a vedute liberali della nuova “ricchezza delle reti” (Benkler, 2006) come complementari e compatibili con i mercati, a versioni specificamente comuniste, come il progetto Oekonux (Meretz, 2012), allla fondazione ecumenica per per le alternative al P2P (Bauwens, 2012) che coprono tutto lo spettro delle attività umane. Tuttavia, anche se uno considera l’open source ed il Peer to Peer come il germe di un nuovo modo di produzione, le difficoltà di coltivare questo seme sono apparse evidenti. Una di tali difficoltà è la relativa facilità con cui il capitale ha incorporato questo seme come contributo a valle del processo di mercificazione: in effetti, l’intera tendenza del Web 2.0 si potrebbe definire come il contenimento della “nuova” di produzione P2P e dei suoi metodi di circolazione saldamente all’interno del guscio della “vecchia” forma merce capitalista . L’altro problema è quello che Graham Seaman (2002) ha definito il  “problema lavatrice” – il divario tra produzione virtuale e materiale, tra l’abbondanza del software cornucopiana e la produzione industriale, che sembra limitare pratiche P2P, tuttavia avanzanti, ad un piccolo sottoinsieme dell’attività economica totale.

Negli ultimi dieci anni, tuttavia, questo divario è stato ridotto dal rapido sviluppo di forme di dispositivi  di micro-fabbricazione controllati dal computer: la stampa 3D è la più famosa, ma ci sono una varietà di altri sistemi, comprese fresatrici con tecnica a sottrazione ed altri dispositivi di ingegneria miniaturizzati e digitalizzati che rendono le capacità industriali alla portata dei “laboratori pirata”, delle famiglie e delle piccole comunità. Questi strumenti hanno fornito il substrato ad un emergente movimento, quello dei “maker”, che collega le unità di produzione digitali alla circolazione in rete della progettazione, suggerendo ad alcuni che il “modo di produzione P2P possa essere esteso alla maggior parte dei rami della produzione materiale” (Rigi, 2012). Tali tecnologie sono anche associate alla proliferazione di robot e automi su piccola scala; infatti, il Santo Graal del movimento “maker” è il  replicatore auto-replicante, la perfetta macchina di von Neumann. L’estrapolazione da queste tendenze pone i “fabbricatori digitali” e i “replicatori” immaginati dalla fantascienza molto più vicini alla realizzazione di quanto sembrava possibile anche poco tempo fa.

Anche il “maker” più orientato al mercato non esita a sottolineare che tali sviluppi sembrano restituire i mezzi di produzione nelle mani del popolo (Doctorow, 2009; Anderson, 2012). Ma come suggerisce l’esempio dell’open source, non c’è un’intrinseca logica comunistizzante nel movimento dei “maker”, che potrebbe facilmente portare invece ad una proliferazione di micro-imprese come anche di micro-comuni industriali. Nella sua critica ai liberali appassionati di P2P, Tony Smith osserva che il pieno sviluppo della produzione “pari a pari”  è incompatibile con la proprietà ed i rapporti di produzione del capitale (2012: 178);  fino a quando queste relazioni persistono, coloro che sono coinvolti nella produzione volontaria tra pari continueranno ad esprimersi all’interno del lavoro salariato da cui dipendono, ed il capitale si approprierà delle loro creazioni come “omaggi”, ed il più ampio sviluppo di tali progetti sarà privo di risorse.

Tuttavia, in un mondo dove gli investimenti venissero determinati senza favorire sistematicamente la mercificazione del sapere, e senza l’eventualità di dover combinare beni comuni con conoscenza protetta da copyright, l’“immensa promessa di emancipazione della produzione peer-to-peer potrebbe essere soddisfatta” (Smith, 2012: 179). Come Smith osserva, il capitale contiene in sé la tendenza a sviluppare tecnologie “che consentono ad alcuni beni con un certo valore d’uso di essere distribuiti ad un numero illimitato di persone a costi marginali che si avvicinano allo zero” (2006, 341): “In ogni forma di socialismo degno di questo nome, i costi delle infrastrutture e del lavoro sociale richiesti per produrre prodotti come questi sarebbero socializzati ed i prodotti sarebbero distribuiti direttamente come beni pubblici gratuiti a tutti coloro che li volessero”. Anche se Smith è scettico sul fatto che questa tendenza potrebbe, “nel prossimo futuro”, diventare prevalente in tutta l’economia, egli ammette che se lo facesse, l’esperienza sovietica, afflitta da problemi di scarsità, sarebbe “del tutto irrilevante per il progetto socialista” (2006: 241-2).

Infrastrutture della conoscenza nell’antropocene

Una società comunista dell’abbondanza ad alta automazione, software libero e replicatori domestici, potrebbero, tuttavia, come Fraise (2011) suggerisce, avere il bisogno di pianificare più che mai – non per superare la scarsità, ma per affrontare i problemi  dell’abbondanza, che perversamente oggi minacciano le condizioni alla base della vita stessa. Il cambiamento climatico globale e una serie di problemi ecologici interconnessi sfidano tutte le posizioni che abbiamo discusso fino a questo punto. La crisi della biosfera  porta la questione della pianificazione di nuovo sulla scena, o meglio quello del calcolo – ma calcolo secondo la misurazione dei limiti secondo unità di misura fisiche, soglie e gradienti di sopravvivenza delle specie, umane e non. Discutendo gli imperativi di una tale pianificazione ecosocialista, Michael Lowy (2009) fa notare come questa richiederebbe una sterzata sociale molto più completa del semplice “controllo operaio”, o anche la riconciliazione negoziata degli interessi dei lavoratori e dei consumatori suggerite da schemi come la “Parecon”.

Piuttosto, essa implica un rifacimento di vasta portata del sistema economico, compresa la sospensione di determinate industrie, come la pesca industriale e il disboscamento distruttivo, la rimodulazione dei metodi di trasporto , “una rivoluzione del sistema energetico” e la corsa verso  un “comunismo solare” (Lowy 2009: np).

Tali trasformazioni coinvolgerebbero la cibernetica lungo due assi maggiori, sia in quanto contribuente alla corrente crisi ecologica e sia come mezzo potenziale per la sua risoluzione. Per quanto riguarda il primo di questi assi, i costi ecologici di tecnologie digitali teoricamente “pulite” sono diventati sempre più importanti: la richiesta di energia elettrica dei data-center dei cloud computing; le esigenze, da parte dell’industria dei chip, di l’acqua dolce e minerali, questi ultimi forniti da imprese estrattive di grande scala; e le conseguenti enormi quantità di rifiuti elettronici tossici. Fare di ogni casa una mini-fabbrica laboratorio farebbe solo accellerare la morte per caldo planetario. Contrariamente a tutte le nozioni idealistiche di mondi virtuali, la cibernetica è essa stessa parte inestricabile del sistema industriale reale, le cui operazioni devono essere poste sotto il controllo in un nuovo sistema di regolazione del metabolismo che ambisce ad un’abbondanza sia  rossa che verde.

Tuttavia, i sistemi cibernetici giocano anche una parte potenziale in qualsiasi tentativo di risoluzione della crisi ecologica , o, in effetti, persino di un suo pieno riconoscimento.

“A vast machine” di Paul Edward (2010) analizza il sistema globale di misurazione climatologica e di previsione -l’apparato di stazioni meteo, satelliti, sensori, registri archiviati digitalmente e potenti simulazioni al computer, che, come la stessa Internet, hanno avuto origine dalla pianificazione della guerra fredda negli Stati Uniti – su cui si basa la comprensione del riscaldamento globale. Questa infrastruttura genera informazioni così vaste in quantità e da piattaforme dati così diverse in termini di qualità e forma che può essere compresa solo sulla base delle analisi del calcolatore. Le conoscenze sul cambiamento climatico dipendono dai modelli del computer: simulazioni sul meteo ed il clima; rianalisi di modelli, che ricreano la storia del clima da dati storici; modelli di dati, che uniscono e regolano le misurazioni da più fonti.

Rivelando la casualità delle condizioni per la sopravvivenza della specie, e la possibilità di un loro cambiamento antropogenico, tale “infrastruttura di conoscenza” di persone, manufatti e istituzioni (Edwards, 2010: 17) – non solo per la misurazione del clima, ma anche per il monitoraggio dell’ acidificazione degli oceani, la deforestazione, l’estinzione di specie, la disponibilità di acqua dolce – rivelano il punto debole della “catallaxy” di Hayek, in cui la basi stesse dell’ esistenza della forma di vita umana sono viste come un’esternalità arbitraria. Cosiddetti tentativi del “capitale verde” di subordinare tali bio-dati ai segnali di prezzo. E’ facile sottolineare la fallacia di un meccanismo di decisione dei prezzi per eventi non lineari e catastrofici: qual è il prezzo corretto per l’ultima tigre, o per l’emissione di carbonio che fa scattare un rilascio di metano incontrollabile?

Invece bio-dati e bio-simulazioni devono essere inclusi in qualsiasi concetto di pianificazione collettiva comunista. Nella misura in cui tale progetto mira ad un regno della libertà che sfugge alla necessità della fatica, i beni comuni che esso crea dovranno essere generati con energia più pulita, e la libera conoscenza che mette in circolo deve avere la regolamentazione metabolica come priorità. Problemi come la corretta remunerazione del tempo di lavoro richiedono l’integrazione con calcoli ecologici. Nessuna rifoma ecologica che non riconosca le aspirazioni di milioni di proletari planetari di sfuggire alla disuguaglianza e all’impoverimento avrà successo, ma le misure stesse del tempo di lavoro devono essere ripensate come parte di un più ampio calcolo delle spese energetiche compatibili con la  sopravvivenza collettiva.

Conclusione: Per il K-ommunism?

Marx (1964), nel suo famoso, o famigerato, confronto tra il “peggiore di architetti” e la “migliore delle api”, ha visto i primi contraddistinti dalla capacità di “costruire nella immaginazione” la struttura che andranno a creare.

Oggi, grazie alla nostra migliore conoscenza delle comunità di api, questa distinzione puzza di antropocentrismo. Eppure, anche se a fianco di api, castori e altri primati, gli esseri umani manifestano una ipertrofica capacità di progetto. L’esperienza sovietica, di cui i cibernetici presenti in Red Plenty erano parte, è stata solo una realizzazione di tala capacità, angusta, specifica di un periodo storico, tragica, il cui autoritarismo nasconde il punto cruciale del concetto marxista di pianificazione, che è inteso come mezzo di elevazione che, tra una varietà di traiettorie, potrebbe seguire il divenire collettivo della specie umana. (Dyer-Witheford, 2004).

Un nuovo comunismo cibernetico, esso stesso una di queste traiettorie, come abbiamo visto, comprenderà alcuni dei seguenti elementi: uso dei più avanzati super-computer per calcolare algoritmicamente tempo di lavoro e richiesta di risorse, a livello globale, regionale e locale, per molteplici possibili percorsi di sviluppo umano; selezione di questi percorsi attraverso discussioni democratiche stratificate, condotte attraverso assemblee che comprendono i social network digitali e sciami di agenti digitali; aggiornamento alla velocità della luce e revisione costante dei piani selezionati tramite flussi di dati di grandi dimensioni provenienti dalle fonti di produzione e di consumo, il passaggio di un crescente numero di beni e servizi nel regno della libertà o meglio della produzione diretta come valori d’uso, una volta che l’automazione, il copy-left,  i beni comuni prodotti con il peer-to-peer ed altre forme di microreplicazione prendono piede; l’informatizzazione  di tutto il processo tramite parametri fissati dalle simulazioni, dai sensori e dai sistemi satellitari per misurare e monitorare l’ interscambio metabolico della specie con l’ambiente planetario.

Questo sarebbe davvero l’erede del comunismo di Lenin, “soviet più elettricità”, con le sue radici nel futurismo rosso, nel costruttivismo, nella tectologia e nella cibernetica, assieme alle immagini dei racconti scientifici di autori di sinistra come Iain M. Banks, Ken McLeod e Chris Moriarty. Esso sarebbe una matrice sociale che stimola forme di intelligenza artificiale sempre più sofisticate come alleate nell’emancipazione umana. Per coloro che temono la marcia della macchina, esso dà solo questo conforto: qualsiasi singolarità possa scaturire dalle sue reti, non sarebbe quella di entità inizialmente programmate per il profitto senza limiti e per la difesa militare della proprietà, ma piuttosto per il benessere dell’uomo e la protezione ambientale. Tale comunismo si addice ad una politica di accellerazione a sinistra che, in luogo dell’ anarco-primitivismo, del localismo difensivo e della nostalgia fordista, “spinge verso un futuro che è più moderno, una modernità alternativa che il neoliberismo è intrinsecamente non in grado di generare” (Williams & Srnicek, 2013). Se si ha bisogno di un nome, si può prendere il prefisso K con cui alcuni hanno designato lo sforzo “Kybernetic”, e lo si chiama ‘K-ommunism’. Lo spazio possibile per tale comunismo esiste ora solo tra le linee convergenti del collasso della civiltà ed il consolidamento capitalista. In questo corridoio che si restringe, esso sorgerebbe non per una logica data, teleologica, ma pezzo a pezzo  tra innumerevoli collassi sociali e conflitti; un modo di produzione post-capitalista emergente in un contesto di enorme crisi nella metà del ventunesimo del secolo, che si crea nel corso di un centinaio di anni di storia comunista regolata da equazioni non lineari al fine di creare le basi per un futuro di abbondanza rossa.

Incontro su moneta complementare a Fano

A Fano presso l’Emporio si è svolto un incontro, organizzato dall’Associazione Gerico e dall’Associazione Disoccupati, sul tema della moneta complementare.
La complessa tematica riguardante il sistema monetario in generale e la moneta complementare in particolare è stata illustrata dall’ Ing. Valentino De Santi, esperto della materia e ideatore di un software per la gestione di tale strumento e della indispensabile camera di compensazione ad esso collegata. De Santi è autore di un libro, sull’argomento trattato, che sarà pubblicato a breve scadenza.  L’evento è stato seguito da un folto pubblico che ha dato vita ad un articolato dibattito.

Dropis, la nuova moneta virtuale antispeculazione

di Matteo Muzio, Linkiesta – 01/07/2013

Intervista a Sebastiano Scrofina

I Dropis sono crediti di baratto. “Ne ricevo 20 per un lavoro e poi li spendo in un secondo momento”

L’euro ci ha rovinato, si dice spesso nei bar di tutta Italia. Gli economisti rispondono che indietro non si può tornare. Ma qualcuno ha pensato di aggirare l’ostacolo semplicemente creando una moneta alternativa, dal basso. Ma le prime monete alternative, parlando di quelle create in Italia, avevano il serio limite di essere territorialmente limitate. Così ad esempio è strutturato il Sardex, spendibile solo in Sardegna. «È proprio per uscire dalla dicotomia moneta universale scarsa e moneta abbondante che abbiamo creato Dropis», dice Sebastiano Scrofina, amministratore delegato e ideatore di Dropis, moneta virtuale del valore di un euro. Ma molto diversa. «Nostra ambizione è rimanere agganciati al valore del lavoro umano e ai beni materiali» spiega l’ad ospite del Wired Next Fest a Milano.

Quando nasce www.dropis.com e a quale domanda viene incontro?
Dropis nasce a metà del 2012 e vuole favorire lo scambio commerciale, il comprare e vendere, quando, soprattutto con la crisi, la liquidità tradizionale viene meno, ma il valore del capitale umano secondo noi no. Così abbiamo creato i Dropis, del valore di un euro, che altro non sono che crediti di baratto, ovvero ricevo 20 Dropis per un lavoro e poi li spendo in un secondo momento.

Fin qua sembra in tutto e per tutto simile a una moneta tradizionale. In cosa si distingue nettamente?
Innanzitutto non si può fare speculazione, dato che non si compra né si vende senza offrire qualcosa sulla rete. La seconda differenza sostanziale è che non ha senso accumularli, visto che non si possono mettere in banca. Insomma i Dropis non sono una moneta ma di fatto sono una forma avanzata di baratto.

Ma quindi esistono delle limitazioni strutturali per evitare accumuli e concentrazioni?
In realtà godiamo di un vantaggio ben spiegabile: essendo una moneta giovane non garantisce possibilità di guadagno per accumulo, non avendo le garanzie dell’euro. Però così se ne favorisce la circolazione. Ed è quello che vogliamo.

Quindi quali altri obiettivi vi ponete e a quali difficoltà pensate di andare incontro?
Pensiamo di aprire il nostro circuito anche ai piccoli imprenditori e alle partite Iva, vogliamo aprire per loro delle linee di credito in Dropis per farli uscire dall’angolo in cui sono finiti per gli effetti della crisi. Ovviamente queste linee di credito saranno coperte con la raccolta di beni reali.

Un’ultima domanda: cosa avete di diverso da altri sistemi di alternative currency?
Partiamo dalla più famosa: rispetto a Bitcoin siamo molto diversi per due motivi, il primo è che Bitcoin è una moneta scarsa, quantitativamente limitata. Il secondo è che il suo valore, essendo volatile, la rende molto adatta all’accumulo e alla speculazione e quindi siamo molto lontani dalla circolazione veloce di ricchezza che noi ci proponiamo di stimolare. Invece con altri sistemi italiani come lo Scec o il Sardex, il cui uso è limitato a singoli territori, noi siamo aperti a tutto il territorio nazionale. Insomma, vogliamo provare a creare una moneta sia abbondante che universale.

Il fork

di Uriel Fanelli (Kein Pfusch)

 

Sono stato ad uno stravagante incontro aziendale (in uno di quegli alberghi cosi’ fichi che i pompini si devono fare con le posate) e tra le cose interessanti c’era il solito tizio che fa consulenza strategica il quale prende un pochino di notizie , diciamo quelle spendibili in un incontro aziendale di una singola multinazionale , e vi spiega un attimo quale sia il futuro del mercato, ovvero cosa chiederanno i clienti. E’ divertente perche’ questa persona non fa altro nella vita che andare a cena e a pranzo con dei CEO , anche quelli grandi, e non fa altro che fare loro domande su come vedono il futuro. Quello che sta emergendo – che non e’ un segreto ma e’ solo una cosa senza copertura dei media mainstream, e’ stranissimo. Evito i particolari coperti da NDA, e racconto quel che ho raccolto io.
Diciamo che potremmo dividere la cosa in tre parti. Il futuro della merce, il futuro del lavoro, il futuro dei soldi. Lui non lo ha fatto perche’ era un parlatore torrenziale, io lo faccio perche’ sono un tecnico, e devo schematizzare tutto. Per me il mondo e’ in bianco e nero, e a dire il vero del bianco non mi sono mai fidato troppo.

Comunque, iniziamo col futuro della merce.

Molte grandi aziende hanno condotto, ognuna per conto proprio, delle indagini sulla clientela, diciamo andando nei paesi piu’ informatizzati e piu’ “mobilizzati” (ove cioe’ la penetrazione di servizi informatici e’ pervasiva) , presso la generazione che e’ nata con questi servizi, diciamo native digital. Dai 18 ai 30 anni, in questi paesi.

Lo scopo e’ ovviamente capire in che modo si comportera’ il cliente del futuro, quale sia la sua psicologia, e i risultati sono stati terrificanti per diverse grandi aziende.

Come sapete, la generazione “native digital” si distingue perche’ non si costruisce un bagaglio culturale. L’idea di bagaglio e’ di qualcosa che ti porti appresso poiche’ magari scarseggia laddove vai. Quando i libri erano cosa rara rispetto alla spaventosa disponibilita’ di Internet, tutti si facevano un bagaglio culturale, perche’ se vai nel deserto ti porti l’acqua. Ovviamente, se c’e’ acqua potabile ovunque, l’ultima cosa che metti nel bagaglio e’ l’acqua da bere.

Ai miei tempi per fare una tesi (che a quei tempi era un lavoro di qualita’ accademica, non gli accrocchi sgrammaticati di oggi) consisteva in una attivita’ compilativa che si svolgeva tra biblioteche, dovevate girare e ne ricevevate una impressione di scarsita’ del sapere: era meglio avere un bagaglio, perche’ trovare il sapere giusto e selezionarlo per fonte richiedeva mesi e mesi.  Il mondo era un deserto cognitivo, nel quale per vivere era obbligatorio avere un bel bagaglio di sapere.
Oggi al contrario (per una nuova generazione) il sapere e’ ovunque, abbondante, facile da reperire. Pochi minuti, forse ore, per fare quello che io facevo recandomi fisicamente in una biblioteca spulciando un indice , poi leggendo l’indice del libro, poi leggendo per contestualizzare, al solo scopo di prendere mezza pagina di citazione. Questa generazione non si fa un bagaglio, perche’ non serve portarsi qualcosa dietro se e’ ovunque.
Il punto e’ che questo paradigma culturale si e’ esteso ai consumi. Il problema non e’ avere i soldi o meno, il problema che questa nuova generazione non capisce per quale ragione comprare qualcosa che e’ ovunque. LE automobili sono ovunque. Ce ne sono anche troppe, occupano ogni spazio. Che senso ha possederne una? Temete forse che manchino, da doverne fare incetta?
La risposta e’ che la generazione native digital chiede di poter affittare l’auto cinque volte piu’ della generazione successiva. E non solo: dice che vuole avere sempre l’auto adatta . Furgone o station wagon se vai all’ IKEA, una biposto se guidi da solo o se porti fuori qualcuno, una monovolume se giri con la famiglia, eccetera. Cosa che possono ottenere solo affittando le auto. Questa generazione usa soluzioni tipo “car to go” (https://www.car2go.com/en/austin/ ) e non c’e’ verso di convincerli a comprare un’auto.

E le case. Guardate una citta’: ci sono case ovunque. Distese di edifici da tutte le parti. Perche’ diavolo volete comprare una casa, dicono, dal momento che sono ovunque? Avete davvero bisogno di garantirvi una risorsa sovrabbondante?

Stessa cosa, queste persone vogliono vivere nel posto giusto. Significa cambiare lavoro spesso, ovvero cambiare casa spesso. E vogliono la casa giusta, cioe’ un posto piccolo e facile da pulire se sono single, grande quando hanno famiglia, se poi divorziano rivogliono un posto piccolo, etc. Morale: comprano meno case, e preferiscono l’affitto.
La cosa procede persino coi vestiti di lusso:  in USA finora affitavano solo i frac per le feste, ma sta nascendo un rilevante business di affitto di vestiti costosi. Dopotutto la maggior parte della gente non deve vestire firmata sempre. Magari lo fate poche volte l’anno. Cosi’, quando serve “sfoggiare”, perche’ anziche’ comprare vestiti che poi non userete piu’ , non li affittate? Esiste persino un nascente mercato di vestiti da sposa, dicono: se affittate l’auto per il vostro matrimonio, perche’ non anche il vestito?
Queste vi sembrano scemenze da poco, ma se ci mettete i numeri diventano terrificanti. Di questo passo, nei prossimi 10-15  anni in questi paesi succedera’ che:

  • Mercato dell’automotive (acquisti) : -50%
  • Mercato della casa (acquisti) : -65%
  • Mercato dei generi di lusso (acquisti) : -45%
C’era un signore in sala , diciamo un “pezzo grosso” di <nota casa automobilistica di lusso> che annuiva, quindi non stiamo dicendo niente di nuovo. Almeno, i CEO lo sanno: il futuro e’ delle cose in affitto. Presentarsi con migliaia di euro di vestiti addosso , sempre diversi, quando serve. Ma non possederne neppure uno.
Avere sempre l’auto che serve, ma non possederne neppure una. Avere la casa nel posto che serve, senza possederne una.
Capite che quando succede una cosa simile, e i CEO presenti annuiscono dicendo che lo sanno benissimo, chi continua a prospettare il futuro come se gli anni ’80 fossero ancora li’ non ha capito niente. Penso all’82% di italiani che piagnucola perche’ non gli danno il mutuo casa o il prestito per l’auto. Preistoria.

Ma c’e’ il secondo punto divertente. Quante delle cose che possedete usate davvero? Cioe’, tutti possediamo un trapano. Un tagliaerba. Una smerigliatrice. Ma quanti di voi lo usano ogni giorno? Supponiamo di ricevere un messaggio tipo “ehi, tu possiedi un tagliaerba. A due km da te, il signor Griffin ha bisogno di un tagliaerba. Se glielo presti, guadagni XY euro!. Premi OK per accettare“.

A questo punto, non solo affittate, ma GUADAGNATE SOLDI se VOI affittate i vostri oggetti ad altri. Non e’ male, se considerate che di fatto guadagnerete soldi solo esponendo una lista  di oggetti che possedete ma usate poco. Se quel giorno non li usate, perche’ non affittarli?
Andiamo avanti, cioe’ il futuro del lavoro. Due personaggi -consulenti strategici – hanno lanciato un progetto pilota in alcune citta’, in Asia, Europa, America. E i risultati sono stati altrettanto incredibili.
Immaginate di avere sul cellulare una applicazione. Immaginate di scrivere su questa app quello che scrivete su Linkedin, o su Xing. Le vostre capacita’ lavorative ed i vostri hobbies.
Adesso immaginate di avere l’hobby della cucina. E che un sabato mattina vi arriva un messaggio cosi’: “la signora Mustermann vuole dare una festa e sta cucinando, ma ha bisogno di aiuto. Se vai ad aiutarla a cucinare, ti paga XY euro. Vive a due isolati da te. Premi OK per accettare“.
Oppure immaginate che come hobby avete il giardinaggio. E vi arriva un messaggio “il signor Müller ha un braccio rotto e non puo’ badare al giardino, ma se vai a tagliare il prato ti offre XY euro, vive qui. Premi OK per accettare“.
Ma, ancora peggio: se siete al supermercato , e vi arriva un messaggio “La signora Jensen ha bisogno di farina e vive a 500 metri da qui, ma non vuole uscire da casa solo per la farina. Se le portate un chilo di farina dalla Signora jensen, vi dara’ XY
Oppure, immaginate di essere in auto e di aver impostato una rotta sul navigatore. E che vi arrivi un messaggio che dice “tizio deve andare proprio dove passi tu. Si trova qui. Se gli dai uno strappo ti offre XY euro. Premi OK per accettare“.
Ma questo si estende anche sul lavoro. Siete dei professionisti dell’ IT, e’ sabato e vi annoiate, e improvvisamente vi arriva un messaggio che dice “Ciao, la telco X ha spedito il router al signor Zambo, ma lui non sa come collegarlo. Vive vicino a te. Se glielo vai ad installare ti diamo XZ“.
Ovviamente, il cliente puo’ dare un rating al servizio ricevuto.
Si chiama(va) crowdsourcing, ma il mobile aggiunge il fatto di sapere di preciso dove vi trovate. Questo “helpsourcing” e’ stato lanciato come progetto pilota in cinque citta’, ed e’ dilagato a macchia d’olio, al punto che alcune associazioni di professionisti hanno iniziato a protestare. Tra pensionati, disoccupati e casalinghe, il mercato dei servizi era collassato in tempo brevissimo.
L’idea di fare soldi mentre VIVETE , mentre andate in auto, mentre siete al supermercato, in farmacia, con i vostri hobbies, non era mai stata possibile prima. Ma e’ assolutamente probabile che il mondo dei servizi alla persona evolva in questo modo. Se servizi del genere prendessero piede, da un lato collasserebbe il mercato professionale di servizi a basso valore aggiunto, ma il problema che si e’ notato subito e’ che il valore aggiunto NON ERA ASSOLUTAMENTE BASSO.
Il sistema del rating, cioe’, aveva selezionato una serie di hobbysti (giardinaggio, piccola falegnameria, cucina, pulizie, piccoli aggiustaggi, etc) che riuscivano – anche se solo nel tempo libero (che per pensionati e casalinghe puo’ essere molto nella somma complessiva) , a stracciare dei cosiddetti professionisti. Queste persone non avevano la fretta di un professionista, facevano il loro lavoro in maniera piu’ appassionata – in fondo accettavano perche’ ne avevano voglia – e quindi spesso risultavano piu’ graditi.
Risultato: mercato dei professionisti al collasso.
E’ assolutamente probabile che il mondo lavoro possa evolvere in questo modo. Se si evolve in questo modo, e’ possibile che un individuo con 3-4 hobbies possa guadagnare piu’ di qualcuno che ha un lavoro fisso e soltanto una competenza specifica. Se da un lato questo significa che la fine della barriera tra vita personale e lavoro e’ vicina, (visto che il sistema seleziona anche i vostri hobbies per vendibili) , dall’altro significa che oltre alla specializzazione verticale – che rimarra’ necessaria ma sempre piu’ ristretta in termini di numeri – nascera’ un nuovo tipo di offerta lavorativa, ovvero la persona che sa fare 18 cose diverse e viene sempre contattata da un sistema simile.
In pratica, si tratta di estendere “MyTaxi” a qualsiasi altra professione, per lavori molto parcellizzati e di piccole dimensioni. Ma un singolo che riesca a prendere abbastanza di questi lavori rischia di viverci bene, come fanno appunto i tassisti. E’ “solo” questione di avere molti hobbies manuali e per questo essere multidimensionali.
Diversi CEO stanno iniziando a pensare di gestire le risorse umane in questo modo, per ogni genere di lavoro che non richieda continuita’. Portinai, aziende delle pulizie, facilities di ogni genere, catering aziendale, sono avvisati. Si tratta di lavori per cui uno vale l’altro. Significa che nelle grandi corporations le persone che svolgono lavori del genere verranno chiamate giorno per giorno.
“Multidimensionale” e’ il nome di questo “nuovo” crowdsourcing, appunto.
Infine, il futuro del denaro. Cosa interessante, perche’ c’erano anche persone di “banche abbastanza grosse” che annuivano. Cioe’, lo sanno gia’ e lo pensano tutti.
Tutti voi avrete una fidelity card di qualche tipo, credo. Volenti o nolenti, siete stati “fidelizzati” da qualche parte. Come sapete, quei “punti” che avete accumulato (miglia Lufthansa, punti per acquisti, eccetera) sono spendibilissimi. Cosi’ la domanda e’: quanto rappresentano sul mercato questi punti? Vanno dal 5 al 10% delle spese medie annue dei clienti fidelizzati, a seconda della fedelta’ mostrata.
Ma la vera domanda e’ : questi “punti” non sono forse SOLDI?
Fino a qui sembra che si stia parlando di questioni accademiche, ma proviamo ad immaginare una cosa.
La vostra banca domani vi chiama e vi dice: “se tieni il conto corrente ed una carta di credito con noi per 35 anni, alla fine del periodo se hai 65 anni iniziamo a darti, diciamo, 50 euro al mese“.
Cinquanta euro sono pochi, e’ un esempio, ma immaginate che adesso arrivi la vostra marca di auto e vi dice che se se per 35 anni usate sempre solo auto della loro marca, arrivati a 65 anni inizieranno a darvi che so 100 euro al mese.
Finanziariamente e’ sostenibile per via dei tempi lunghi di fidelizzazione, e la cartolarizzazione di un simile contratto potrebbe coprire le spese senza problemi.
Ma se immaginate che lo faccia la ditta di auto, la catena di supermarket, la banca, la compagnia telefonica, la catena ove comprate vestiti, il posto ove comprate mobili per casa, la catena di ristoranti, la vostra compagnia assicurativa, a 100 euro a botta potreste persino andare in pensione coi punti Lufthansa. E non sto scherzando: ci pensano sul serio.

In pratica, si tratta di fondare il welfare non sul lavoro, ma sui consumi. Non andate in pensione come lavoratori, ma come consumatori. La pensione non la fate accantonando sul reddito, ma accantonando sui consumi.

Questo e’ solo un esempio per dire che i soldi non sono piu’ la moneta, ma sono anche punti fedelta’, coupons, sconti per clienti registrati , eccetera. Se si introduce un meccanismo ESPLICITO (in questo caso ho immaginato la pensione, ma potreste estenderlo allo stipendio o ad altro) di conversione immediata , o addirittura di finanziarizzazione – come nel caso della pensione – il risultato potrebbe essere che la vostra carta di credito (ed il vostro conto in banca) potrebbe contenere in futuro (oltre ai soldi) anche i punti Lufthansa, lo sconto fedelta’ di una catena di cinema, eccetera eccetera.

Tutto sarebbe piu’ chiaro, forse, se poteste mettere i vostri punti fedelta’ NEL CONTO IN BANCA? Beh, sappiate che si stanno attrezzando per questo!

Questa e’ la ragione per cui i moderni sistemi di M-Commerce consolidano tutte queste “carte fedelta’ ” dentro la stessa SIM: poiche’ coi punti accumulati potete comprarci cose e servizi, sono TUTTE carte di credito!

Quanto sono vere queste cose? Onestamente non so, ma sembra che QUESTE siano le cose in cui si sta investendo molto, e che QUESTE sono le visioni del futuro dei CEO di banche, aziende di auto, assicurazioni, grande distribuzione, eccetera.

Insomma, in questo genere di riunioni ci avvisano di “ecco cosa vi chiederanno di realizzare i vostri clienti nei prossimi anni”. E quindi, se ce lo dicono, di solito e’ perche’ poi i clienti ce lo chiedono.

E qui siamo al titolo del post. Andiamo cioe’ alla parte che ci metto io.
Quando la prossima generazione di consumatori/lavoratori sara’ dominante, merci, servizi, soldi e lavoro potrebbero cambiare in questo modo. Il risultato e’ un vero e proprio “fork” antropologico. Nelle nazioni “vecchio stile”  si condurra’ uno stile di vita incomprensibile per le nazioni “hi tech”, e viceversa. Un individuo che passa la vita sperando di comprare casa , auto, e trovare un lavoro fisso potrebbe essere completamente inadatto a vivere in un mondo hi-tech, e viceversa.
Finora la divisione tra primo, secondo, terzo mondo era dettata da ragioni economiche. Presto diventera’ una questione “con quanta tecnologia sei cresciuto”.  E potreste iniziare a pensare ad una differenza cosi’ alta da sembrare quasi antropologica, come la differenza tra uomo di Nehandertal e uomo Sapiens.
Magari a volte si accoppieranno in qualche zona di confine, ma alla fine ne rimarra’ uno solo. E di solito a perdere e’ il vecchio.

Tutto questo ovviamente ha alcuni requisiti: che le merci siano sovrabbondanti in modo da rendere fruibile in maniera liquida il mercato del rental, per dire. Questo puo’ spiegarvi la spinta a costruire case piu’ in fretta di quanto non cresca la popolazione, o di produrre sempre piu’ auto e generi di lusso: chi SA dove andra’ il mondo ovviamente si prepara.

M-commerce e moneta elettronica.

di Uriel Fanelli, Kein Pfusch

Torno un poco ad un post sul mio lavoro, e ne approfitto per continuare il discorso sull’m-banking, che tra 2013 e 2014 sara’ uno dei leit-motif delle nuove offerte del mondo mobile. Ho gia’ parlato in passato di m-pesa ( http://www.keinpfusch.net/2011/12/m-banking.html ) e del suo devastante (in senso positivo) impatto sulle economie di 4 paesi africani, ma le nuove proposte che vedo sono molto diverse.

Gestendo un grosso plesso per le comunicazioni M2M via SMS, ovviamente ho una visione limitata della cosa: i sistemi di m-commerce che useranno, per esempio, CAT-TP (una versione semplificata di TCP/IP) non passeranno da me, quindi non ricevero’ nessuna formazione specifica a riguardo. (design, sicurezza, usecases, troubleshooting , e cosi’ via).

Sul mio plesso stanno per passare 6-7 “propositions”, ovvero ci sono delle piccole “costellazioni” di telco e banche/carte di credito/aziende tecnologiche che costruiscono e testano i loro sistemi.

Considerata la dimensione del plesso in questione, potete considerare che solo nel mondo occidentale probabilmente tra 2013  e 2014 verranno lanciate due dozzine di servizi simili, piu’ asia (che a parte India e Cina il mio plesso non copre), e Africa. (Hai detto niente).

Facendo un passo indietro, m-pesa e’ stato il modello piu’ visibile e testato, dal momento che ha alzato di diversi punti percentuali il PIL di quattro paesi africani ( http://www.keinpfusch.net/2011/12/m-banking.html ) ma d’altro canto ha il “piccolo” difetto di non essere multitenant (lascia fuori tutti gli altri Tier-1) e di cancellare o ridurre al lumicino il sistema bancario locale.

Poiche’ le banche non africane hanno dei pregiudizi verso chi le cancella dal mercato, ma a differenza di quelle africane sono anche i finanziatori delle telco stesse, capite subito perche’ il modello m-pesa, con tutta la comodita’ di essere un modello legacy, non sara’ quello esportato nel mondo occidentale.

I giocatori piu’ grandi e piu’ cruciali in questa gara sono, con grande sorpresa, i produttori di SIM. Forse voi pensate che una SIM o una USIM, o una GUSIM, siano degli oggetti molto passivi, o delle semplici memorie, in realta’ sono piccoli calcolatori programmabili che possono svolgere funzioni molto intelligenti.

Il primo tratto comune in tutti i progetti che vedo, o quasi, e’ l’entrata in gioco della smartcard come componente separato, quasi un terminale a parte: a fare da terminale ATM per i pagamenti di fatto non e’ il cellulare, ma la SIM. Questo non dovrebbe stupirvi se pensate che anche la vostra carta di credito e’ una smartcard, ma la coppia di SIM + Cellulare fa si che la vostra carta di credito possa parlare con altri sistemi, con molta piu’ facilita’.

Questo risponde innanzitutto ad una domanda: perche’ dovrei usare il cellulare come carta di credito? la verita’ e’ che in tutte le soluzioni m-commerce che vedo, il cellulare e’ ATTORNO alla carta di credito, e serve a difenderla. Supponiamo infatti che la carta di credito venga rubata: essa verra’ usata o mossa in giro per il mondo, e non sapete dove sia. E specialmente, la vostra carta di credito non puo’ reagire.

Quando la carta di credito e’ dentro un cellulare, invece, la sua smartcard puo’ fare una cosa interessante: mandare un SMS avvisando cosi’ della propria posizione. Poiche’ la SIM necessita del cellulare e della rete mobile per pagare, ma quando entra in rete riporta la propria posizione e riceve comandi , di fatto non appena vi venisse rubata e’ possibile , a seconda del vendor, eseguire delle azioni.

Alcuni hanno sviluppato sistemi che in seguito alla denuncia mandano un SMS alla SIM, con l’ordine di cancellare ogni modulo installato dalla memoria. Non appena il malvivente mettera’ la SIM in rete per comprare con la vostra carta di credito, arrivera’ l’sms e la SIM cancellera’ le chiavi per gli acquisti. Alcuni fornitori hanno aggiunto – a seconda dei cellulari “in scope” – il rilevamento GPS (in coppia con una app ad hoc) oppure un heratbeat silenzioso, un sms binario inviato (gratis) ogni tot minuti, che dal momento del furto traccia la vostra sim. Il delinquente puo’ evitare il problema solo togliendo la sim dal telefono, il che ne esclude il pagamento.

Lavorare con le SIM ovviamente introduce delle criticita’. Innanzitutto occorre designare dei PIN allo scopo, e di PIN liberi non ce n’erano tanti. Alcuni produttori hanno reagito con sim ad hoc, altri identificando PIN non ancora usati. Purtroppo manca uno standard.

L’altro problema e’ la quantita’ piccola di memoria.

Uno dei vantaggi di tutti questi sistemi e’ quella di consolidare tante smartcard in una. Significa che voi passate dall’avere per esempio VISA, AMEX, Lufthansa Miles And More, EC card, Trenitalia card) ad una sola carta contenuta nel telefono. Questo significa che i vari fornitori di servizi (Lufthansa, Visa, Coop, – sto inventando, sia chiaro) federandosi ad una telco potranno “installare” da remoto la loro carta sulla vostra sim. Insomma, anziche’ darvi una carta di credito installano la carta di credito, o la carta servizi,  (o meglio, parte della memoria della smartcard) dentro la SIM.

Qui c’e’ la piu’ completa varieta’ di metodi di installazione: si va da CAT-TP a NFC a TCP-IP , da Bluetooth  sino ad SMS , il che richiede una piu’ o meno grande prossimita’ del vostro cellulare. In alcuni casi l’installazione puo’ avvenire da remoto, in altri casi avviene dentro la filiale dell’ente che vi fornisce il servizio. La comodita’ della mobilita’ in un caso viene poi compensata dalla sicurezza fisica dell’altro, e viceversa.

Suppongo che le banche preferiranno installarvi il bancomat con voi presenti in ufficio, almeno una banca europea sta per diventare un MVNO, ovvero vi vendera’ anche la SIM,  mentre magari servizi piu’ neutrali come Trenitalia, Deutsche Bahn o altri vendor di tessere fedelta’ come i supermercati potranno farlo da remoto.
Qui andiamo alla seconda domanda: qual’e’ il secondo motivo per il quale dovrei passare ad un servizio simile?

La risposta e’ che una sola SIM puo’ consolidare da 5-6 a due dozzine ( a seconda di memoria e modello) di smartcard al proprio interno. Quindi, il vostro cellulare , in quasi tutte le implementazioni che vedo , diventa una specie di terminale universale verso tutti i servizi che necessitano di smartcard.

Ovviamente vi verra’ in mente il problema: e la sicurezza?
Il problema e’ che stanno facendo questa cosa PROPRIO per la sicurezza.
Le banche stanno notando un crescente aumento di frodi sugli ATM, che vengono manomessi per raccogliere credenziali: la loro idea e’ che se sostituiamo l’ ATM con il vostro cellulare, molto probabilmente nessuno riuscira’ a manomettere centomila cellulari. Se invece abbiamo 300 ATM (Bancomat, insomma) in giro in una grossa citta’. e lavorando in squadra riusciamo a manometterli tutti e 300, riusciamo ad impadronirci di decine di migliaia di carte di credito.
Impadronirsi in un giorno di decine di migliaia di cellulari e’ un pochino piu’ complicato, sicuramente, e dal punto di vista della rete mobile un eventuale magazzino con dentro 15.000 cellulari e’ “abbastanza visibile”.
Insomma, se pensate ad una banca che ha in mente di trasferire il suo bancomat sul vostro cellulare, la sicurezza del vostro ‘Bancomat/POS” e’ AUMENTATA. Per avere 15.000 credenziali di carte di credito mi basta assalire 300 bancomat, mentre se lo sposto nel cellulare, devo rubare 15.000 cellulari.
Anche le agenzie di carte di credito desiderano mettere un componente elettronico attivo attorno alla carta. Attualmente, per quanto sicura sia una carta , essa e’ in un certo modo incapace di difendersi se rubata. Mettere attorno ad una carta di credito un cellulare significa che il ladro di carte deve entrare in rete per usarla, ma se entra in rete, allora conosciamo la posizione della carta.
Inoltre, trasformare la carta di credito in un terminale attivo significa che per generare un PIN non avrete piu’ bisogno di hardware dedicato, cioe’ di una chiavetta, ma solo di un software, quando non potrete semplicemente ricevere un SMS col pin stesso.
Dal punto di vista di una VISA o di una mastercard, passare da una carta di credito totalmente inattiva ad una che comunica con la rete e’ un AUMENTO di sicurezza.
Rimane il tema della sicurezza informatica, ovvero il fatto che – nelle architetture che passano per la rete telefonica – occorre garantire che la SIM non venga raggiunta da un hacker.

In questo senso, la coppia MSC/HLR+VLR funziona piuttosto bene, a patto che i messagi OTA possano venire mandati SOLO da apposite piattaforme, di proprieta’ della telco. IN questo senso, la telco lavora sempre come enabler, nella misura in cui fornisce l’ UNICA piattaforma OTA capace di interagire con la carta di credito telefonica, e qualsiasi altro segnale inviato da qualsiasi altra cosa non potra’ raggiungere la SIM stessa: nel mondo legacy SS7, questa condizione e’ facilmente ottenibile, ove “facilmente” significa che e’ MOLTO piu’ facile che da ottenere che nel mondo TCP/IP.

Di conseguenza, credo che oltre ai progetti che seguo come enabler, ci saranno in europa almeno un’altra dozzina o due di “federazioni” di servizi di m-banking , piu’ quelli che decideranno di non usare la rete e basarsi su implementazioni locali, come gia’ fanno alcune aziende di trasporti locali o alcuni supermercati.
Queste soluzioni hanno come player principali:

  1. Banche, Circuiti , in generale fornitori di servizi commerce oggi su smartcard.
  2. Fornitori di Servizi OTA, e relative piattaforme da integrare nelle reti mobili.
  3. Fornitori di interfacce tra igli (1) e gli OTA.
  4. Produttori di SIM sempre piu’ capaci.
  5. Telco, che ospitano gli OTA, distribuiscono le SIM e forniscono la rete mobile.
L’altro vero punto e’ : che genere di successo si prevede per questi servizi. Inizialmente basso, perche’ si tratta di cose che cambiano molto il modo di vivere delle persone, e come se non bastasse non ci sono standard consolidati. Questo significa che tutti sanno di trovarsi nel periodo di interregno tipico che precede la standardizzazione, ovvero quando tanti standard lottano e la fortuna di uno o dell’altro in ultima analisi e’ legata non solo a questioni tecniche, ma alla scelta del mercato, che puo’ anche derivare dalla app piu’ o meno simpatica usata da tizio piuttosto che da caio.
Perche’ lo fanno, allora? Lo fanno perche’ tutti loro sono coscienti che la loro competizione lo stia facendo. Questi enti si spiano a vicenda, alcuni hanno gia’ annunciato alla stampa le loro soluzioni ( http://techcrunch.com/2012/10/29/vodafone-to-launch-mobile-wallet-service-next-year-inks-deals-with-m-commerce-company-corfire-digital-security-firm-gemalto/ ) , e quindi devono esserci piacenti o meno. In Italia il panorama e’ un pochino desolante, e questo sara’, nei prossimi 5 anni, un altro gap tremendo : dopo una buona partenza, con una piattaforma condivisa di API per l’m-commerce (unico paese ad avere unificato le API tra gli operatori concorrenti), adesso sembra che le applicazioni scarseggino. Un prezzo che verra’ pagato carissimo entro cinque anni.
Che genere di societa’ avrete, che genere di economia avrete con un bancomat in tasca? Ho visto alcune slides con le “previsioni” di alcune grosse societa’ di consulenza (Goldman Sachs, McKinsey, et al) e devo dire che le idee sono molte e ben confuse, dandomi una sensazione tipo questa:

http://dilbert.com/strips/comic/2013-05-15/

Scherzi a parte, queste aziende di consulenza strategica puntano il dito sempre e comunque sulla facilita’ di dematerializzare il negozio, ovvero trasformare il negozio in un ente che puo’ venire a casa vostra, avendo tutto quel che serve per pagare e registrare il pagamento. In effetti, ci si chiede come mai uno non possa aprire un negozio di vestiti mobile, che su chiamata venga la sera a casa vostra a mostrarvi alcuni vestiti (tipo lo chiamate e dite “devo procurarmi un vestito da sera, ho 40 anni, donna, porto questa taglia) e arrivi a casa un tizio con un piccolo campionario a vendervelo.(1)
In pratica, cioe’, rende molto facile per qualsiasi negozio avere una rete di venditori a domicilio, e la possibilita’ di avere pagamenti semplici con chiunque abbia un cellulare e si avvicini abbastanza a voi: idraulici, parrucchieri a domicilio, eccetera.
Oltre alla smaterializzazione del negozio e alla possibilita’ di portarlo a domicilio (od ovunque sia richiesto) , l’altro punto identificato e’ l’aumento di sicurezza. Come abbiamo detto, svincolarsi dal bancomat fisico per le banche diventa sempre piu’ urgente, perche’ essi sono oggetto di assalti che possono colpire migliaia di clienti alla volta, e anche il problema delle carte di credito smarrite/rubate/contraffatte e’ molto forte.
Un brusco aumento di sicurezza nei pagamenti ha effetti ancora ignoti, e soltanto un’azienda di consulenza (attualmente produce antivirus e sistemi anti-theft per cellulari, ed e’ l’unica ad avere fatti da mostrare) e’ stata capace di fornire una visione, ovvero il fatto che il “trust” nel canale impatta poco le operazioni di basso valore, ma rende piu’ frequenti le operazioni di maggior valore.
In definitiva, l’unica azienda a mostrare dei fatti ha mostrato come una diminuzione del rischio su un canale impatta prima le transazioni assicurate, che diventano meno costose. Di conseguenza, il problema non e’ se Amazon potra’ vendervi 100 euro di cose pagando in questo modo; il costo di questa operazione non cambia molto dal punto di vista di Amazon. Il problema semmai sara’ se un negozio potra’ vendervi con piu’ sicurezza (usando la carta di credito) roba normalmente assicurata, cioe’ molto costosa.
Altre societa’ di consulenza ci hanno mostrato le loro slides riguardo al possibile forecast di questi servizi (2), ma a parte pochi qualificati che menzionavano dei fatti (cioe’, gente che in passato ha fatto cose simili su larga scala e tenta di capire cosa sia successo) gli altri mi sono sembrati dei futurologi.

Ora, il motivo per cui non ho fatto di questo blog un blog 100% tecnico e’ che ODIO i futurologi. E quindi non voglio diventarlo.

Voglio dire,  chi poteva prevedere l’exploit dei tablet? Alcuni futurologi potevano forse predirlo, e se mille persone predicono di tutto, dal pollo-velociraptor al download di prostitute, qualcuno ci azzecchera’, tantevvero che si vedono in giro polli ferocissimi alti due metri e mezzo. I quali attraversano la strada, inspiegabilmente.
A parte i futurologi, c’era qualcuno che poteva prevedere il successo dei tablet? Certo: Steve Jobs, per esempio. Indubbiamente la sua versione sarebbe stata di parte, e quindi piu’ che di una previsione si sarebbe parlato di visione, ma almeno poteva mostrarvi dei FATTI: “Alla Apple stiamo costruendo iPad e lo metteremo in commercio il tale giorno”. Ok, puo’ avere successo o meno, ma almeno c’e’ un cazzo di FATTO sotto. Quindi, se proprio volessi scegliere un futurologo, sceglierei chi FA le cose. Potra’ sbagliare o meno sul successo, ma almeno ha dalla sua il fatto di star FACENDO delle cose. Ha qualcosa da mostrare.

Ma uno stronzo che passa la vita nei suoi vigneti in california e non sa riparare un interruttore di casa, non deve venirmi a scassare la minchia solo perche’ immagina un mondo cosi’ e cosa’. Ma che cazzo credete, che agli altri manchi l’immaginazione, o che bastino una barba , una pancia e una camicia (pessima persino per gli standard bavaresi) per prevedere il futuro?

Cosi’, deve essere chiaro che – nei limiti degli NDA che firmo – sto descrivendo cose che vedo, in alcuni casi ci sono cose che faccio, ma NON sono un “futurologo”. Posso dirvi come funzionano(3) 6-7 servizi che si integrano da noi (e quindi, ce ne saranno una trentina identici su scala della singola nazione, moltiplicato per gli altri continenti) e che usano le tecnologie che usiamo noi (e quindi lasciamo fuori altre decine di idee)  , posso dirvi come la vedono le aziende che ci si stanno buttando, ma se mi chiedete come sara’ il mondo tra dieci anni vi posso dire che PROBABILMENTE, MOLTO PROBABILMENTE ci sara’ una grossa percentuale di m-commerce , ma non e’ che ci vivi con una simile “previsione”. Almeno, io non riesco a farmi pagare per questo.

Forse dovrei coltivare uva in California, o vivere in un faro al largo di Dover, usare camicie orribili, farmi crescere un barbone ed ingrassare moltissimo.

E specialmente, trovare polli disposti a pagarmi per questo.

Nel frattempo, credo che vi dovrete accontentare di quello che scrivo. Non vi parlo di come il vostro cellulare fara’ il download della vostra fidanzata dalla rete, ma cosa volete, il futuro non e’ piu’ quello di una volta.

Uriel
(1) Non prendetevela con me, questo esempio viene da un tizio che evidentemente ama comprare vestiti.
(2) Si, dobbiamo sapere come gestire la capacita’. Presto potremmo trovarci nelle condizioni di avere i saldi online, o saldi pagati con sistemi di acquisto M2M, e quindi una semplice stagione dei saldi potrebbe alzare il traffico.
(3) Nei limiti dell’ NDA significa che posso menzionare tecnologie standard, roba che si studia a scuola per chi ci arriva, e che magari e’ ignota agli altri.

M-commerce e moneta elettronica.

di Uriel Fanelli, Kein Pfusch

Torno un poco ad un post sul mio lavoro, e ne approfitto per continuare il discorso sull’m-banking, che tra 2013 e 2014 sara’ uno dei leit-motif delle nuove offerte del mondo mobile. Ho gia’ parlato in passato di m-pesa ( http://www.keinpfusch.net/2011/12/m-banking.html ) e del suo devastante (in senso positivo) impatto sulle economie di 4 paesi africani, ma le nuove proposte che vedo sono molto diverse.

Gestendo un grosso plesso per le comunicazioni M2M via SMS, ovviamente ho una visione limitata della cosa: i sistemi di m-commerce che useranno, per esempio, CAT-TP (una versione semplificata di TCP/IP) non passeranno da me, quindi non ricevero’ nessuna formazione specifica a riguardo. (design, sicurezza, usecases, troubleshooting , e cosi’ via).

Sul mio plesso stanno per passare 6-7 “propositions”, ovvero ci sono delle piccole “costellazioni” di telco e banche/carte di credito/aziende tecnologiche che costruiscono e testano i loro sistemi.

Considerata la dimensione del plesso in questione, potete considerare che solo nel mondo occidentale probabilmente tra 2013  e 2014 verranno lanciate due dozzine di servizi simili, piu’ asia (che a parte India e Cina il mio plesso non copre), e Africa. (Hai detto niente).

Facendo un passo indietro, m-pesa e’ stato il modello piu’ visibile e testato, dal momento che ha alzato di diversi punti percentuali il PIL di quattro paesi africani ( http://www.keinpfusch.net/2011/12/m-banking.html ) ma d’altro canto ha il “piccolo” difetto di non essere multitenant (lascia fuori tutti gli altri Tier-1) e di cancellare o ridurre al lumicino il sistema bancario locale.

Poiche’ le banche non africane hanno dei pregiudizi verso chi le cancella dal mercato, ma a differenza di quelle africane sono anche i finanziatori delle telco stesse, capite subito perche’ il modello m-pesa, con tutta la comodita’ di essere un modello legacy, non sara’ quello esportato nel mondo occidentale.

I giocatori piu’ grandi e piu’ cruciali in questa gara sono, con grande sorpresa, i produttori di SIM. Forse voi pensate che una SIM o una USIM, o una GUSIM, siano degli oggetti molto passivi, o delle semplici memorie, in realta’ sono piccoli calcolatori programmabili che possono svolgere funzioni molto intelligenti.

Il primo tratto comune in tutti i progetti che vedo, o quasi, e’ l’entrata in gioco della smartcard come componente separato, quasi un terminale a parte: a fare da terminale ATM per i pagamenti di fatto non e’ il cellulare, ma la SIM. Questo non dovrebbe stupirvi se pensate che anche la vostra carta di credito e’ una smartcard, ma la coppia di SIM + Cellulare fa si che la vostra carta di credito possa parlare con altri sistemi, con molta piu’ facilita’.

Questo risponde innanzitutto ad una domanda: perche’ dovrei usare il cellulare come carta di credito? la verita’ e’ che in tutte le soluzioni m-commerce che vedo, il cellulare e’ ATTORNO alla carta di credito, e serve a difenderla. Supponiamo infatti che la carta di credito venga rubata: essa verra’ usata o mossa in giro per il mondo, e non sapete dove sia. E specialmente, la vostra carta di credito non puo’ reagire.

Quando la carta di credito e’ dentro un cellulare, invece, la sua smartcard puo’ fare una cosa interessante: mandare un SMS avvisando cosi’ della propria posizione. Poiche’ la SIM necessita del cellulare e della rete mobile per pagare, ma quando entra in rete riporta la propria posizione e riceve comandi , di fatto non appena vi venisse rubata e’ possibile , a seconda del vendor, eseguire delle azioni.

Alcuni hanno sviluppato sistemi che in seguito alla denuncia mandano un SMS alla SIM, con l’ordine di cancellare ogni modulo installato dalla memoria. Non appena il malvivente mettera’ la SIM in rete per comprare con la vostra carta di credito, arrivera’ l’sms e la SIM cancellera’ le chiavi per gli acquisti. Alcuni fornitori hanno aggiunto – a seconda dei cellulari “in scope” – il rilevamento GPS (in coppia con una app ad hoc) oppure un heratbeat silenzioso, un sms binario inviato (gratis) ogni tot minuti, che dal momento del furto traccia la vostra sim. Il delinquente puo’ evitare il problema solo togliendo la sim dal telefono, il che ne esclude il pagamento.

Lavorare con le SIM ovviamente introduce delle criticita’. Innanzitutto occorre designare dei PIN allo scopo, e di PIN liberi non ce n’erano tanti. Alcuni produttori hanno reagito con sim ad hoc, altri identificando PIN non ancora usati. Purtroppo manca uno standard.

L’altro problema e’ la quantita’ piccola di memoria.

Uno dei vantaggi di tutti questi sistemi e’ quella di consolidare tante smartcard in una. Significa che voi passate dall’avere per esempio VISA, AMEX, Lufthansa Miles And More, EC card, Trenitalia card) ad una sola carta contenuta nel telefono. Questo significa che i vari fornitori di servizi (Lufthansa, Visa, Coop, – sto inventando, sia chiaro) federandosi ad una telco potranno “installare” da remoto la loro carta sulla vostra sim. Insomma, anziche’ darvi una carta di credito installano la carta di credito, o la carta servizi,  (o meglio, parte della memoria della smartcard) dentro la SIM.

Qui c’e’ la piu’ completa varieta’ di metodi di installazione: si va da CAT-TP a NFC a TCP-IP , da Bluetooth  sino ad SMS , il che richiede una piu’ o meno grande prossimita’ del vostro cellulare. In alcuni casi l’installazione puo’ avvenire da remoto, in altri casi avviene dentro la filiale dell’ente che vi fornisce il servizio. La comodita’ della mobilita’ in un caso viene poi compensata dalla sicurezza fisica dell’altro, e viceversa.

Suppongo che le banche preferiranno installarvi il bancomat con voi presenti in ufficio, almeno una banca europea sta per diventare un MVNO, ovvero vi vendera’ anche la SIM,  mentre magari servizi piu’ neutrali come Trenitalia, Deutsche Bahn o altri vendor di tessere fedelta’ come i supermercati potranno farlo da remoto.
Qui andiamo alla seconda domanda: qual’e’ il secondo motivo per il quale dovrei passare ad un servizio simile?La risposta e’ che una sola SIM puo’ consolidare da 5-6 a due dozzine ( a seconda di memoria e modello) di smartcard al proprio interno. Quindi, il vostro cellulare , in quasi tutte le implementazioni che vedo , diventa una specie di terminale universale verso tutti i servizi che necessitano di smartcard.
Ovviamente vi verra’ in mente il problema: e la sicurezza?
Il problema e’ che stanno facendo questa cosa PROPRIO per la sicurezza.
Le banche stanno notando un crescente aumento di frodi sugli ATM, che vengono manomessi per raccogliere credenziali: la loro idea e’ che se sostituiamo l’ ATM con il vostro cellulare, molto probabilmente nessuno riuscira’ a manomettere centomila cellulari. Se invece abbiamo 300 ATM (Bancomat, insomma) in giro in una grossa citta’. e lavorando in squadra riusciamo a manometterli tutti e 300, riusciamo ad impadronirci di decine di migliaia di carte di credito.
Impadronirsi in un giorno di decine di migliaia di cellulari e’ un pochino piu’ complicato, sicuramente, e dal punto di vista della rete mobile un eventuale magazzino con dentro 15.000 cellulari e’ “abbastanza visibile”.
Insomma, se pensate ad una banca che ha in mente di trasferire il suo bancomat sul vostro cellulare, la sicurezza del vostro ‘Bancomat/POS” e’ AUMENTATA. Per avere 15.000 credenziali di carte di credito mi basta assalire 300 bancomat, mentre se lo sposto nel cellulare, devo rubare 15.000 cellulari.
Anche le agenzie di carte di credito desiderano mettere un componente elettronico attivo attorno alla carta. Attualmente, per quanto sicura sia una carta , essa e’ in un certo modo incapace di difendersi se rubata. Mettere attorno ad una carta di credito un cellulare significa che il ladro di carte deve entrare in rete per usarla, ma se entra in rete, allora conosciamo la posizione della carta.
Inoltre, trasformare la carta di credito in un terminale attivo significa che per generare un PIN non avrete piu’ bisogno di hardware dedicato, cioe’ di una chiavetta, ma solo di un software, quando non potrete semplicemente ricevere un SMS col pin stesso.
Dal punto di vista di una VISA o di una mastercard, passare da una carta di credito totalmente inattiva ad una che comunica con la rete e’ un AUMENTO di sicurezza.
Rimane il tema della sicurezza informatica, ovvero il fatto che – nelle architetture che passano per la rete telefonica – occorre garantire che la SIM non venga raggiunta da un hacker.In questo senso, la coppia MSC/HLR+VLR funziona piuttosto bene, a patto che i messagi OTA possano venire mandati SOLO da apposite piattaforme, di proprieta’ della telco. IN questo senso, la telco lavora sempre come enabler, nella misura in cui fornisce l’ UNICA piattaforma OTA capace di interagire con la carta di credito telefonica, e qualsiasi altro segnale inviato da qualsiasi altra cosa non potra’ raggiungere la SIM stessa: nel mondo legacy SS7, questa condizione e’ facilmente ottenibile, ove “facilmente” significa che e’ MOLTO piu’ facile che da ottenere che nel mondo TCP/IP.
Di conseguenza, credo che oltre ai progetti che seguo come enabler, ci saranno in europa almeno un’altra dozzina o due di “federazioni” di servizi di m-banking , piu’ quelli che decideranno di non usare la rete e basarsi su implementazioni locali, come gia’ fanno alcune aziende di trasporti locali o alcuni supermercati.
Queste soluzioni hanno come player principali:

  1. Banche, Circuiti , in generale fornitori di servizi commerce oggi su smartcard.
  2. Fornitori di Servizi OTA, e relative piattaforme da integrare nelle reti mobili.
  3. Fornitori di interfacce tra igli (1) e gli OTA.
  4. Produttori di SIM sempre piu’ capaci.
  5. Telco, che ospitano gli OTA, distribuiscono le SIM e forniscono la rete mobile.
L’altro vero punto e’ : che genere di successo si prevede per questi servizi. Inizialmente basso, perche’ si tratta di cose che cambiano molto il modo di vivere delle persone, e come se non bastasse non ci sono standard consolidati. Questo significa che tutti sanno di trovarsi nel periodo di interregno tipico che precede la standardizzazione, ovvero quando tanti standard lottano e la fortuna di uno o dell’altro in ultima analisi e’ legata non solo a questioni tecniche, ma alla scelta del mercato, che puo’ anche derivare dalla app piu’ o meno simpatica usata da tizio piuttosto che da caio.
Perche’ lo fanno, allora? Lo fanno perche’ tutti loro sono coscienti che la loro competizione lo stia facendo. Questi enti si spiano a vicenda, alcuni hanno gia’ annunciato alla stampa le loro soluzioni ( http://techcrunch.com/2012/10/29/vodafone-to-launch-mobile-wallet-service-next-year-inks-deals-with-m-commerce-company-corfire-digital-security-firm-gemalto/ ) , e quindi devono esserci piacenti o meno. In Italia il panorama e’ un pochino desolante, e questo sara’, nei prossimi 5 anni, un altro gap tremendo : dopo una buona partenza, con una piattaforma condivisa di API per l’m-commerce (unico paese ad avere unificato le API tra gli operatori concorrenti), adesso sembra che le applicazioni scarseggino. Un prezzo che verra’ pagato carissimo entro cinque anni.
Che genere di societa’ avrete, che genere di economia avrete con un bancomat in tasca? Ho visto alcune slides con le “previsioni” di alcune grosse societa’ di consulenza (Goldman Sachs, McKinsey, et al) e devo dire che le idee sono molte e ben confuse, dandomi una sensazione tipo questa:http://dilbert.com/strips/comic/2013-05-15/
Scherzi a parte, queste aziende di consulenza strategica puntano il dito sempre e comunque sulla facilita’ di dematerializzare il negozio, ovvero trasformare il negozio in un ente che puo’ venire a casa vostra, avendo tutto quel che serve per pagare e registrare il pagamento. In effetti, ci si chiede come mai uno non possa aprire un negozio di vestiti mobile, che su chiamata venga la sera a casa vostra a mostrarvi alcuni vestiti (tipo lo chiamate e dite “devo procurarmi un vestito da sera, ho 40 anni, donna, porto questa taglia) e arrivi a casa un tizio con un piccolo campionario a vendervelo.(1)
In pratica, cioe’, rende molto facile per qualsiasi negozio avere una rete di venditori a domicilio, e la possibilita’ di avere pagamenti semplici con chiunque abbia un cellulare e si avvicini abbastanza a voi: idraulici, parrucchieri a domicilio, eccetera.
Oltre alla smaterializzazione del negozio e alla possibilita’ di portarlo a domicilio (od ovunque sia richiesto) , l’altro punto identificato e’ l’aumento di sicurezza. Come abbiamo detto, svincolarsi dal bancomat fisico per le banche diventa sempre piu’ urgente, perche’ essi sono oggetto di assalti che possono colpire migliaia di clienti alla volta, e anche il problema delle carte di credito smarrite/rubate/contraffatte e’ molto forte.
Un brusco aumento di sicurezza nei pagamenti ha effetti ancora ignoti, e soltanto un’azienda di consulenza (attualmente produce antivirus e sistemi anti-theft per cellulari, ed e’ l’unica ad avere fatti da mostrare) e’ stata capace di fornire una visione, ovvero il fatto che il “trust” nel canale impatta poco le operazioni di basso valore, ma rende piu’ frequenti le operazioni di maggior valore.
In definitiva, l’unica azienda a mostrare dei fatti ha mostrato come una diminuzione del rischio su un canale impatta prima le transazioni assicurate, che diventano meno costose. Di conseguenza, il problema non e’ se Amazon potra’ vendervi 100 euro di cose pagando in questo modo; il costo di questa operazione non cambia molto dal punto di vista di Amazon. Il problema semmai sara’ se un negozio potra’ vendervi con piu’ sicurezza (usando la carta di credito) roba normalmente assicurata, cioe’ molto costosa.
Altre societa’ di consulenza ci hanno mostrato le loro slides riguardo al possibile forecast di questi servizi (2), ma a parte pochi qualificati che menzionavano dei fatti (cioe’, gente che in passato ha fatto cose simili su larga scala e tenta di capire cosa sia successo) gli altri mi sono sembrati dei futurologi.Ora, il motivo per cui non ho fatto di questo blog un blog 100% tecnico e’ che ODIO i futurologi. E quindi non voglio diventarlo.
Voglio dire,  chi poteva prevedere l’exploit dei tablet? Alcuni futurologi potevano forse predirlo, e se mille persone predicono di tutto, dal pollo-velociraptor al download di prostitute, qualcuno ci azzecchera’, tantevvero che si vedono in giro polli ferocissimi alti due metri e mezzo. I quali attraversano la strada, inspiegabilmente.
A parte i futurologi, c’era qualcuno che poteva prevedere il successo dei tablet? Certo: Steve Jobs, per esempio. Indubbiamente la sua versione sarebbe stata di parte, e quindi piu’ che di una previsione si sarebbe parlato di visione, ma almeno poteva mostrarvi dei FATTI: “Alla Apple stiamo costruendo iPad e lo metteremo in commercio il tale giorno”. Ok, puo’ avere successo o meno, ma almeno c’e’ un cazzo di FATTO sotto. Quindi, se proprio volessi scegliere un futurologo, sceglierei chi FA le cose. Potra’ sbagliare o meno sul successo, ma almeno ha dalla sua il fatto di star FACENDO delle cose. Ha qualcosa da mostrare.Ma uno stronzo che passa la vita nei suoi vigneti in california e non sa riparare un interruttore di casa, non deve venirmi a scassare la minchia solo perche’ immagina un mondo cosi’ e cosa’. Ma che cazzo credete, che agli altri manchi l’immaginazione, o che bastino una barba , una pancia e una camicia (pessima persino per gli standard bavaresi) per prevedere il futuro?
Cosi’, deve essere chiaro che – nei limiti degli NDA che firmo – sto descrivendo cose che vedo, in alcuni casi ci sono cose che faccio, ma NON sono un “futurologo”. Posso dirvi come funzionano(3) 6-7 servizi che si integrano da noi (e quindi, ce ne saranno una trentina identici su scala della singola nazione, moltiplicato per gli altri continenti) e che usano le tecnologie che usiamo noi (e quindi lasciamo fuori altre decine di idee)  , posso dirvi come la vedono le aziende che ci si stanno buttando, ma se mi chiedete come sara’ il mondo tra dieci anni vi posso dire che PROBABILMENTE, MOLTO PROBABILMENTE ci sara’ una grossa percentuale di m-commerce , ma non e’ che ci vivi con una simile “previsione”. Almeno, io non riesco a farmi pagare per questo.Forse dovrei coltivare uva in California, o vivere in un faro al largo di Dover, usare camicie orribili, farmi crescere un barbone ed ingrassare moltissimo.E specialmente, trovare polli disposti a pagarmi per questo.

Nel frattempo, credo che vi dovrete accontentare di quello che scrivo. Non vi parlo di come il vostro cellulare fara’ il download della vostra fidanzata dalla rete, ma cosa volete, il futuro non e’ piu’ quello di una volta.

Uriel
(1) Non prendetevela con me, questo esempio viene da un tizio che evidentemente ama comprare vestiti.
(2) Si, dobbiamo sapere come gestire la capacita’. Presto potremmo trovarci nelle condizioni di avere i saldi online, o saldi pagati con sistemi di acquisto M2M, e quindi una semplice stagione dei saldi potrebbe alzare il traffico.
(3) Nei limiti dell’ NDA significa che posso menzionare tecnologie standard, roba che si studia a scuola per chi ci arriva, e che magari e’ ignota agli altri.

Moneta, possibile espressione del Comune. Non bene comune

di Andrea Fumagalli  (Quaderni di San Precario), aprile 2013

La moneta è un’invenzione umana. La moneta non cresce sugli alberi. La moneta ci dimostra che l’essere umano è un animale sociale. La moneta è socialità, è, soprattutto, relazione sociale. Una relazione sociale che oggi non è paritaria, ma che potrebbe diventarlo. La moneta è la dimostrazione dell’esistenza di una comunità, perché la moneta è frutto di un rapporto di fiducia. Ma la moneta è, soprattutto, potere. Potere di decisione, potere di arbitrio. Per questo la moneta non è un bene comune. Essa è, o meglio potrebbe essere, dovrebbe essere, un common. Ma oggi non lo è. Nell’attuale bio-capitalismo cognitivo e finanziarizzato, se una lotta deve esserci essa dovrà necessariamente essere la lotta per la moneta intesa come common. Una lotta per il “comun(e)ismo”.

La moneta ha svolto diverse funzioni nella storia dell’umanità. Esiste da subito, come il fuoco, la ruota, la scoperta dell’agricoltura. Nelle società preistoriche è mezzo di scambio e unità di conto. Mezzo di pagamento per consentire la relazione sociale dettata dall’attività di scambio per la sopravvivenza: la necessità del negotium (la dannazione del labor), in opposizione all’otium (il piacere della creatività e dell’ingegno umano). E in quanto tale, unità di misura del valore delle merci scambiate. La moneta è quindi da subito rappresentazione fenomenica del valore. E in quanto tale, espressione di potere nel momento in cui tale misura viene stabilita sulla base di una gerarchia sociale. Chi decide la “forma” della moneta? Ma soprattutto, nell’antichità come oggi, chi decide il valore della moneta?

La storia della moneta è connessa alla storia dell’umanità, dicevamo. Anticamente, sino alla formazione degli stati nazionali nel 1500 in Europa, la forma prevalente della moneta è la moneta-merce. Il valore della moneta è contenuta nel corpo stesso della moneta. La sua forma (peso) metallica (quindi fisica, sia essa rame, bronzo, argento o oro) ne indica il valore. Si attua così uno scambio tra equivalenti in valore. Un metro di stoffa che, supponiamo, abbia un valore di 10 grammi d’oro, viene direttamente scambiato con una moneta che contiene 10 grammi d’oro. Da questo punto di vista, lo scambio di moneta implica uno scambio rivale e solvibile. Quella specifica moneta di 10 grammi può essere usata solo per quello scambio, in una relazione do ut des, merce (stoffa) contro merce (metallo). La moneta è quindi una merce (bene) come tutte le altre.

Secondo Erodoto, i Lidi furono il primo popolo a introdurre l’uso di monete d’oro e d’argento e il primo a stabilire negozi per la vendita al minuto in località permanenti. Nel momento stesso in cui la moneta metallica si diffonde come mezzo di pagamento e diventa unità di conto degli scambi economici (unità di misura del valore), essa diventa anche espressione di potere. Era infatti chi emetteva la moneta (il sovrano) a determinarne il valore e a esprimere il comando economico. In questa fase della storia (euro-mediterranea), la moneta-merce implica una struttura proprietaria (come tutte le merci). La proprietà si estrinseca nel monopolio di emissione (il sovrano). Non vengono ancora agìti i diritti di signoraggio. Sarà con l’impero romano, prima con Nerone e poi con Settimio Severo, che il valore della moneta (Aureo e Denario, rispettivamente in oro e argento) tenderà a non corrispondere più esattamente alla quantità di metallo pregiato utilizzato. Sorgono così i diritti di signoraggio. Ma sarà solo con la formazione degli stati nazionali europei e il salto di paradigma tecnologico a cavallo del XV-XVI secolo che si assisterà al totale sganciamento tra il valore dichiarato della moneta e la quantità del metallo prezioso contenuto.

Il monopolio di emissione della moneta assume allora le forme di un diritto sovra-individuale e la moneta diventa variabile extra-mercato (privato), controllata a livello istituzionale e non dalla dinamica di mercato. Una volta garantita dal ruolo statuale, che opera non come agente di mercato, ma al di sopra di esso, la moneta comincia a svolgere anche la funzione di riserva di valore e misura patrimoniale. Tale passaggio di fase è, non casualmente, accompagnato dal cambiamento della forma della moneta. Dalla moneta metallica, fondata prevalentemente sull’oro, si passa alla moneta cartacea: ciò significa che il mezzo monetario non incorpora più il valore stesso che dichiara. Come abbiamo ricordato, lo scambio economico “valore contro quantità” era sempre esistito come scambio di puri e diretti equivalenti in merce, ovvero un certo ammontare d’oro contro un certo ammontare di merci. Non è un caso che buona parte dei nomi delle valute in vigore ancora oggi, o sino a poco tempo fa, derivino, etimologicamente, da unità di peso (pound in Gran Bretagna, pesetas in Spagna, lira – da libra – in molti paesi). Con la garanzia di una governance statuale (quindi istituzionale e extra-mercato privato), lo scambio economico comincia sempre più a caratterizzarsi materialmente come scambio tra un pezzo di carta, il cui valore intrinseco è poca cosa, e un certo ammontare di merce.

Ma questo pezzo di carta – la moneta cartacea o banconota – viene garantito da un potere politico superiore che obbliga all’accettazione (fiducia) e ne garantisce il valore virtuale ivi riportato. Tale passaggio genera, tramite il ruolo sempre più importante della Banca centrale, la possibilità di creare base monetaria in condizioni di monopolio.

Con la rivoluzione industriale e, nel XX secolo, con la Conferenza di Bretton Woods si assiste, così, al graduale abbandono dei sistemi monetari fondati sui metalli preziosi e sulla inconvertibilità delle monete in metalli preziosi. La crescita degli scambi economici, provocata dalla diffusione del sistema capitalistico di produzione, ha imposto l’uso di monete la cui offerta non risultasse vincolata dalla limitata disponibilità di metalli preziosi. Inoltre, l’affermarsi di talune monete, sempre più diffuse e accettate negli scambi internazionali, ha reso obsoleto il ricorso ai metalli preziosi per regolare tali scambi. Infine, l’affermazione del biglietto di banca e di altre forme di pagamento svincolate dall’uso di metalli preziosi, si spiega con la praticità dei sistemi di pagamento che non obbligano a trasferire ingenti quantità di pesante metallo prezioso.

Oggi, dopo la fine di Bretton Woods, assistiamo alla completa smaterializzazione della moneta. Il suo valore, convenzionalmente fissato nel 1944 a Bretton Woods dalla parità fissa con l’oro nel rapporto di 35$ per oncia d’oro, è decaduto. Da moneta “merce” e moneta “oro” si passa alla moneta come “puro segno” (Marx), passaggio che, grazie al processo di finanziarizzazione, ha di fatto ridotto il peso dei diritti di signoraggio e anche la possibilità da parte delle Banche Centrali di controllare in toto la massa monetaria in circolazione e il moltiplicatore creditizio e finanziario che ne consegue.

La moneta, in questo modo, si smaterializza del tutto. Oggi la moneta non è più una merce o un bene. Non esiste più un’unità di misura del valore della moneta, come il metro per la lunghezza o il chilogrammo per il peso. A prescindere dal fatto che esistono ancora i monopoli di emissione e i diritti di signoraggio, a prescindere dalla struttura proprietaria, in quanto non più bene, la moneta non può neanche essere definita bene comune. Con la fine degli accordi di Bretton Woods, il valore della moneta non è più determinato esclusivamente da chi la emette. La sovranità monetaria (nazionale o sovranazionale, che sia), la cui governance è il compito della Banca centrale, tende a perdere sempre più significato.

Sino alla crisi del fordismo, l’istituto della Banca centrale ha avutoil compito di esercitare un controllo puntuale e diretto sulla quantità di banconote e monete coniate dalla Zecca nazionale. Ma il 95% della moneta circolante è oggi erogato da banche private nella forma di prestiti o attività speculative; su questa quota della moneta circolante la Banca centrale ha solo un controllo molto indiretto tramite l’imposizione della riserva obbligatoria sull’ammontare dei depositi. Ciò significa che, nonostante la Banca centrale possa unilateralmente e autonomamente fissare i tassi d’interesse e imporre una riserva obbligatoria alle banche, la quantità di moneta in circolazione è sempre meno controllabile dalla stessa Banca centrale.

In un sistema capitalistico che si basa su un’economia finanziaria di produzione, la quantità di moneta esistente viene endogenamente determinata dal livello di attività economica che si registra e dall’evoluzione delle convenzioni finanziarie che regolano il mercato internazionale della finanza e delle valute. La Banca centrale può solo cercare di aumentare o di ridurre la massa monetaria circolante, ma nulla più. Tale possibilità viene oggi ulteriormente ridotta dal nuovo ruolo che hanno assunto i mercati finanziari, sia nel finanziare l’attività di investimento (tramite le plusvalenze generate), sia come creatori di titoli altamente liquidi (definita near money, quasi moneta).

Di fatto, in modo paradossale, i poteri discrezionali delle Banche centrali sono tanto più diminuiti quanto più esse stesse sono diventate istituzioni politicamente indipendenti. Di conseguenza, i poteri gestionali del settore bancario e, tramite la regolazione dei tassi d’interesse, dell’intero sistema economico della Banca centrale sono sempre più ancillari alle dinamiche che si svolgono sui mercati finanziari e quindi sempre più dipendenti dalle oligarchie che li dominano.

Ciò significa che nel biocapitalismo cognitivo, la moneta e la determinazione del suo valore non è più sotto il controllo della Banca Centrale, cioè dell’istituto che, formalmente, la emette. Nel momento stesso in cui la moneta è pura moneta segno, essa sfugge a ogni controllo pubblico. La moneta perde lo stato di “bene di proprietà pubblica”. Il suo valore viene determinato di volta in volta dall’operare dell’attività speculativa dei mercati finanziari. Le sue funzioni di mezzo di pagamento e unità di conto (misura del valore), nonché di riserva di valore e di strumento di finanziamento dell’attività di accumulazione / valorizzazione, sfuggono a qualsiasi controllo. Nel momento in cui la sua quantità e le modalità di circolazione vengono determinate dalle convenzioni che si determinano sui mercati finanziari,sempre più concentrati, la moneta è ostaggio delle aspettative che le oligarchie (o meglio, la dittatura delle oligarchie) dei mercati finanziari di volta in volta è in grado di esercitare. Oggi, possiamo affermare che la creazione di moneta-finanza è esatta espressione del comunismo del capitale. Ne è riprova il fatto che le scelte statuali di politica monetaria sono in funzioni della dinamica finanziaria. Gli stessi tassi d’interessi non sono più controllabili in toto dalla politica monetaria.

La moneta contemporanea è, dunque, rappresentazione del biopotere finanziario, in quanto il suo valore è determinato dalle convenzioni finanziarie che la governance dell’espropriazione del comune è, di volta in volta, a secondo delle condizioni, in grado di imporre.

Ma proprio per questo il comune, inteso come non proprietà, potrà, in futuro, rappresentare un contropotere monetario. A tal fine, diventa sempre più imprescindibile attivarsi nella costruzione di circuiti finanziari alternativi non riconducibili alla legge dei poteri forti finanziari, oggi egemoni. Pensare di poter regolamentare i mercati finanziari per ricondurli sotto un controllo pubblico è pura illusione. La sfida va portata al massimo livello della governance finanziaria attuale. E questa sfida genera la necessità di riappropriarsi della moneta non come bene comune ma, appunto, come common, ovvero come espressione e misura del valore di quella cooperazione sociale o general intellect, che oggi viene espropriata dal divenire rendita dei profitti e soggetta alla misura (variabile) dettata dai rapporti di forza imposti dal ricatto dei mercati finanziari.

Come il reddito di base è la forma di remunerazione del comune, esito dell’agire rivendicativo-conflittuale del lavoro vivo precario, così, oggi più che mai, la moneta può essere espressione e misura di questo stesso comune (cooperazione sociale e general intellect), contropotere al comunismo, selettivo, iniquo, gerarchico del capitalismo finanziario.

È ora che i precari comincino a immaginare anche forme di autogestione finanziaria.

NOTE

1. Cfr. Erodoto I,94. Le prime monete erano fatte di elettro, una lega di oro e argento che si realizzava già in natura, ma che era ulteriormente falsificata
dai Lidi con altra aggiunta di argento e anche rame. Secondo le ricerche di numismatica antica, la moneta lidia portava l’effige di un leone con un raggio di sole, che rappresentava il re. Secondo Erodoto, fu il re Aliatte a introdurre le prime monete, pratica che si diffuse sotto il regno di suo figlio Creso, che divenne, non casualmente, sinonimo di ricchezza. Vedi anche M. Cowell, K. Hyne, “Scientific Examination of the Lydian Precious Metal Coinages”, in A. Ramage, P. Craddock (eds.), King Croesus’ Gold: excavations at Sardis and the history of gold refining (Cambidge, MA: Harvard University Press, 2000): 169-174.

2. Con la riforma monetaria di Settimio Severo (193-211 d.C.) si può parlare di vero e proprio signoraggio: questo imperatore dimezzò la quantità di metallo prezioso contenuto nelle monete, mentre lasciò invariato il valore
nominale.

3. Le valute che non fanno riferimento a unità di peso prendono, solitamente, il nome dal sovrano (popolo) che le emette (ad esempio, il Franco). Forse si potrebbe (ironicamente) dire lo stesso per quanto riguarda la nostra attuale moneta, l’Euro, espressione del nome del nostro attuale sovrano, l’Europa delle monete (cfr. L. Berti, A.Fumagalli, L’anti-europa delle monete, Roma: Manifestolibri, 1992).

4. Il 15 agosto 1971, a Camp David, Richard Nixon, sospese la convertibilità del dollaro in oro, in quanto, con le crescenti richieste di conversione in oro, le riserve americane si stavano sempre più assottigliando.

5. Lo scambio di moneta (apertura di un rapporto di debito e credito) non implica infatti lo scambio dei diritti di proprietà. Lo scambio di moneta non è solvibile. La proprietà della moneta legale è proprietà statuale, o meglio, della Banca centrale che ha il monopolio di emissione. Tanto è vero che la distruzione di una banconota è un reato, anche se la banconota è privatamente posseduta, in quanto distruzione di un bene di proprietà altrui (a differenza di un bene privato).

6. Al riguardo, sono in corso alcuni esperimenti che cercano di creare un circuito finanziario alternativo. Basti pensare alla proposta delle monete complementari in fase di definizione presso il comune di Nantes (cfr. M. Amato, “La moneta municipale: una strada contro la stretta creditizia”, Altra finanza – blog di Linkiesta 16 mag. 2012, <http://www.linkiesta.it/blogs/altra-finanza/la-moneta-locale-una-strada-contro-la-stretta-creditizia>) oppure in Italia cfr.”Moneta complementare: lo stato dell’arte in italia”, redazionale del sito Monetacomplementare.org, <http://www.monetacomplementare.org/1/monetacomplementare_lo_stato_dell_arte_in_italia_745602.htm
l>). Su questo tema ci ripromettiamo di tornare sul nr. 5 dei Quaderni di San Precario.

Finanziare i sussidi mediante moneta complementare

da Mainstream, 25 aprile 2013

Riceviamo e volentieri pubblichiamo il seguente contributo di Guido Ortona, Professore Ordinario di Politica Economica presso l’Università del Piemonte Orientale
(M.B.)

Vorrei sottoporre all’attenzione di coloro che sono interessati la proposta che l’Italia provveda al soccorso dei cittadini più bisognosi mediante la stampa di moneta. Prego il lettore di prendere sul serio la frase “sottoporre all’attenzione”: è possibile che la proposta sia assurda, o che non lo sia ma ci siano ostacoli molto seri, o che sia inopportuna, e in generale che abbia dei difetti che io non ho visto. Penso però che valga comunque la pena di discuterne, eventualmente per decidere che è impraticabile. Qui di seguito i dettagli.

L’Italia dovrebbe stampare una moneta parallela all’euro, chiamiamola lira, da usarsi per distribuire un sussidio di disoccupazione generalizzato. Vari interventi, su cui non mi dilungo,  suggeriscono che il valore complessivo dovrebbe essere dell’ordine di 10 miliardi di Euri all’anno. Il tasso nominale di cambio più comodo sarebbe ovviamente 1 lira = 1 Euro; la lira però non dovrebbe essere convertibile in euro né in altre valute, né dare origine a depositi fruttiferi. Inoltre non dovrebbe essere utilizzabile per pagare contributi fiscali o previdenziali (dato che altrimenti si tradurrebbe in un’altra manovra, e cioè l’emissione di euro).
E’ appena il caso di ricordare che 10 miliardi costituiscono circa due terzi dell’1% del pil. Il pericolo che la politica qui suggerita abbia seri effetti inflazionistici è quindi minuscolo, e certamente risibile di fronte al ben più grave pericolo di deflazione causata dalla costante diminuzione della domanda interna.
Che corso dovrebbe avere la nuova valuta?  Ci sono tre possibilità. La prima è che il corso sia puramente volontario. Le varie esperienze di monete locali che si stanno sperimentando un po’ dovunque sono incoraggianti, ma credo che l’accettazione volontaria non sia sufficiente per uno schema così ampio e non radicato in una specifica realtà locale. La seconda è che il corso sia forzoso. Non vedo obiezioni a questa possibilità, se non il malcontento che potrebbe generare, anche se probabilmente solo inizialmente, e possibili ostacoli giuridici nazionali o più facilmente europei. La terza possibilità, intermedia fra le due, mi pare quindi la migliore. La moneta dovrebbe  essere utilizzabile solo per due usi specifici, e cioè 1) l’acquisto di beni, sia di consumo corrente, che durevole, che di investimento presso venditori disponibili ad accettarla; e 2) il pagamento delle spese di personale da parte dei medesimi, limitatamente a una data quota; diciamo che ogni dipendente potrebbe essere pagato in lire solo per il 25% della sua retribuzione netta. Il corso della moneta sarebbe quindi garantito semplicemente dal fatto che non ci sarebbe motivo di non accettarla: i venditori sarebbero indotti ad accettarla dalla concorrenza fra di essi e dal fatto che possono utilizzarla per pagare il personale, e il personale dalla possibilità di utilizzarla per acquisti correnti. Un’occhiata ai dati suggerisce che questa strada è praticabile: una stima molto conservatrice dei redditi netti dei soli addetti al commercio è di circa 45 miliardi, quindi dieci miliardi sarebbero meno di un quarto dei loro redditi, una cifra sicuramente inferiore a quanto speso in consumi correnti. Ove necessario, ma non dovrebbe esserlo, l’accettazione della Lira potrebbe eventualmente essere incentivata garantendo a chi  riceve parte del salario o dello stipendio in Lire un (piccolo) sconto fiscale determinato dal maggior gettito conseguente all’effetto espansivo della domanda aggiuntiva che si viene a creare.
Vorrei sottolineare che considero quanto qui suggerito un palliativo per la crisi sociale italiana assai più che una soluzione. Credo (e mi pare che ormai siamo in molti a crederlo) che l’Italia sarà presto costretta a lasciare l’euro e/o a denunciare il debito pubblico; il problema è se lo faremo prima o dopo avere subito una macelleria sociale di tipo greco. In entrambi i casi si renderanno necessarie (e possibili) politiche molto più impegnative.

Guido Ortona

Moneta del comune e reddito sociale garantito

di LAURENT BARONIAN e CARLO VERCELLONE (Uninomade), 17 aprile 2013

L’ambizione di quest’articolo è quella di gettare le basi per una concezione della moneta del comune a partire da un’interrogazione omessa dalla teoria economica dei beni comuni.

Quali sono, dunque, le condizioni capaci di attenuare il vincolo monetario al rapporto salariale e di favorire così lo sviluppo di forme di produzione alternative ai principi d’organizzazione sia del pubblico che del privato? Questa domanda richiede d’introdurre nella teoria del Comune il ruolo strutturante della moneta nei rapporti capitale-lavoro.

L’esame del rapporto tra moneta e comune necessita, di conseguenza, di partire da una critica della teoria dei beni comuni dalla quale la moneta, come il lavoro, sono curiosamente assenti. La ragione di quest’assenza si trova nel fatto che questa concezione naturalista dei beni comuni accetta implicitamente uno dei postulati fondatori della teoria economica standard, ovvero la neutralità della moneta, concepita come un semplice strumento tecnico che facilita gli scambi, e non come la cristallizzazione di un rapporto sociale di potere.

Su questa base, si tratterà di caratterizzare un approccio dinamico del comune al singolare nel quale la questione della moneta e delle mutazioni della divisione del lavoro occupa un posto centrale. Questo approccio fondato sulla triade lavoro-moneta-plusvalore servirà allora egualmente da filo conduttore per rianimare la controversia che aveva opposto Marx ai proudhoniani, precursori di un approccio della moneta come comune.

Infine, fonderemo il nostro ragionamento sulle teorie marxiane del circuito per mostrare che il carattere specificamente monetario del rapporto capitale-lavoro costituisce l’unico punto di partenza adeguato per una riflessione sulla moneta del comune. Questa riflessione farà emergere perché la nozione di reddito sociale garantito corrisponde ad un’istituzione del comune volta a rendere la creazione monetaria endogena non solo al capitale ma anche alla riproduzione autonoma della forza lavoro.

1. Lavoro e moneta : per una critica della teoria economica dei beni comuni

Il capitalismo si presenta come un’economia monetaria di produzione e di sfruttamento del lavoro. Pertanto, le forme di regolazione della moneta costruite attorno al funzionamento del denaro in quanto capitale costituiscono i pilastri istituzionali dell’accumulazione e della riproduzione della scissione costitutiva della società capitalista: il rapporto capitale-lavoro.

Quindi, se non si vuole pensare il comune come una semplice enclave, ma come il fondamento di una formazione sociale alternativa al capitale, porre la questione dello statuto e del modo di regolazione della moneta diventa inevitabile. La sua importanza risulta dal doppio carattere della moneta: allo stesso tempo ricchezza astratta, oggetto di appropriazione privata e forma di socializzazione dell’attività produttiva degli individui. Sotto vari aspetti, la moneta rientra nel campo di ciò che potremmo qualificare come il Comune dei Comuni. Sono infatti le forme di governance intessute attorno alla moneta (modalità di creazione e di accesso, fondamenti del suo valore, ecc.) che condizionano in modo determinante il tipo di legame sociale, così come i meccanismi che reggono l’allocazione delle risorse, permettendo di rispondere alle domande fondamentali dell’economia politica, ovvero: chi decide che cosa bisogna produrre? In che modo? Per quali finalità sociali?

Su queste basi, il nostro approccio del comune al singolare si differenzia dunque profondamente da quello della teoria economica dei beni comuni, nel senso in cui, in quest’ultima, il comune non può essere pensato che nei termini di un’alternativa locale e marginale rispetto alle logiche dominanti dello Stato e del mercato, del pubblico e del privato.

La concezione dei beni comuni di Hess e Ostrom (Ostrom, 1990, Hess e Ostrom, 2007) rimane infatti per vari aspetti nel solco di due approcci maggiori della teoria economica standard. Da una parte, in continuità con la teoria samuelsoniana dei beni collettivi e dei fallimenti del mercato, tale concezione resta centrata sui criteri di rivalità e di escludibilità, per caratterizzare la natura dei diversi beni (Laval, 2011). La novità consiste nell’introdurre, in aggiunta ai beni pubblici (non rivali e non escludibili) e ai beni privati puri, una nuova categoria che associa rivalità e non escludibilità, come, ad esempio, i comuni fondiari. D’altra parte, nel prolungamento della teoria dei diritti di proprietà efficaci di North, questa concezione si propone di mostrare che per questi tipi di beni possono esistere forme di governance e di proprietà distinte dal pubblico e dal privato. Nonostante questo sforzo innovatore, la teoria economica dei beni comuni non si emancipa veramente da una visione secondo cui esisterebbe una sorta di demarcazione spontanea, in funzione della natura dei beni, tra le rispettive sfere del pubblico, del privato e del comune. Anche quando si afferma, con Ostrom ad esempio, che il comune è socialmente istituito da regole e forme di governance ben precise, si considera sempre che soltanto una categoria ristretta di beni (fondiari e informazionali[1]) ha veramente vocazione, date le sue qualità intrinseche, ad accedere a questo modo di governance.

La riflessione sulla natura di questi beni e risorse cancella anche, in modo significativo, ogni analisi reale sul lavoro che ne assicura la produzione o la riproduzione.

Infatti, non solo nessun bene è destinato, per le sue qualità intrinseche, a diventare oggetto di un modo di gestione in particolare, ma le teorie dei beni collettivi e comuni trascurano totalmente le forme di produzione che stanno all’origine di questi beni. Soprattutto, esse non rimettono mai in questione l’egemonia del modo di produzione “privato”, considerando di fatto il pubblico come un rimedio ai fallimenti del mercato ed il comune come un’eccezione. In questo senso, la teoria dei beni comuni si situa al confine tra pubblico e privato e non propone un paradigma alternativo ai fondamenti neoclassici della rappresentazione dell’economia.

Nel quadro della teoria dei beni collettivi, di cui la teoria dei beni comuni si rivendica come uno dei prolungamenti (Hess e Ostrom, 2007), la moneta conserva le funzioni neutre alle quali la teoria neoclassica la condanna. Il fatto è che qui la moneta non è mai colta come espressione di un rapporto sociale di produzione nel quale le attività del lavoro accedono alla loro esistenza sociale solo per mezzo dello scambio delle merci. Essa è concepita unicamente come strumento di scambio, tutt’al più come mezzo per saldare un debito (cartalismo).

Insomma, la questione della moneta e quella dello statuto della forza lavoro, in quanto merci fittizie, non sono mai affrontate. E quando in alcuni lavori, che s’ispirano parzialmente al contributo teorico di Ostrom e di Hess, viene introdotta la moneta, ciò avviene tutt’al più nei termini di una moneta complementare o alternativa a livello di una località, di una comunità, di una rete o di una categoria di beni specifici[2].

Non si propone mai alcuna riflessione sulla relazione tra la moneta e la natura dei rapporti sociali di produzione da cui dipende, tuttavia, a livello macroeconomico e sociale, la gerarchia e l’articolazione delle sfere del privato, del pubblico e del comune. Lo stesso avviene riguardo alle mutazioni del lavoro legate alla crescita della sua dimensione cognitiva e relazionale, malgrado il ruolo crescente di tali mutazioni nella produzione del comune, attraverso i beni informazionali e le produzioni dell’uomo attraverso l’uomo (Hardt e Negri, 2010).

Dobbiamo pensare il comune al singolare[3] come una costruzione sociale e una forma d’organizzazione della produzione in grado di divenire dominante. Non si deve partire dal contenuto dei beni prodotti, ma dalle forme del lavoro produttore di questi beni. Sono infatti i modi di cooperazione del lavoro collettivo che producono il comune che si tratta di liberare dalla morsa della formula generale del capitale : D e D’ non possono più formare il punto di partenza ed il punto d’arrivo della produzione del Comune.

Non esiste infatti alcun bene che, in virtù di caratteristiche naturali proprie legate al suo valore d’uso, non sia destinato ipso facto, nel senso della teoria economica convenzionale, ad una soltanto delle sfere dell’economia (il pubblico, il privato o ancora, il comune) e ad una forma corrispondente di cooperazione e di appropriazione del prodotto del lavoro.

Il comune può concernere ogni tipo di bene[4], anche se ciò non significa affatto che si debbano trascurare i problemi particolari di regolazione che si dànno nella gestione di un dato bene. Tuttavia, è l’approccio stesso della teoria dei beni comuni, il quale procede dalla natura intrinseca dei beni al loro modo di gestione (pubblico, privato o comune), che deve essere invertito.

Si tratta di partire dalle mutazioni del lavoro, per pervenire alle caratteristiche dei prodotti, sapendo che il loro valore d’uso ed i bisogni che debbono soddisfare non hanno niente di naturale, ma sono il risultato storico dei rapporti sociali che si intrecciano attorno alle forme d’organizzazione della produzione e del consumo.

In breve, è il modo di cooperazione sociale del lavoro, la sua capacità di organizzarsi in modo alternativo rispetto alle logiche del capitale e dello Stato, che determina in ultima istanza la propensione di una serie di beni o di risorse ad essere gestita secondo i principi del comune.

Ora, come vedremo, questa capacità d’autorganizzazione del lavoro che è il presupposto del comune dipende da due fattori strettamente legati e sistematicamente evacuati dalle teorie dei beni comuni:

a)              dai meccanismi di regolazione della moneta e di accesso ad un reddito in grado di rafforzare oppure di attenuare il vincolo monetario al rapporto salariale, condizionando la possibilità di sviluppare forme di cooperazione produttiva alternative al lavoro salariato.

b)             dalla natura dei rapporti antagonisti di sapere e di potere che strutturano, in un dato momento, il livello di sviluppo della divisione del lavoro e le modalità della sussunzione del lavoro al capitale (formale, reale, general intellect).

2. Marx critico di Proudhon: prima polemica sulla moneta del comune

Alcuni di questi elementi metodologici che consistono nell’articolare la moneta con la divisione del lavoro si trovavano già nelle critiche che Karl Marx rivolgeva alla proposta di Proudhon di creare una moneta di credito gratuita formulata in ore di lavoro. La riforma di Proudhon aveva l’ambizione d’indebolire i rapporti di produzione dominanti, aumentando il finanziamento della produzione mercantile artigianale. L’emissione di moneta-lavoro da parte di una Banca popolare volgeva infatti nella direzione di attribuire immediatamente al lavoro del produttore individuale la sua qualità di lavoro sociale. Il fatto è che Proudhon ed i suoi discepoli deploravano il privilegio che i metalli preziosi possedevano nella circolazione delle merci. Erano convinti che i tassi d’interesse elevati, in particolare in periodo di crisi, non fossero dovuti che ad una specie di monopolio dei detentori di denaro metallico sui mezzi di pagamento della società. Permettendo al produttore di scambiare direttamente il prodotto del suo lavoro contro il suo equivalente monetario espresso in ore di lavoro, si sarebbero abolite le pretese dei detentori di moneta, fino a che il tasso d’interesse non fosse crollato fino allo zero. Non si trattava dunque solamente di realizzare l’eutanasia del rentier, come per Keynes, ma di permettere al produttore di riscuotere l’integralità del prodotto del suo lavoro sotto forma di buoni di scambio. Così, lavoro e moneta del Comune sarebbero stati una cosa sola, poiché tutti i prodotti del lavoro privato avrebbero fatto vece di moneta.

In realtà, la riforma immaginata da Proudhon poggiava su di un modo di produzione mercantile semplice, allorquando il progresso della divisione del lavoro e l’estensione del modo capitalistico di produzione tendevano a marginalizzarla (Dardot e Laval, 2012). Così, l’introduzione del credito gratuito avanzato in moneta-lavoro non avrebbe potuto concernere che una piccola frazione di popolazione attiva, che si sarebbe riprodotta ai margini dell’egemonia crescente della produzione capitalistica. La riforma lasciava completamente intatto il fondamento del potere monetario del capitale sul lavoro, ovvero la logica sistemica attraverso la quale il lavoro è obbligato a «mettere in vendita, come merce, la sua stessa forza-lavoro, che esiste soltanto nella sua corporeità vivente» (Marx, 1994, vol. I, p. 201). In questo quadro, il progetto mutualista del credito gratuito avrebbe piuttosto rischiato di spianare la strada ad operazioni di recupero e di divisione politica, come quella preconizzata da Napoleone III al momento dell’instaurazione delle casse di risparmio popolare (Lucarelli, 2013).

Per di più, secondo Marx, nella misura in cui l’emissione di una moneta-lavoro tornava a conferire a tutte le merci qualità di moneta, essa negava ben più del potere finanziario che risultava dal monopolio dei metalli preziosi e da quello del capitale sul lavoro dell’operaio: negava l’essenza stessa della moneta. Perché che cos’è la moneta, se non il rappresentante oggettivo del valore e quindi del tempo di lavoro sociale coagulato nella merce? Se gli individui scambiano i prodotti del loro lavoro contro moneta, ciò avviene proprio perché essi non producono immediatamente del lavoro sociale. Perciò, nelle condizioni della produzione mercantile, la qualità del lavoro sociale s’incarna necessariamente in una forma oggettiva di lavoro, merce o moneta.

Ora, non soltanto una moneta misurata in ore di lavoro sopprime la differenza – immanente all’economia di mercato – tra prezzo e valore, e dunque suppone un equilibrio tra offerta e domanda, tra produzione e consumo. Non soltanto, diversamente dalla moneta classica, essa ignora lo sviluppo della produttività del lavoro che farebbe sì che si apprezzasse costantemente il suo potere d’acquisto e che continuamente si appesantirebbero gli oneri finanziari dei debitori. Essa nega, più fondamentalmente, il carattere particolare dell’organizzazione del lavoro sociale nella produzione mercantile, nella quale il lavoro non si scambia mai direttamente con il lavoro, ma dove le attività produttive si combinano tra di esse indirettamente attraverso lo scambio dei prodotti del lavoro come merci, e accedono così all’esistenza del lavoro sociale (Marx, 1980).

É in questo senso che Marx qualificava come utopica una riforma che tentasse d’abolire i caratteri fondamentali della produzione mercantile, mentre conservava la forma di scambio corrispondente a questo modo di produzione. Questa riforma consisteva infatti nell’evitare gli inconvenienti di un modo di produzione basato sullo scambio monetario, semplicemente modificando lo strumento di scambio e l’unità di misura delle merci. A questo punto, la riforma avrebbe toccato solo una frazione poco considerevole della produzione sociale e ne avrebbero beneficiato solo un piccolo numero di produttori indipendenti; inoltre la Banca si sarebbe interposta nei loro mutui scambi comprando e vendendo i loro prodotti contro moneta-lavoro. Oppure la riforma avrebbe riguardato la totalità degli scambi sociali, nel qual caso essa avrebbe necessitato di una trasformazione subitanea dei rapporti di produzione esistenti. «Se ogni trasformazione in tal senso della circolazione stessa presupponesse a sua volta trasformazioni delle altre condizioni di produzione e rivolgimenti sociali, crollerebbe naturalmente a priori questa dottrina, le cui artificiose proposte in materia di circolazione mirano da un lato ad evitare il carattere violento delle trasformazioni, dall’altro a fare di queste trasformazioni stesse non un presupposto, ma viceversa un risultato graduale della trasformazione della circolazione» (K. Marx, 1968, vol. I, p. 52). In realtà, una riforma monetaria di questo tipo farebbe della banca il compratore ed il venditore universali delle merci prodotte. Attraverso la sua politica d’emissione, sarebbe la banca, infatti, che deciderebbe a quali prodotti del lavoro attribuire la qualità di lavoro sociale, funzione che equivarrebbe a controllare la produzione stessa che sta all’origine di tali beni. Essa sarebbe così, come un gosplan, «il governo dispotico della produzione e l’amministratrice della distribuzione» (K. Marx, 1968, vol. I, p. 95).

Per tornare alla moneta del Comune, essa si distinguerebbe dai buoni di lavoro dei proudhoniani, circolando all’interno non di una comunità di produttori indipendenti, ma di una comunità di produttori che lavorano per cooperazione. In queste condizioni la sua emissione non potrebbe sconvolgere tanto i rapporti di produzione attuali, quanto velocizzare le mutazioni che intervengono nel quadro stesso di questi rapporti di produzione. In più, in quanto politica, cioè a dire in quanto azione cosciente e deliberata, l’emissione di una moneta del Comune significherebbe che la società tende a non sottomettersi più alla produzione sociale come fatalità estranea e indipendente dagli individui (fatalità che si manifesta con forza in particolare nelle crisi), ma al contrario tende a subordinare la produzione agli «individui e da essi controllata come loro patrimonio comune» (K. Marx, 1968, vol. I, p. 100). Tuttavia questo rovesciamento dei rapporti sconvolgerebbe la natura stessa delle istituzioni bancarie della società. In queste condizioni, infatti, la moneta del Comune non sarebbe più che una unità di conto emessa da un «ministero del bilancio della società lavoratrice collettiva» (K. Marx, 1968, vol. I, p. 95) e perderebbe la sua qualità monetaria di rappresentante universale del valore delle merci. In queste condizioni, l’auspicio di Proudhon sarebbe esaudito poiché il lavoro stesso diverrebbe moneta universale, ma a condizione che sia «fin dal principio non lavoro particolare, ma un lavoro generale», cioè a dire, che fosse posto «come un elemento della produzione generale» (K. Marx, 1968, vol. I, p. 116).

In breve, la critica marxiana al progetto proudhoniano, come lo dimostrerà anche il suo atteggiamento nei confronti della Comune di Parigi, non tiene ad un’opposizione statalista e centralizzatrice verso le forme mutualiste d’organizzazione, ma al pericolo che avrebbe costituito il loro incastro subalterno nelle logiche dominanti del capitale e dello Stato.

La questione cruciale per Marx stava nella maniera in cui, a differenza di un modo di produzione mercantile semplice in cui la moneta è un puro mezzo di scambio, il capitalismo costringe il lavoro nelle istituzioni di un’economia monetaria di produzione.

La logica del funzionamento del capitalismo è, infatti, molto diversa da quella incarnata dalla formula merce-denaro-merce (M-D-M) alla quale implicitamente rinvia il progetto di Proudhon. Certo, il circuito M-D-M continua a giocare un ruolo cruciale nella riproduzione allargata delle condizioni economiche e sociali dell’accumulazione del capitale. Il suo ruolo però non ha più nulla a che vedere con la figura del produttore indipendente, ma riguarda essenzialmente il circuito della riproduzione della forza lavoro, dove per M-D-M’ bisogna intendere la sequenza forza lavoro-salario-beni di consumo. In questo quadro, la riproduzione della forza lavoro è subordinata, tanto nella sua forma economica quanto nella sua esistenza concreta, alla formula generale del capitale (D-M-D’).

Di questa controversia tra Marx e Proudhon possiamo trarre ancora oggi un insegnamento importante. Solo partendo dall’asimmetria monetaria che costituisce il rapporto salariale, asimmetria dove la legge del valore non è altro che una variabile dipendente della legge del plusvalore, sarà allora possibile concepire l’idea di una moneta del comune: una moneta che non riposa sull’utopia dell’uguaglianza dei lavori privati, ma sulla messa in causa del vincolo monetario che a livello sociale definisce, nel senso di Marx, la sussunzione formale della forza lavoro al capitale e la norma del rapporto salariale.

3.              Dalla teoria del circuito alla problematica del comune

Il contributo della teoria del circuito permette di rinviare il rapporto capitale-lavoro all’asimmetria che oppone due classi sociali nelle condizioni del loro accesso alla moneta[5].

Da una parte, la classe dei capitalisti che, grazie alla proprietà dei mezzi di produzione e al controllo dei meccanismi della creazione monetaria, può accedere alla moneta indipendentemente dal suo lavoro e determinare il volume così come l’orientamento della produzione. Nel senso di Kaldor e Kalecki, questa classe guadagna ciò che spende e può controllare, di conseguenza, collettivamente, i meccanismi del suo indebitamento. Dall’altra parte, per accedere alla moneta e dunque ad un reddito, la classe dei salariati è costretta a vendere la sua forza-lavoro e a trovare un lavoro salariato presso la classe dei capitalisti. Essa dunque non spende che ciò che guadagna, e questo rapporto al reddito determina i limiti del suo accesso al credito e al consumo. Questo rapporto spiega anche il raddoppiarsi del potere del capitale sul lavoro che risulta dall’indebitamento salariale, anche nel caso di un’attenuazione speculativa delle condizioni d’accesso al credito di tipo subprime.

Notiamo che, da questo punto di vista, il principale “salto mortale” della merce è quello che deve operare la forza lavoro. Essendo costretta nel circuito del doppio mulinello la sequenza M-D (vendita della forza lavoroàsalario) da cui dipende l’accesso alla moneta della forza lavoro è, in prima istanza, una variabile che dipende dalle aspettative dei capitalisti riguardo al volume della produzione, e dunque dall’occupazione, ritenuti redditizi.

Ne risulta, da questo rapporto specifico all’economia monetaria di produzione, che la funzione di riserva di valore domina le condizioni della circolazione monetaria. Questa permette l’instaurazione della logica del plusvalore, in cui «la circolazione del denaro considerata come capitale è fine a se stessa» (K. Marx, 1994, Vol. I, 1994, p. 185). Come espresso chiaramente dalla formula generale del capitale di Marx (D-M-D’), la valorizzazione del capitale è un processo che non conosce limiti, nella misura in cui il suo obiettivo non è il valore d’uso, ma l’accumulazione della ricchezza astratta rappresentata dal denaro.

La merce e la produzione non sono, per il capitale, che dei semplici mezzi per raggiungere questo scopo, vale a dire l’accumulazione della moneta per se stessa, al fine d’aumentare senza sosta il potere di comando che la moneta gli conferisce sulla società e sul lavoro permettendogli, appunto, di appropriarsi in modo diretto o indiretto del plusvalore.

Va da sé che la riproduzione allargata del capitale deve fronteggiare un insieme di vincoli mercantili che pesano sullo sviluppo della produzione sociale. A dire il vero, il capitalismo ha sempre cercato, per mezzo del suo sistema di moneta e di credito, di oltrepassare i limiti che la legge del valore impone alla produzione del plusvalore. Già la lettera di cambio, autorizzando il trasferimento della merce nelle mani del compratore prima del suo regolamento effettivo in denaro, fu la molla principale di tutte le grandi crisi che hanno scosso l’industria inglese durante la prima parte del XIX° secolo. Ma è soprattutto dalla fine del sistema del tallone oro, che l’emissione monetaria non è più condizionata dall’ammontare delle riserve metalliche disponibili nelle casseforti delle Banche centrali e sembra dipendere interamente dalla domanda di credito del capitale. Ora, la creazione monetaria sotto forma di depositi a disposizione dei capitalisti consiste di fatto a prevalidare (de Brunhoff, 1979) una produzione futura, ma a condizione della chiusura del circuito monetario, il quale suppone esso stesso che il plusvalore prodotto sia veramente stato realizzato. Senza dubbio, la moneta è stata creata ex nihilo come equivalente di merci virtuali, ma essa non prova la sua esistenza d’equivalente generale, se non per mezzo della vendita effettiva delle merci prodotte. Si tratta certamente di una moneta endogena, ma nella misura in cui la sua creazione dipende dalla realizzazione del plusvalore, la moneta bancaria è endogena al capitale. Attraverso il monopolio della creazione monetaria, il capitale, come formulato da Robinson e Eatwell, «diventa padrone di risorse grazie alle quali i capitalisti diventano i padroni del lavoro» (Robinson e Eatwell, 1976, p. 21).

Così, il potere di controllo sulla creazione monetaria è, in ultima istanza, il fattore chiave che conferisce il potere sul lavoro e struttura i rapporti sociali, e questo non solo perché esso conduce alla proprietà dei mezzi di produzione, cioè a questo «dominium sulle cose [che] è anche un imperium sugli esseri umani» (Cohen 1927, p. 12. Citato da Gagnon 2011, p. 205). Si tratta anche e soprattutto del fatto che il dominium sulla moneta condensa e sintetizza questo potere (imperium) senza dover neppure passare attraverso la mediazione formale della proprietà delle cose. E questa essenza del potere della moneta trova il suo sviluppo concreto più ricco, diventa verità pratica, come direbbe Marx, nella congiuntura storica attuale, dove il potere della finanza va di pari passo con una smaterializzazione crescente dei mezzi di produzione sempre più incarnati nel corpo vivo della forza lavoro, cosa che – attraverso un autentico ossimoro – viene chiamato il capitale immateriale o intellettuale.

Benché le teorie del circuito mettano in evidenza l’asimmetria monetaria che struttura la riproduzione del capitalismo, esse tendono a privilegiare una visione statica e oggettivista dei vincoli monetari e mercantiliche condizionano la chiusura del circuito. Da una parte, i vincoli che pesano sulla realizzazione del plusvalore per ciò che concerne l’accumulazione del capitale; dall’altra, i vincoli che pesano sulla trasformazione della forza lavoro in salario, trasformazione la cui realizzazione è una variabile dipendente delle aspettative dei capitalisti riguardo al volume dell’occupazione redditizio. Rari sono tuttavia i contributi che hanno posto l’attenzione sulla maniera in cui l’immissione monetaria che dà impulso al circuito sia, in realtà, la prevalidazione di una serie di merci che deve ancora essere prodotta e, pertanto, di un plusvalore che non è ancora stato estratto.

Ora, solo l’introduzione di questo aspetto ci può condurre ad una visione dinamica, in grado di cogliere allo stesso tempo le mutazioni storiche della divisione del lavoro e delle forme del vincolo al rapporto salariale, da cui dipende la possibilità del comune. Infatti, l’acquisto e la vendita della forza lavoro si fonda sulla messa a disposizione di una quantità di tempo in cui il lavoratore si mette formalmente a disposizione del capitalista, e non sul lavoro effettivo dei salariati.

Ne deriva per il capitale un’incertezza strutturale che non riguarda solamente le condizioni dell’esecuzione del contratto di lavoro, ma fondamentalmente mette in evidenza terreno conflittuale dove le dimensioni economica e socio-politica dell’antagonismo capitale-lavoro sono indissociabili. In primo luogo, perché coloro che controllano e dettano i modi operatori possono anche determinare l’intensità e la qualità del lavoro. In secondo luogo, perché coloro che detengono i saperi produttivi possono aspirare a gestire la produzione, vale a dire ad autodeterminare l’organizzazione così come le finalità sociali del lavoro, ricostituendo la possibilità del comune come modo di produzione. Intendiamo, con ciò, un modo di cooperazione che reintroduce la democrazia in seno alla produzione, in opposizione con il principio gerarchico che caratterizza tanto l’azienda capitalista, quanto la logica burocratica del pubblico. Più precisamente, estendendo all’insieme dei beni la bella definizione che Benkler utilizza per i beni comuni informazionali, «la produzione si basa su dei beni comuni quando nessuno esercita dei diritti esclusivi per organizzare il lavoro e appropriarsi del valore creato, e quando la cooperazione si realizza attraverso dei meccanismi sociali altri rispetto ai prezzi e alle direttive del management» (Benkler, 2004, p. 1110).

L’importanza di questa dinamica conflittuale relativa al controllo delle potenze intellettuali della produzione spiega perché lo sviluppo della divisione capitalista del lavoro, in seguito alla prima rivoluzione industriale, abbia consistito nel tentativo di svuotare, il più possibile, il lavoro dalla sua dimensione cognitiva, per trasformarlo nel suo contrario: un’attività meccanica, ripetitiva, impersonale e totalmente asservita alla scienza incorporata nel capitale fisso. É così che nello sviluppo del capitalismo industriale, la sussunzione formale si combina con la la logica della sussunzione reale del lavoro al capitale: essa punta non solo a ridurre l’incertezza sull’esecuzione del contratto di lavoro, ma soprattutto a rendere inconcepibile per la forza lavoro l’idea stessa del comune nella produzione (come prodotto della cooperazione volontaria della forza lavoro), in ragione, in particolare, del carattere ormai inappropriabile, come l’aveva un tempo pensato Gorz, « della massa dei saperi, necessariamente specializzata, che combina la produzione sociale » (Gorz, 1988).

Tuttavia, questa tendenza, che ha trovato per vari aspetti il suo completamento storico nel modello della grande impresa manageriale all’epoca dell’economia mista, rimarrà sempre imperfetta. Inoltre, un nuovo tipo di sapere tenderà in modo incessante a ricostituirsi al livello più elevato dello sviluppo della divisione tecnica e sociale del lavoro. Nella congiuntura storica che ha condotto alla crisi del fordismo, questa dinamica si è espressa attraverso i conflitti che hanno condotto alla formazione di un’intellettualità diffusa e allo sviluppo dei servizi collettivi del Welfare-State (sanità, educazione, ricerca) al di là delle compatibilità della regolazione fordista (Monnier e Vercellone, 2010). Le condizioni alla base dello sviluppo di un’economia fondata sul ruolo motore e la diffusione del sapere sono così state poste, secondo una dinamica che sembra realizzare numerose tendenze contenute nell’ipotesi marxiana del general intellect[6].

Ora, l’instaurazione di un’economia fondata sulla conoscenza precede e si oppone, tanto da un punto di vista logico quanto storico, alla formazione del capitalismo cognitivo e finanziarizzato. Ques’ultimo è il risultato di un processo di ristrutturazione attraverso il quale il capitale tenta, in modo parassitario, di assorbire e di sottomettere alla sua logica le condizioni collettive della produzione dei saperi, soffocando il potenziale di emancipazione iscritto nella società del general intellect. In questo quadro, la posta in gioco centrale della valorizzazione del capitale e delle forme di proprietà si fonda sempre più sull’espropriazione (rentière) del comune e sulla trasformazione della conoscenza in una merce fittizia (Negri e Vercellone, 2008).

É così che nel nuovo capitalismo la dimensione monetaria del rapporto di subordinazione del lavoro al capitale diviene tanto più vera e cruciale che la crescita in potenza della dimensione cognitiva del lavoro permette alla cooperazione produttiva di organizzarsi in modo autonomo rispetto alla direzione del capitalista. Certo, niente garantisce il passaggio dell’autonomia potenziale all’autonomia reale della forza lavoro. Tuttavia, sul piano del processo lavorativo sociale, la sussunzione del lavoro al capitale ridiventa principalmente formale. In modo significativo, essa va di pari passo con un formidabile rafforzamento del vincolo monetario al rapporto salariale, realizzato in particolare attraverso la destabilizzazione delle garanzie del Welfare ed attraverso una precarizzazione crescente delle condizioni di remunerazione e di impiego. Allo stesso tempo, tutto avviene come se al movimento di autonomizzazione della cooperazione del lavoro corrispondesse un movimento parallelo di autonomizzazione del capitale nella forma astratta, eminentemente flessibile e mobile del capitale-denaro. Il potere del capitale sulla società sembra riposare sempre più sul controllo dei meccanismi monetari e finanziari, e ciò spesso senza più esercitare alcuna funzione reale necessaria all’organizzazione del processo di produzione.

É a questo livello di sviluppo della divisione del lavoro, nel quale l’emergere di un’intelligenza collettiva va di pari passo con il rafforzamento del vincolo monetario al rapporto salariale, che si pongono oggi le condizioni per pensare il comune.

4.              Il reddito sociale garantito come reddito primario e istituzione del comune 

Dall’analisi delle asimmetrie che strutturano il capitalismo come economia monetaria della produzione, ci è possibile delineare la posta in gioco principale di ciò che dovrebbe essere una moneta del comune: una moneta endogena alla riproduzione della forza lavoro perché attenuerebbe il vincolo monetario al rapporto salariale, assicurando allo stesso tempo la validazione sociale delle ricchezze prodotte da forme di produzione e di soddisfacimento dei bisogni alternativi ai rapporti mercantili.

Notiamo che, prima della svolta monetarista e dell’instaurazione delle autonomie delle banche centrali, la regolazione amministrata keynesiana dell’offerta di moneta aveva permesso, sotto forma di un compromesso istituzionalizzato, lo sbocciare di alcune di queste dimensioni. In particolare, il legame tra Banca Centrale e Tesoro pubblico aveva autorizzato una monetizzazione dei conflitti sociali, favorito il finanziamento del salario socializzato e dei servizi collettivi del Welfare (Chesnais, 2011, p.31)[7].

Si tratta senza dubbio di una delle ragioni che spiega perché la resistenza allo smantellamento del pubblico sia tanto il terreno di nostalgie stataliste quanto uno dei terreni fondamentali di elaborazione della problematica del comune (Negri, 2012).

In questo quadro, la proposta di un reddito sociale garantito incondizionato ed indipendente dal lavoro salariato è quella che ci sembra maggiormente incarnare una nuova tappa di socializzazione dell’economia. Essa s’iscrive in un progetto di società e di demercantilizzazione dell’economia in cui il rafforzamento dei diritti collettivi legati al sistema di protezione sociale (pensioni, sanità, sussidio disoccupazione, ecc.) andrebbe di pari passo con il passaggio da un modello di Welfare-State ad un modello di commonfare.

In effetti, analogamente alla tematica del comune, la riflessione attorno alla proposta di un reddito sociale garantito (RSG)[8] attraversa sempre più il dibattito sulle alternative alla crisi del capitalismo cognitivo e finanziarizzato. Tuttavia, la maggior parte delle formulazioni del RSG restano ancorate ad una concezione che ne fa un reddito secondario relativo alla redistribuzione ed alla gestione statuale classica dello Stato-provvidenza[9].

Nel nostro approccio, il RSG deve, al contrario, allo stesso tempo essere pensato come una istituzione del comune ed un reddito primario per gli individui, vale a dire un reddito che risulta direttamente dalla produzione e non dalla redistribuzione. Queste due dimensioni, reddito primario e istituzione del comune, sono peraltro strettamente intrecciate tanto sul piano dell’organizzazione della produzione, quanto su quello dello statuto della moneta e del modo di distribuzione.

Un reddito primario dunque, perché la proposta del RSG riposa su di un riesame ed un’estensione del concetto di lavoro produttivo che si tratta di prendere in considerazione alla luce di due dimensioni[10].

La prima concepisce il lavoro produttivo, secondo la tradizione dominante nell’economia politica, come il lavoro che produce del valore e del plusvalore. Si tratta qui della constatazione secondo cui assistiamo, oggi, ad un’estensione importante dei tempi di lavoro, al di fuori della giornata ufficiale di lavoro, che sono direttamente o indirettamente implicati nella formazione del valore captato dalle imprese. A questo proposito, il RSG corrisponderebbe, in parte, alla remunerazione sociale di questa dimensione sempre più collettiva di un’attività creatrice di valore, che si estende sull’insieme dei tempi sociali, dando luogo ad un’enorme massa di lavoro non riconosciuta e non retribuita. E’, peraltro, importante notare come questo aumento del lavoro non pagato si apparenti, in forme inedite, con un aumento del plusvalore assoluto che risulta dalla combinazione di due tendenze maggiori. Da una parte, proviene dalla maniera stessa in cui la pressione congiunta della precarietà e delle nuove forme di management della soggettività enfatizza, a vantaggio delle imprese, un tratto intrinseco del lavoro cognitivo: quello di essere un’attività di produzione, di riflessione e di scambio di saperi che si svolge tanto fuori quanto durante l’orario contrattuale di lavoro. D’altra parte, proviene anche dal ruolo crescente del lavoro del consumatore e specialmente dall’appropriazione privata del lavoro gratuito effettuato da una moltitudine d’individui sulle reti del Web. Il capitale, attraverso soprattutto un piccolo numero di grandi imprese americane, è in realtà arrivato a controllare una gran parte dell’infrastruttura materiale ed immateriale di internet (Baronian, 2011), espropriando questo spazio del comune e trasformando in merci le creazioni e le identità numeriche degli utilizzatori.

Contro la tradizione della teoria economica, per contro, la seconda dimensione rinvia al lavoro produttivo concepito come lavoro produttore di valori d’uso, fonte di una ricchezza che sfugge alla logica mercantile e a quella del lavoro salariato subordinato. In questa prospettiva, il RSG corrisponderebbe simultaneamente alla validazione sociale e ad un mezzo di finanziamento di questa rete densa di attività non mercantili che la società del General Intellect crea, al di là del salariato. Si tratta, insomma, di rompere con l’identificazione storica abusiva che il capitalismo ha stabilito tra lavoro e lavoro-salariato e, con essa, tra lavoro salariato e diritto al reddito. Detto altrimenti, si tratta di affermare che il lavoro può essere improduttivo di capitale, ma ciononostante produttivo di ricchezze non mercantili e perciò, trovare la sua contropartita in un reddito. Questo è peraltro il caso, da un punto di vista strettamente teorico, per le attività realizzate in seno ai servizi pubblici che producono ricchezza e non valore. Il carattere incondizionato del RSG si distingue, tuttavia, in modo radicale, dal salario versato agli impiegati di questi servizi, perché non si fonda né su di un lavoro dipendente, né tantomeno implica da parte dei beneficiari una qualunque dimostrazione di utilità sociale della loro attività. Anche in questo senso, il RSG non attiene alla sfera pubblica, quella della «burocrazia professionale» e del coordinamento amministrativo, ma al comune. Esso presuppone un’attività creatrice di ricchezze ed una cooperazione produttiva che si sviluppa a monte ed in modo autonomo rispetto alle logiche amministrative e del privato, anche quando le attraversa e contribuisce alla loro riproduzione.

Esiste, infatti, un rapporto complesso, fatto allo stesso di tempo di antagonismo e di complementarietà, tra queste due forme di lavoro produttivo. Nel capitalismo cognitivo, l’espansione del lavoro libero che produce il comune, va infatti spesso di pari passo con la sua subordinazione al lavoro sociale produttore di valore, in ragione stessa delle tendenze che spingono verso uno sfumarsi della separazione tra lavoro e non lavoro, sfera della produzione e sfera della riproduzione.

L’instaurazione di un RSG, non solo riconoscerebbe questa seconda dimensione del lavoro produttivo, ma soprattutto favorirebbe la sua emancipazione dalla sfera della produzione del valore e del plusvalore. In quest’ottica, l’attenuamento del vincolo al rapporto salariale consentito dal RSG, più ancora che una riduzione del tempo legale di lavoro, permetterebbe agli individui di ritrovare il controllo del loro tempo e la gestione delle attività che non hanno altra finalità che in se stesse. Costituirebbe così un vero investimento sociale e una liberazione di energie creative per assicurare, per esempio, la riproduzione dei comuni informazionali e della conoscenza, di cui lo sviluppo è stato sensibilmente ostacolato dalla mancanza di tempo di cui sono affetti i lavoratori cognitivi (Aigrain, 2008).

Il RSG si presenta così su più punti come un’istituzione del comune al servizio del comune. Prima di tutto, perché il RSG non attiene alla sfera pubblica ma corrisponde « in fin dei conti, alla messa in comune di una parte di ciò che è prodotto in comune, deliberatamente o no » (Gorz, 2003, p.101) e ciò, al di fuori di ogni logica contributiva che cercherebbe un rapporto di misura e proporzionalità tra sforzo individuale e diritto al reddito. In questa prospettiva, seguendo la tradizione mutualista all’origine del sistema di protezione sociale in Francia, le risorse raccolte per finanziare il RSG potrebbero essere messe in una cassa comune gestita direttamente dai lavoratori.

In secondo luogo, il RSG, in quanto reddito primario, presuppone e rilancia lo sviluppo del comune stesso. Lo rilancia nella misura in cui favorirebbe l’esodo dal lavoro salariato e lo sviluppo di forme di cooperazione fondate su regole di coordinazione distinte da quelle del pubblico e del mercato. Lo presuppone nella misura in cui la sua instaurazione implica dei meccanismi di risocializzazione della moneta e dei redditi che rendono la riproduzione della forza lavoro indipendente dalla circolazione del denaro in quanto capitale[11].

Conclusione

In quanto prodotto dello scambio delle merci, la moneta è l’espressione di un rapporto sociale tra produttori privati indipendenti, individui, comunità e imprese capitaliste. Qualsiasi sia dunque la forma e le condizioni di circolazione della moneta, la sua presenza significa che l’attività dei produttori acquisisce il suo carattere di lavoro sociale in modo indiretto, per mezzo dello scambio dei prodotti del lavoro come merci. É possibile che una forma monetaria attenui alcuni dei vincoli posti dalla produzione capitalista, ma le contraddizioni che la moneta del comune vuole superare sono destinate a rinascere in un modo o nell’altro, e ciò fintanto che le trasformazioni del modo di produzione attuale saranno limitate alla sfera della circolazione. Tali trasformazioni, tuttavia, potrebbero accelerare ed orientare le mutazioni in corso del lavoro sociale, favorendo l’attenuamento del vincolo al rapporto salariale ed un’articolazione altra tra comune, pubblico e privato. In questo senso, in due modi almeno, la proposta del RSG si smarca dall’ipotesi proudhoniana del credito gratuito.

In primo luogo, il RSG va al di là della semplice prospettiva di una democratizzazione del credito, per pensare la moneta del comune come uno strumento che può attenuare, per l’insieme della forza lavoro, il vincolo al rapporto salariale. Esso non si attacca, infatti, al salto mortale della merce, ma a quello della forza lavoro, per rompere il circolo vizioso che fa della sua vendita la condizione di accesso al reddito. Certo, attenuando il vincolo al rapporto salariale, il RSG può anche giocare il ruolo di una sorta di forma di credito gratuito che permetterebbe di democratizzare l’economia di mercato, offrendo più autonomia alla produzione mercantile semplice rispetto al capitale. Ma è soltanto in un modo accessorio che la garanzia di un reddito sufficiente può ugualmente favorire l’accesso allo statuto di produttore privato indipendente. Il suo primo ruolo è quello di sostenere, non il produttore individuale e la sua merce, ma l’intellettualità diffusa nella sua attività collettiva di produzione non mercantile.

In secondo luogo, il credito, anche quando è attribuito gratuitamente, implica una doppia condizionalità, portatrice di un rapporto di dipendenza: quella legata all’esame stesso della viabilità mercantile del progetto produttivo che è l’oggetto di una domanda di credito, e quella legata all’estinzione successiva del debito prodotto dalla creazione iniziale di moneta. Il RSG rompe questa logica di dipendenza legata al credito e al debito, perché il suo carattere incondizionato è anche il mezzo per assicurare l’autonomia delle attività che partecipano alla costruzione sociale del comune.

 

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[1] Per una presentazione molto chiarificante dei lavori di Ostrom e di Hess sui comuni fondiari ed informazionali, cf. anche Coriat (2011).

[2] Su questa base, la moneta viene considerata come un bene rivale, ma non escludibile, al quale possono essere applicati gli otto principi di governance definiti da Ostrom per i comuni fondiari (Cornu, 2012)

[3] Con questa espressione facciamo riferimento in particolare alla problematica elaborata nel quadro del seminario « Du public au commun » http://dupublicaucommun.com/presentation-du-projet/.

[4] Il contrario è altrettanto vero, cioè che nessun valore d’uso sfugge in quanto tale alla sfera della produzione mercantile e del profitto, come mostrato dalla presa crescente che il capitale esercita su tutta una serie di beni pubblici, come per esempio la conoscenza. Su questo aspetto, cf. anche il contributo di Harribey (2011).

[5] La teoria del circuito è un prolungamento dell’approccio in termini di economia monetaria della produzione. La sua genesi risale a Karl Marx e fa della moneta il primum movens della produzione capitalista delle merci. Sviluppando questa concezione, lo stesso Keynes, nei suoi scritti preparatori alla Teoria Generale, farà esplicitamente riferimento alla distinzione marxiana tra la logica di un’economia mercantile semplice fondata sul circuito M-D-M e la logica di un’economia capitalista fondata, questa, sulla formula generale del capitale D-M-D’. Così, come ricordato da Devillers (1985), in uno dei rari passaggi dove cita Marx, Keynes afferma che in una « Economia Monetaria della produzione », il punto di vista delle imprese è espresso dal circuito D-M-D’ (denaro-merce-denaro). Il circuito si apre con un’immissione di moneta da parte delle imprese per distribuire i salari o comprare materie prime, allo scopo di realizzare un profitto monetario, grazie alla vendita delle merci. Esso si chiude quando la moneta fa ritorno alle imprese, sia attraverso l’impiego del reddito per l’acquisto di beni di consumo, sia in contropartita dell’investimento. Questa visione, che costituisce anche il fondamento del principio della domanda effettiva, sarà oggetto di un importante tentativo di sistematizzazione e di formalizzazione teorica a partire dagli anni Settanta, con la formazione della teoria del circuito, mettendo in particolare l’accento sul ruolo motore della moneta di credito. Si sviluppa grazie all’impulso di due correnti principali : la prima, d’ispirazione perlopiù keynesiana e post-keynesiana (Schmitt, Parguez, Poulon, Lavoie) ; la seconda, dal fermo riferimento marxista (Graziani, Messori, Bellofiore). Per una messa in prospettiva storica e teorica di quest’ultima corrente, cf. Graziani (1994) e Realfonso (2006).

[6] Per una caratterizzazione approfondita del senso di questa categoria nel pensiero di K.Marx, cf Negri (1996), Baronian (2011) Vercellone (2007).

[7] Su questo punto, cf. anche le analisi anticipatrici di una problematica della moneta del comune sviluppate all’inizio degli anni Settanta da Christian Marazzi e Lapo Berti, nella rivista operaista « Primo Maggio » (Lucarelli, 2013).

[8] Declinata con diverse espressioni: reddito di base, allocazione universale, reddito di esistenza, reddito di cittadinanza, dividendo universale, ecc.

[9] Per uno sguardo sulla letteratura a questo proposito, cf. Vanderborght e Van Parijs (2005), Monnier et Vercellone (2007), Vercellone (2003)

[10] Cf. su questo punto Monnier e Vercellone (2007).

[11] Per una rassegna del dibattito sulle riforme suscettibili di condurre ad una risocializzazione della moneta, cf. Chesnais (2011), Lordon (2009), Vercellone (2013).

 

* Traduzione di Francesca Martinez Tagliavia. Si tratta di una versione leggermente modificata di un articolo che sarà pubblicato sulla rivista “Terrains/Théories” nell’autunno 2013.