Il primo negozio dove non si paga

di Valentina Sanseverino (You-ng), 30 Aprile 2012

Un negozio senza casse. Uno spazio in cui il denaro non vale nulla. Un luogo dove gli oggetti non hanno prezzo. E’ spuntato dal nulla lo scorso sabato a Bolzano, precisamente in Via Rovigo, 22/C e si chiama “Passamano”: é il primo “non-negozio” in Italia basato unicamente sulla filosofia del recupero e del riutilizzo, dove le “cose” valgono tanto quanto servono.

Si entra, si sceglie e si va via senza pagare: é questa l’ultima frontiera dello shopping equo sostenibile, un progetto partorito da un gruppo di volontari che non ricevono compenso e chiedono solo una libera offerta facoltativa per coprire le spese fisse del negozio o di lasciare – se si vuole – qualcosa in cambio del proprio “acquisto”.

“Ci sono cose che è più facile regalare che vendere – spiega Andrea Nesler, uno dei volontari – quando un oggetto ha un valore affettivo è difficile stabilirne il prezzo di vendita, si rischia di svalutarlo, e allora è meglio regalarlo. Così, un ex sciatore è venuto e ci ha consegnato tutta la sua attrezzatura sportiva, perché ha un problema alla schiena e non può più scendere in pista. È venuto e ci ha raccontato la sua storia”. Non solo shopping, quindi, ma anche luogo di socializzazione: “Passamano” é, infatti, anche un info-point dove condividere idee e conoscenze sul consumo consapevole, il riciclaggio e il riutilizzo , ma anche la cucina vegana e vegetariana, l’animalismo, l’eco-architettura, il turismo responsabile ecc. I suoi locali ospitano anche una biblioteca, una sala riunioni per serate e incontri a tema e un laboratorio condiviso, dove si puó apprendere a creare oggetti di abbigliamento o di design con ció che non ci serve piú o offrire il proprio tempo libero per lavorare come volontario o mettere a disposizione degli altri le proprie abilità e conoscenze (lingua, artigianato, cucito ecc). “L’idea – spiega Gaia palmisano, una delle volontarie – nasce nell’ambito del movimento “Transition Town” fondato dall’inglese Rob Hopkins. L’obiettivo finale – aggiunge – é creare una dimensione partecipativa con metodi che lasciano spazio alla creatività individuale”. In parole povere: l’antitesi di un negozio!

http://www.you-ng.it/index.php?option=com_k2&view=item&id=1311%3Ail-primo-negozio-dove-non-si-paga&Itemid=58

E se all’euro affiancassimo le monete locali?

di Nicolò Cavalli, Linkiesta – 22/04/2012

Questa sera Report ha parlato del progetto di una valuta complementare all’euro in corso a Nantes  messo a punto da Massimo Amato e Luca Fantacci della Bocconi. Ripubblichiamo un’intervista a Fantacci dell’agosto dell’anno scorso dove spiega la proposta: occorre che l’euro «sia affiancato, non sostituito, dalle monete nazionali». Così «le economie locali potrebbero tornare ad avere una moneta adeguata e una reale autonomia politica». Secondo l’economista, «è l’unica via d’uscita plausibile». 

Luca Fantacci insegna Scenari economici internazionali e Storia, istituzioni e crisi del sistema finanziario globale all’Università Bocconi di Milano. Distinguished Visting Fellow presso il Christ’s College di Cambridge, il professor Fantacci ha recentemente curato una raccolta di saggi di Keynes, intitolata Eutopia – Proposte per una moneta internazionale e ha pubblicato, insieme a Massimo Amato, Fine della Finanza. Da dove viene la crisi e come si può pensare di uscirne. A lui abbiamo chiesto lumi sulla situazione finanziaria che sta destando la preoccupazione di risparmiatori, politici, investitori di tutto il mondo.

Professore, che cosa sta succedendo da qualche settimana nelle borse?
Niente, e proprio questo è il problema. Non c’è un solo fatto nuovo che giustifichi il terremoto finanziario delle scorse settimane: dalle difficoltà di Obama con il Congresso alle fragilità fiscali dell’Europa, tutto era già presente e noto. Perfino il downgrading degli Usa era già stato più volte preannunciato. Per non parlare dei debiti pubblici, che hanno potuto crescere per anni senza preoccupare nessuno. Davvero, non è successo niente di nuovo e sconvolgente.

Nulla di cui preoccuparsi, dunque?
Tutt’altro. È proprio questo terremoto in assenza di novità il dato allarmante, su cui è opportuno riflettere: se oggi, senza motivo, i mercati finanziari tremano, vuol dire che fino a ieri erano spavaldi, ugualmente senza motivo. Niente giustificava i guadagni di ieri, così come niente può spiegare le perdite di oggi o i recuperi di domani. I mercati finanziari dimostrano di avere sempre meno un criterio attendibile per distinguere fra quando va bene e quando va male, fra chi va bene e chi va male.

Una finanza che vive in un mondo che ha poco a che fare con la realtà?
Non mi riferisco a una semplice scollatura tra finanza ed economia reale. È perfettamente legittimo, e anzi necessario, che il valore di borsa di un’azienda possa discostarsi temporaneamente dall’andamento corrente dei suoi affari. Perché la borsa, per sua natura, guarda avanti: guarda ai profitti futuri, non a quelli attuali; esprime aspettative e può sbagliarsi. Ma, affinché questo gioco di scommesse abbia un senso, bisogna che almeno due condizioni siano rispettate. Primo, occorre che a un certo momento una linea sia tracciata e i conti siano fatti. Bisogna che finisca la gara, in modo che si veda chi ha scommesso sul cavallo vincente. Secondo, occorre che l’esito della corsa non sia condizionato dall’andamento delle scommesse. Ma questo è proprio ciò che non avviene in borsa, dove non si verifica né la prima né la seconda condizione.

Cosa intende dire?
È molto semplice: gli andamenti dei valori di borsa non riflettono più alcun tipo di “fondamentale”, non si basano più su alcun giudizio in merito alla solidità economica o politica dell’emittente. Nei momenti di massima volatilità, come in questi giorni, siamo tutti d’accordo a dire che “basta un nulla” per scuotere i mercati e che a tenere il campo sono le aspettative che si autorealizzano. Tanto è vero che si parla comunemente, anche sulla stampa finanziaria, di “speculazione” e si dà per scontato che è il mercato finanziario a dettare l’andamento dell’economia reale, perfino le sorti di interi paesi, e non viceversa. Ma c’è da chiedersi se, nei periodi cosiddetti normali, la maggiore calma non dipenda unicamente da una maggiore unanimità delle aspettative, da una maggiore tenuta delle convenzioni, da una maggiore stabilità emotiva. In finanza come in amore, rischiamo di essere in balia delle emozioni, attrattive o repulsive che siano: e quello che, fino a ieri, era visto come un investitore benefico, oggi è chiamato un avido speculatore, con la stessa volubile inconsistenza che fa apparire l’amante della sera prima come un’opportunista spregevole.

Il che non sembra molto rassicurante per le sorti del nostro Paese, finito anch’esso nel mirino degli “speculatori”.
Ecco, ciò che sta accadendo con i titoli del debito pubblico italiano è un buon esempio del carattere autoreferenziale dei mercati. I buoni del tesoro possono anche essere visti come un investimento nell’azienda-Italia. Ma, a dispetto di quest’orribile espressione, gli stati nazionali, a differenza delle aziende, non sono fatti per fare profitti e per remunerare i detentori dei titoli, non presentano un bilancio consuntivo, e non esiste alcun criterio certo sulla base del quale possano essere giudicati redditizi o anche semplicemente solvibili. Eppure, tutto ruota attorno a quel punto: la caduta del prezzo dei titoli di stato e il corrispettivo incremento del loro rendimento, e dunque l’ampliarsi del differenziale rispetto al rendimento degli omologhi tedeschi, i timori di un’ulteriore recessione, le preoccupazioni per la disintegrazione dell’euro, il crollo delle borse… tutto è stato scatenato dal timore di un possibile default dell’Italia.

Si tratta di un rischio concreto?
Questo è appunto il problema. Per poter rispondere, e magari assegnare un grado di probabilità all’evento, come si pretende di fare sul mercato, bisognerebbe poterne dare una definizione univoca. Ora, che cosa significhi essere “in default”, o “insolvente”, nel caso di un’impresa è chiaro: significa non essere in grado di pagare i propri debiti, ossia non avere attività sufficienti per far fronte alle proprie passività. Ma, sulla base di questa definizione, tutti gli stati sono insolventi! Nessuno stato è in grado di ripagare i propri debiti. D’altro canto, gli stati non sono nemmeno tenuti a ripagare i loro debiti. I debiti degli stati, da quando hanno preso la forma di titoli negoziabili sul mercato, ossia da poco più di trecent’anni, non sono più fatti per essere ripagati, bensì per essere continuamente rinnovati e per circolare indefinitamente. I titoli di stato sono emessi, sono acquistati e rivenduti ripetutamente sul mercato e, quando giungono a scadenza, sono rimborsati con i proventi dell’emissione di nuovi titoli.

In che senso, allora, si può parlare oggi di stati a rischio di insolvenza?
Il termine è utilizzato con un’accezione ben diversa, per riferirsi all’incapacità di uno stato di rifinanziarsi sul mercato a condizioni sostenibili. Si dovrebbe parlare, propriamente, non di “solvibilità”, ma di “sostenibilità” del debito. Ed è ben più problematico. Non soltanto perché il concetto è più vago, privo di una definizione univoca. Ma soprattutto perché il fenomeno che esso descrive è fortemente autoreferenziale. Infatti, quanto meno un debito pubblico appare sostenibile, tanto più costa allo stato indebitarsi; ma quanto più aumenta il costo del debito, tanto meno risulta sostenibile.

Un circolo vizioso che conduce gli stati sull’orlo del baratro.
Si tratta di un problema che è al tempo stesso politico ed economico. Quando uno stato, come l’Italia o la Grecia, accumula un tale debito nei confronti degli stranieri da dover rendere conto delle proprie decisioni ai creditori prima ancora che ai cittadini, allora si ha un problema politico: in che senso possiamo ancora parlare di una democrazia, quando a dettar legge non è il popolo né il parlamento né il governo, bensì una trojka internazionale Bce-Ue-Fmi, in rappresentanza degli interessi dei creditori? D’altro canto, quando la capacità di un debitore di ripagare i propri debiti dipende assai più dal grado di fiducia dei mercati che dalle proprie prestazioni, comunque le si voglia misurare, allora il problema è anche economico: in che senso si può ancora parlare di un investimento, quando il tasso di rendimento non ha alcun rapporto con alcuna misura, per quanto imprecisa, di produttività, ma dipende unicamente dal grado di sfiducia dei creditori? Sul piano politico, la concessione di crediti condizionati, subordinati all’adozione di determinate misure, come quelli che la Bce oggi concede all’Italia, non può essere letta che come l’instaurazione di un regime di sovranità limitata nel paese debitore. Sul piano economico, la concessione di crediti a tassi d’interesse del 16%, come quelli che oggi il mercato accorda alla Grecia, non ha altro nome che usura.

È la crisi dell’Europa?
Senza dubbio. Una crisi dovuta alla pretesa di costruire l’unione politica sull’unificazione monetaria. Ma il problema non consiste nel ritornello secondo cui “ha prevalso l’economia sulla politica”, piuttosto nel fatto che si è mancato di vedere il piano politico e il piano economico nella loro articolazione. L’unificazione economica e monetaria è già, in sé, un atto politico. Non c’è nessuna legge economica che ne detti la necessità, tanto meno la forma. Può essere realizzata in modi diversi: il mercato comune non implica necessariamente la moneta unica, la libera circolazione dei beni non comporta necessariamente il movimento indiscriminato dei capitali. Come mostra concretamente il precedente storico dell’Unione Europea dei Pagamenti che, negli anni ’50, ha assicurato ai paesi europei crescita, stabilità e integrazione economica, senza bisogno di una moneta unica. Viceversa, l’euro ha accordato un po’ di stabilità e un po’ di crescita, ma a costo di una crescente divergenza fra i paesi membri che oggi rischia di compromettere sia la crescita sia la stabilità.

E che cosa si dovrebbe fare?
Credo che sia opportuna una riforma radicale della governance dell’Unione Europea, come da più parti auspicato: una revisione del patto di stabilità, un emendamento dello statuto della Bce, e magari anche la ricostituzione dell’Unione Europea dei Pagamenti. Per gestire l’emergenza, ossia la crisi dei debiti pregressi, sono convinto che non ci sia altro da fare che consentire alla Bce di agire da prestatore di ultima istanza, acquistando titoli del debito pubblico dei paesi membri. E naturalmente, è bene che tali prestiti siano accompagnati da raccomandazioni ai governi che ne beneficiano, perché adottino politiche di rigore, in modo da arginare l’azzardo morale, ossia la tentazione del figliol prodigo di tornare a spendere, abusando della misericordia del padre. Ma sarebbe ben più efficace di qualunque raccomandazione se gli stati europei non potessero né dovessero continuare a contrarre nuovi debiti, emettendo titoli sui mercati internazionali.

Sembrerebbe un’utopia…
In verità, proprio questo sarebbe reso possibile se si mettesse in opera un’istituzione analoga all’Unione Europea dei Pagamenti, che fungesse da camera di compensazione multilaterale per i debiti e i crediti contratti tra paesi dell’eurozona. Questo avrebbe un duplice vantaggio. Primo, consentirebbe di distinguere il debito pubblico, che è un affare interno fra i cittadini e lo stato, e il debito estero, che è un rapporto fra paese creditore e paese debitore. Secondo, consentirebbe di apprezzare il fatto che il debito estero beneficia entrambi i paesi, poiché permette al debitore di acquistare ciò che altrimenti non potrebbe acquistare, ma permette anche al creditore di vendere ciò che altrimenti non potrebbe vendere. Se il sistema dei crediti fra paesi s’interrompe, ci rimettono entrambi. Non è un caso se la crisi del debito nell’Europa meridionale ha comportato anche un arresto della crescita in Germania, come registrano i dati di questi giorni. Se gli italiani non comprano, i tedeschi non vendono. Il mercato è aperto, ma nessuno ci va…

Quindi?
Quindi è bene che, a differenza di quanto oggi avviene, l’onere del debito non venga sopportato, economicamente e simbolicamente, soltanto dai paesi debitori. Mentre le nuove istituzioni create per gestire la crisi debitoria europea, come l’Efsf (European Financial Stability Facility) continuano a far gravare l’onere e l’onta degli squilibri sui paesi debitori, l’istituzione di una camera di compensazione europea consentirebbe di ripartire equamente l’onere dell’aggiustamento fra creditori e debitori.

Sta parlando di un’Europa senza euro?
No, la mia proposta non è affatto di abolire l’euro, ma anzi di difenderlo dai suoi stessi difetti, che oggi rischiano di portarlo alla dissoluzione. E, per far questo, occorre che sia affiancato, non sostituito, dalle monete nazionali, e magari anche da monete regionali e locali. Così l’euro potrebbe essere davvero soltanto un mezzo di scambio, per agevolare il commercio europeo. Ma, al tempo stesso, le economie locali potrebbero tornare ad avere una moneta adeguata e una reale autonomia politica, senza rinunciare all’apertura verso l’esterno. Altrimenti continueremo a sacrificare ogni comunità in nome della Comunità Europea, salvo poi sacrificare la Comunità Europea in nome del mercato globale.

Ma è una strada percorribile quella che propone?
Dal mio punto di vista, è l’unica via d’uscita plausibile da una situazione in cui gli stati hanno sempre meno margini di manovra e i mercati hanno sempre meno contatto con la realtà. A differenza di quattro anni fa, non possiamo più fare affidamento sull’intervento pubblico. Oggi l’alternativa a una riforma radicale non è l’intervento dello stato in economia, ma l’interferenza sempre più cogente e pervasiva del mercato finanziario nella vita politica. Infatti, stante l’attuale forma delle istituzioni economiche, l’unica politica concessa è quella che viene giudicata adeguata dal mercato finanziario, indipendentemente dal suo contenuto. E che cosa vuole il mercato? Niente di chiaro e definito. Vuole soltanto essere rassicurato. Le manovre dei nostri governi possono essere opportune e risolutive, oppure insensate e controproducenti, ma, in ogni caso, se il mercato le reputa adeguate, ricomincia ad acquistare i nostri titoli, i rendimenti scendono, e noi siamo salvi. Come l’autocrate totalitario descritto da Koestler, il mercato ha sempre ragione, purché non si metta mai in dubbio la sua parola, anche se dovesse dichiarare ad ogni istante una verità nuova.

Una banca che finanzia le pmi e non specula? Esiste

di Alessandro Montesi, Linkiesta – 12/04/2012

È una banca che finanzia un quarto delle pmi svizzere ma non cumula e non specula ed è fondata sulla circolazione sicura del credito. È la Wirbank, istituto cooperativo svizzero basato su una moneta complementare e alternativa e nato non casualmente nel 1934, in mezzo alla Grande Depressione. I wir sono una moneta gestita attraverso una camera di compensazione (uno spazio condiviso per banca e cliente) che assicura una fonte di finanziamento costante e sicura per le Pmi. Si crea così un credito sempre presente, come dimostrano i dati in un rapporto: si stima che nel 2010 la circolazione di wir era pari a 1,3 miliardi di franchi svizzeri, circa un miliardo di euro.

Si è detto e si continua a dire che la crisi dell’economia mondiale iniziata nel 2007 è una crisi di credito, tecnicamente credit crunch o crisi di liquidità. Una crisi di liquidità che ci priva non solo del credito, ma anche della moneta stessa nel momento in cui essa non è spesa ma accantonata. Ma il credito non implica necessariamente la cessione di denaro: è moneta nel momento in cui la si considera come una merce (quindi scambiabile in un mercato) e il tasso d’interesse che rappresenta il suo prezzo.

Secondo due docenti dell’Università Bocconi Massimo Amato e Luca Fantacci, autori del libro “Fine della finanza”, il credito non è moneta ma più semplicemente «un’anticipazione» in vista di una chiusura. La forma più semplice di anticipazione è il differimento del saldo del debito. Il credito non è una cosa (la moneta) ma una relazione. Il credito non necessita affatto di una accumulazione di moneta, scrivono Amato e Fantacci, «quanto piuttosto dell’istituzione di uno spazio condiviso (per creditore e debitore) di promessa e attesa».

In Svizzera c’è una banca che potrebbe rispondere alle criticità della crisi attuale. Wirbank è una banca cooperativa svizzera basata su una moneta complementare e alternativa, i wir e ha sette succursali a Basilea, Berna, Lucerna, Losanna, Lugano, San Gallo e Zurigo e una agenzia a Coira. Il wir è una moneta non fisica ma solo contabile e quindi totalmente indipendente dal mercato finanziario. Una moneta gestita attraverso una camera di compensazione (uno spazio condiviso per banca e cliente) che assicura una fonte di finanziamento costante e sicura per le piccole medie imprese. Wir che in tedesco significa «noi», ricorda ai soci-partecipanti della banca che il circuito economico è rappresentato dalla comunità stessa.

La storia della Wirbank inizia non casualmente nel 1934 ed è direttamente collegata alla Grande Depressione seguita al giovedì nero del 1929. Colpiti dalla prima grande crisi economica mondiale del credito, un gruppo di 16 imprenditori svizzeri, con in mente le teorie dello studioso Silvio Gesell, si unì per creare un nuovo circuito economico. Per ovviare alla mancanza di liquidità, decisero di utilizzare un sistema di compensazione di crediti e debiti non basato sulla moneta ufficiale, il franco svizzero, ma basato su una moneta complementare, il wir. Oggi, a quasi 80 anni dalla sua fondazione, la cooperativa movimenta circa 1,5 miliardi di wir l’anno (equivalenti ma non convertibili in franchi svizzeri) e finanzia un quarto delle pmi svizzere (circa 82mila imprese con al massimo 200 dipendenti, come risulta anche da una recente ricerca accademica).

Dall’euro al dollaro, la moneta è una riserva di valore e rappresenta per il suo detentore «la ricchezza», come si impara da bambini mettendo via i soldi nel salvadanaio. Questo concetto di risparmio monetario implica una sottrazione dalla moneta dal circuito economico. Ad esempio, la crisi subprime è stata caratterizzata proprio dall’assenza di liquidità: si preferiva risparmiare piuttosto che comprare i cosiddetti titoli tossici (subprime). J.M. Keynes nel suo “Trattato sulla riforma monetaria”(1930), identifica la moneta come un puro intermediario, diversamente da adesso, senza un vero significato, che scorre da una mano all’altra. Un intermediario che «è ricevuto e speso, e, quando il suo lavoro è compiuto, sparisce dalla somma delle ricchezze di una nazione.».

Come ovviare alla mancanza di liquidità che caratterizza i mercati? La Wirbank ha risposto a questo domanda usando una camera di compensazione e una valuta complementare a quelle reali, come il franco svizzero (o l’euro e il dollaro). In un sistema come quello della camera di compensazione, la liquidità non serve come non servono le riserve di moneta. Nei libri contabili della banca vengono registrati solo crediti e debiti nella moneta complementare, ripagabili attraverso l’incasso dei futuri investimenti. All’interno di questo sistema, non conta quanta moneta uno detenga, ma la posizione positiva o negativa nei confronti degli altri membri del circuito. Tutto tende naturalmente al pareggio dal momento che è la compensazione fra crediti e debiti ad assicurare l’incontro fra creditore e debitore. Nessun rischio di “cartolarizzazione” del titolo di credito-debito, dato che una delle caratteristiche del wir è quella di fare della moneta solo un’unità di conto e un mezzo di scambio. Per i correntisti di Wirbank risparmiare wir non ha senso poiché non esistono e non sono riconvertibili in franchi, mentre per un italiano risparmiare euro è il problema maggiore perché non sempre reperibili e il più delle volte trattenuti dalle banche.

Cos’è il credito compensativo?

Non siamo obbligati a utilizzare l’Euro per scambiarci beni e servizi. Esiste da tempo la possibilità di utilizzare anche delle monete complementari. Imprenditori e cittadini possono accordarsi per comprare e vendere prodotti utilizzando dei crediti compensativi. Ecco cosa sono e come funzionano.

E per salvarsi Atene potrà perfino stampare moneta…

di Fabrizio Goria, Linkiesta – 21/03/2012

È stato attivato il 25 agosto lo schema Ela, che consente alla Grecia di stampare moneta, in deroga ai trattati europei che attribuiscono tale funzione solo alla Bce. La richiesta è stata avanzata già da due grandi banche. Ci sarà da fidarsi? Intanto arrivano i primi calcoli sul default greco: che costerebbe 97 miliardi di euro.

Dopo l’Irlanda, la Grecia. La scorsa settimana la Banca centrale ellenica ha attivato l’Emergency liquidity assistance (Ela), un particolare meccanismo di prestiti assistenziali messi a disposizione del sistema bancario. Tramite questo schema saranno iniettati nuovi capitali, erogati tramite la stampa di moneta ex novo in deroga ai Trattati europei. Alla luce di questo, nel giorno della fusione fra Alpha Bank ed Eurobank, due fra le maggiori banche elleniche, aumenta il rischio di un veloce peggioramento della situazione debitoria di Atene.

Non è la prima volta che la Banca centrale europea (Bce) permette l’uso di questo genere di strumento straordinario. Nell’ultimo anno fu Dublino ad adottarlo, stampando moneta al posto dell’Eurotower per fornire liquidità al sistema bancario irlandese. A scoprire questo utilizzo ai limiti dei trattati europei fu l’Irish Independent, accusando la banca centrale di Dublino di aver erogato oltre 51 miliardi di euro ai propri istituti di credito in deroga alla sovranità monetaria della Bce. Accuse che poi si sono rivelate fondate. Ora la storia potrebbe ripetersi per la Grecia.

Come quanto anticipato dal quotidiano greco Imerisia, il 25 agosto è stato attivato lo schema Ela alla Banca di Grecia. Due grosse banche, nei primi istanti di vita dello strumento, hanno chiesto di poter accedere al programma. Sono tre le condizioni per l’apertura delle linee di credito: situazione straordinaria, elevate garanzie a collaterale, erogazione per un tempo limitato. E i sospetti sui due istituti di credito che hanno subito domandato di aderire all’Ela sono caduti su Alpha Bank ed EFG Eurobank Ergasias, ovvero le protagoniste della più grande fusione interbancaria della storia ellenica, istituzionalizzata nelle scorse ore.

A peggiorare la già precaria situazione del sistema bancario ellenico ci hanno pensato i risparmiatori. Negli ultimi nove mesi dagli istituti di credito greci sono usciti 21,4 miliardi di euro, dirottati fuori dal Paese per via del rischio insolvenza. Questo nonostante le raccomandazioni del ministro delle Finanze Evangelos Venizelos, che ancora tre giorni fa ha ripetuto che «le banche elleniche sono solide, ben capitalizzate e al sicuro dalla tempesta finanziaria». Parole che, alla luce dell’attivazione dell’Ela, sanno di beffa.

C’è tuttavia un altro aspetto che deve preoccupare. In un interrogazione dello scorso febbraio un parlamentare Ue ellenico del PPE, Konstantinos Poupakis, ha domandato in che modo funzionasse l’Ela, quali erano gli esempi recenti dell’adozione di questo strumento e fino a che punto poteva incidere sulla massa monetaria presente nell’eurozona. In pratica, il preludio a quanto successo pochi giorni fa. La risposta a Poupakis del Commissario Ue agli Affari economici e monetari, Olli Rehn, è stata laconica: «La Commissione europea non detiene statistiche sulla varie operazioni Ela (…), mentre è la Bce che cura questi aspetti». Facile immaginare quindi come possa essere rischiosa questa asimmetria informativa. Il paragone è veloce. Come dal 2005 a oggi Atene ha mistificato i propri conti pubblici agli occhi dell’Europa, è possibile che anche per l’Ela faccia lo stesso. Del resto, lo schema di liquidità assistenziale, come ha ricordato il Commisario Rehn, non rientra nei programmi dell’Eurosistema, benché possa essere utilizzato al suo interno. Diventa quindi ostico, sia per la Bce sia per la Commissione, monitorare l’esatta erogazione della liquidità. Il rischio è quindi che, facendo leva su tale opacità, le banche greche possano subire iniezioni di capitali freschi stampati ex novo o senza le dovute garanzie.

Nel frattempo, stanno emergendo nuovi dettagli su quanto potrebbe costare un fallimento di Atene. Secondo Reuters Insider il default della Grecia costerebbe 97 miliardi di euro, più tutti i fondi finora erogati da Ue, Bce e Fondo monetario internazionale (Fmi). Un terzo, invece, sarebbe il prezzo da pagare in caso di bancarotta portoghese. Per Lisbona, in caso di collasso, le perdite si aggirerebbero intorno ai 31 miliardi di euro, più le linee di credito per il salvataggio. Minore il costo per l’Irlanda, 13 miliardi di euro. Nel complesso, compreso il pagamento dei Credit default swap (Cds) pari a 2,8 miliardi di euro, il fallimento dei tre Paesi sarebbe in grado di generare un buco da 144,2 miliardi. Il tutto senza contare la liquidità erogata dal maggio 2010, data del primo bailout europeo, a oggi. E il conto finale aumenta sempre di più.

Grecia, doppia valuta per salvarsi

GrandTour, 29 Marzo 2012

La strategia europea per il salvataggio greco è “disperata” e il paese dovrebbe considerare l’adozione di un doppio sistema monetario, ha detto il presidente della Banca centrale di Polonia Marek Belka al giornale tedesco Financial Times Deutschland

“Il paese dovrebbe avere un regime speciale per un tempo limitato”, Belka ha dichiarato in un’intervista pubblicata oggi.

“Non sto chiedendo di mettere la Grecia fuori dalla zona euro, ma per scopi interni potrebbe essere considerato uno strumento di pagamento da utilizzare all’interno del paese, principalmente dal settore pubblico.”   Secondo la strategia di Belka l’Europa sta spingendo la Grecia a ridurre drasticamente i prezzi dei salari per farla diventare più competitiva e accettare i pacchetti di salvataggio sono “disperati”.

Inoltre, il presidente della Banca centrale della Polonia ha detto che il doppio sistema monetario i depositi presso le banche resterebbero in euro e non perderebbero il loro valore. Ma i salari in Grecia verrebbero pagati con una nuova moneta svalutata rispetto all’euro.

Secondo Belka  questa “svalutazione nascosta” renderebbe i prodotti e i servizi greci più economici e più competitivi.   “I greci dovranno fare altri sacrifici, ma almeno avverranno in modo civile”, ha detto. “Dobbiamo rendere i servizi turistici più attraente. La Grecia deve reinventarsi”.

Baratto e moneta complementare: così le Pmi combattono il credit crunch

di Dario Aquaro, Sole24ore – 16 marzo 2012

Se la stretta creditizia non dà respiro, la risposta di tante piccole e medie imprese si dispiega tra vecchie pratiche e innovazioni del sistema di business. È tornato il baratto, si sente ripetere spesso. Non se n’è mai andato, in realtà, ma solo adattato alle nuove esigenze: lo scambio di beni e servizi senza uso di moneta sfrutta oggi le potenzialità della rete. E mai come negli ultimi mesi si è registrato un tasso di adesione così alto ai vari circuiti di “compensazione multilaterale”.

Il baratto funziona così. Ogni azienda paga un abbonamento annuale per far parte del circuito: scambia i prodotti senza nessun pagamento (con una commissione sulle vendite). Chi vende non è obbligato ad accettare la merce dell’acquirente, ma può comprare ciò che gli serve presso altri fornitori del network (che garantisce ogni transazione dal rischio d’insolvenza tramite accordi con società assicurative). La moneta complementare (nome a effetto per riferirsi all’unità di conto della transazione) consente di acquistare senza utilizzare denaro, ma con beni e servizi propri o nuove vendite ai clienti del network.

Sperimentata da tempo in altri paesi, la nuova forma di barter in Italia ha storia recente. Il primo network è stato BexB, spa bresciana nata nel 2001 e che da allora ha intermediato 200 milioni di euro: 72 milioni solo nel 2011, quando ha concluso 9mila operazioni (circa 25 al giorno) sulle 60mila totali portate a termine in dieci anni di attività. Il circuito conta oltre 2200 Pmi associate in tutto il paese (con un fatturato aggregato di circa 21 miliardi di euro), che coprono circa 160 settori merceologici dall’edilizia all’arredamento, dalla meccanica alla chimica, all’informatica, «e le adesioni stanno crescendo al ritmo di 50-60 al mese», afferma Simone Pietro Barbone, marketing account. «Il trend annuale di crescita è del 15-20%, ma nel 2011 è stato quasi del 30 per cento».

BexB ha una quota associativa che varia (da 500 a 4mila euro) in base alla classe di fatturato dell’azienda, così come le provvigioni (dal 2 al 50%). Sta sviluppando una nuova piattaforma tecnologica, che sarà lanciata a breve, e progetta l’apertura di nuove agenzie (oltre a quelle di Napoli e Roma, e le altre di Firenze, Bari e Treviso in fase di start-up). «Non intendiamo però crescere più delle nostre possibilità – spiega Barbone – perché dobbiamo sempre essere in grado di gestire il network in modo adeguato. Infatti non apriamo a tutti, ma valutiamo bene ogni nuova richiesta». L’obiettivo non celato è di arrivare a offrire il servizio della svizzera Wir Bank, che è anche il modello per questo tipo di business: nata nel 1934, oggi conta 60mila Pmi associate.

«Stiamo realizzando importanti operazioni a Napoli, la nostra seconda città per transazioni dopo Brescia, entrando nel mercato immobiliare, con appartamenti scambiati al 100% in compensazione: perché ci sono aziende che hanno venduto un tale quantitativo di merci da assicurarsi crediti (EuroBexB) per l’acquisto di un immobile». C’è infatti una soglia (2mila euro) oltre la quale è possibile trattare la percentuale di compensazione della transazione (la rimanente viene affidata alle modalità di pagamento tradizionali). Dipende da settori e aree geografiche, e naturalmente bisogna trovare una controparte che accetti la proposta: il prezzo più appetibile è sempre quello al 100% in compensazione.

Crescono le aziende interessate al barter, crescono gli operatori. È presto però per parlare di concorrenza, dicono i responsabili dei vari network, il potenziale di mercato è elevato. Cambiomerci è nata a ottobre 2011 e in pochi mesi ha associato quasi 200 aziende in tutta Italia. «L’aumento è continuo, anche se non siamo ancora a pieno regime con la rete di vendita, la maggior parte delle aziende sono situate in Campania, a Roma, e lungo la costa adriatica», racconta il direttore Francesca Scarpetta, che lavora in tandem con il marito e amministratore delegato Antonio Leone. Con due sedi fisiche (Napoli e Milano) e una rete di agenti sparsi per il paese, Cambiomerci punta ad «arrivare entro la fine dell’anno a mille e più aziende associate, anche grazie al nuovo portale che sarà attivo dalla prossima settimana, perché per ora – aggiunge Scarpetta – la maggior parte delle adesioni è arrivata attraverso il call center. Intanto in aprile a Roma parteciperemo al Forum delle eccellenze».

Gli auspici sono anche quelli di non limitarsi al B2B e affacciarsi al privato: «già adesso c’è chi propone prodotti che è difficile piazzare ad altre aziende, per esempio: 2mila biciclette. Chi le prende?». Ma la rete delle imprese interessate al nuovo baratto è sempre più assortita. «Di recente ci ha contattato un giornale che ha chiesto di associarsi perché la pubblicità gli è stata pagata in integratori alimentari: vorrebbe così proporli nel circuito e convertirli in crediti (Ecm: Euro-Cambiomerci) o prodotti che siano utili all’attività, magari attrezzature per l’ufficio».

Anche Cambiomerci (che prevede una quota associativa annua di mille euro e opera su ogni scambio una provvigione che varia dal 2 al 15% in base alla marginalità del settore) offre la possibilità di trattare la percentuale di compensazione.

Un caso differente è quello di Sardex, network nato nel 2009 e operativo da gennaio 2010. Che non fa barter in senso ufficiale. «Certo ci siamo ispirati all’esperienza di Wir e il metodo è sempre lo stesso, quello di lavorare come camera di compensazione – spiega il responsabile della comunicazione, Carlo Mancosu – ma dire che facciamo baratto è riduttivo, e poi: sai che novità!». I quattro fondatori sono partiti osservando quel che nel 2006 avveniva negli Usa, oltre che il tessuto micro-imprenditoriale sardo «dove è eufemistico dire che non si faccia rete». L’iscrizione al circuito prevede sì una quota, ma il modello di Sardex differisce dai circuiti di barter «perché non abbiamo provvigioni sulle transazioni. Seguendo uno studio legato all’esperienza nell’Iowa, le abbiamo eliminate e ottenuto grandi risultati: erano una barriera all’ingresso». I volumi di adesione sono in grande crescita: 500 aziende registrate, e circa 300 in attesa. Nel 2010 sono stati scambiati 350 mila crediti (anche il Sardex, per comodità e facilità equivale a un euro), 1,2 milioni nel 2011 (+370%), e in questi primi mesi del 2012 si è già arrivati alla metà di quelli dell’anno scorso.

Sardex (che ha sedi a Cagliari e a Serramanna) ha ambito prettamente locale, e punta a favorire lo sviluppo delle imprese sarde. Al B2B si sta però affiancando il B2C, la cui gestazione è in fase avanzata. «Oggi – prosegue Mancosu – c’è una parte di business rivolto ai consumatori, perché sia titolari che dipendenti delle aziende ricevono pagamenti in Sardex. I vantaggi sono evidenti: si evita di gravare sulle finanze dell’aziende e si limitano i licenziamenti. A breve ci sarà un’apertura ufficiale ai consumatori: a maggio è previsto il lancio, a giugno la sperimentazione a Cagliari città, e poi a settembre si partirà definitivamente».

Con il supporto di Sardex, in Sicilia a giugno decollerà Sicanex, con un tour di presentazione che anticiperà il via definitivo al nuovo circuito «Ci sono arrivate diverse richieste, ma la prima replicabilità di Sardex l’abbiamo avviata con i siciliani».

C’è la possibilità di costruire un grande network di operatori? «Stiamo pensando e immaginando. Purtroppo c’è l’abitudine italiana a vedere un nemico anche dove non c’è. E abbiamo ricevuto proposte imbarazzanti: altri operatori che ci hanno offerto di diventare una loro agenzia. Certo – conclude Mancosu – se si trovasse il modo di formare un circuito comune sarebbe un bene per tutti».

Teoria monetaria moderna e teoria fiscale postmoderna

Teoria fiscale postmoderna

di Chris Cook , Financial Times –  24 febbraio 2012

Il testo seguente è dell’ospite Chris Cook, membro ricercatore anziano dell’Institute for Security and Resilience Studies all’University College di Londra. Il suo lavoro è concentrato su una nuova generazione di mercati collegati in rete che, secondo Chris, saranno necessariamente disintermediati, aperti, decentrati e, perciò, resilienti.

Facendo seguito all’impennata di interesse per la Teoria Monetaria Moderna (MMT) sono stato tanto imprudente da commentare che l’intuizione centrale della MMT – che la moneta a corso forzoso sia uno strumento creditizio che alla fine si basa sul potere del governo di imporre tasse – sia resa confusa da dispute su quale sia concretamente la base corretta della tassazione o, in realtà, se addirittura una tassazione debba esserci.

Il blog Alphaville del Financial Times mi ha invitato a fornire un testo sulla ‘Teoria Fiscale Moderna’ che io ho suggerito. Ma ho deciso di andare più in là e di documentare la mia idea che in un mondo di collegamenti diretti il Tesoro non è più necessario, come intermediario del credito, di quanto lo sia la Banca.

La Teoria Fiscale Postmoderna guarda all’economia collegata in rete, decentrata e disintermediata che emerge rapidamente dalle macerie dell’ottobre 2008.

Lo Zen e l’arte dell’economia

Comunque che cos’è il Valore?  Secondo J.A.Wheeler “la realtà è definita dalle domande che le si pongono.”

Secondo me il Valore è definibile soltanto in termini relativi, facendo riferimento a un’unità di misura o a un’unità di conto convenzionale. L’unità di misura convenzionale è simile a un metro come unità di misura standard di lunghezza e a un chilogrammo come unità standard di peso.

Quali sono le fonti o le basi del Valore? La mia analisi è la seguente.

Localizzazione – spazio tridimensionale:  risorsa rivale immateriale, effettivamente finita;
Energia – materiale o immateriale, statica o dinamica – un insieme di risorse rivali finite (non rinnovabili) ed effettivamente infinite (rinnovabili);
Intelletto – (i) soggettivo, ovvero quel che sta tra le due orecchie, compresa la conoscenza, le competenze, l’esperienza, l’intuizione, i contatti, il senso pratico e così via, e (ii) oggettivo: schemi o dati energetici, indipendenti dalla localizzazione, e soprattutto … risorsa infinita e non rivale.

Localizzazione, Energia e Intelletto non rivale sono beni produttivi soggetti ai diritti di proprietà e di utilizzo. Da quando la schiavitù è stata abolita, gli individui produttivi non possono essere oggetto di proprietà, ma possono sottoporsi a obbligazioni, come i debiti. Più in tema, possono contrattare l’utilizzo della loro Manodopera (energia, o Lavoro non
qualificato) e il valore d’uso dell’Intelletto soggettivo (Lavoro qualificato) con cui mettono in uso la propria energia nel modo migliore.

Ritorno al futuro

Lo strumento finanziario che sosterrà quello che Gillian Tett chiama un “Volo verso la semplicità” risale a molte centinaia se non a migliaia di anni fa. La sua stessa esistenza sostiene la causa della MMT ed è stata nebulizzata via dalla storia economica per oltre cento anni.

Per circa 500 anni i sovrani hanno finanziato le loro spese consegnando, in cambio dei valori ricevuti, un “Titolo” ai fornitori e agli investitori. Tale titolo – che assunse la forma di metà di un regolo di misura di legno (tally stick) – poteva essere restituito al ministero delle finanze in regolamento di obblighi fiscali. Non si trattava di una ricevuta di, ad esempio, oro tenuto in custodia o di un valore ricevuto; il titolo era, ed è tuttora, un pagherò o strumento creditizio (i titoli sovrani [documenti dai margini dorati] sono uno strumento creditizio datato).

La stessa espressione “tasso di ritorno” [oggi intesa generalmente come ‘redditività’ – n.d.t.] deriva dal tasso al quale il titolo può essere restituito all’emittente e tale tasso dipende all’esistenza, e dal tasso, di circolazione del valore. Creando una nuova generazione di titoli dalla circolazione di valore derivante dalla popolazione produttiva e dai beni produttivi, ad esempio il valore di rendita, o il valore energetico, possiamo rifondare completamente il credito e la moneta e consentire investimenti patrimoniali paritari diretti (“Peer to Asset”) e credito paritario diretto (“Peer to Peer”).

Come ha detto Minsky: “Qualsiasi entità economica può emettere moneta. Il vero problema è farla accettare.”

La legge è il codice

Una nuova generazione di codice legale sta ora emergendo: o, piuttosto, sta riemergendo in forma moderna un codice antico. Accordi normativi unilaterali imposti dallo “Stato di diritto” anglosassone per gestire rapporti conflittuali sono sostituiti da semplici accordi consensuali mirati a un fine comune. Questa è prassi normale a est di Suez; la battuta si
basa sul fatto che ci sono tanti lottatori di Sumo negli Stati Uniti quanti avvocati ci sono in Giappone.

Il tema e l’accettazione di una nuova generazione di Titoli o monete richiedere un tale accordo consensuale – un contesto di fiducia – all’interno del quale interagiranno i vari interessati. Uno dei risultati chiave è che gli intermediari passeranno al nuovo ruolo di fornitori di servizi.  Per gli scettici, puntualizzo innanzitutto che la disintermediazione è già in corso. Uno dei motivi dell’attuale bolla dei prezzi delle materie prime è che le banche non dispongono più del capitale per intermediare i rischi di mercato e hanno convinto investitori avversi al rischio a farlo su vasta scala. Le banche realizzano utili sostanziosi da un capitale minimo, dimostrando che la disintermediazione è effettivamente nel loro interesse finanziario.

Secondo: i P & I Clubs [Protection & Indemnity Club – Associazioni in generale mutue di assicurazione (Protezione e Indennizzo) prevalentemente nel campo dei trasporti marittimi – n.d.t.] con sede a Londra hanno a lungo assicurato mutualmente e assunto rischi in associazione che gli intermediari assicurativi non sono disponibili o non sono in grado di
assumere e per 135 anni un fornitore di servizi, la Thomas Miller, ha amministrato questi club e i relativi rischi.

Un parametro energetico

Anche se in futuro assisteremo a credito basato sulle persone e a monete basate su beni, resta il problema di quale unità convenzionale di conto debba essere utilizzata per dare un prezzo agli scambi di valore.

Una unità di energia è l’unico assoluto e allo stesso modo in cui i tappeti non sono misurati in anni luce o in unità angstrom, l’ “Unità Energetica Standard” dovrebbe essere relativa all’esperienza quotidiana, ad esempio l’equivalente energetico di 10 kilowattora. Si noti che questa unità di conto non è la stessa cosa della moneta basata sull’energia che può evolversi ed essere scambiata con riferimento al parametro.

Prevedo due grandi tendenze parallele.

La prima: soluzione dell’insostenibile debito ipotecario (basato sulla proprietà immobiliare) con il passaggio a una nuova generazione di titoli basati sui valore di rendita in uno scambio debito/capitale su vasta scala.

La seconda: transizione a un’economia sostenibile attraverso investimenti diretti in ‘Titoli energetici’ e il Grande Affare del ventunesimo secolo sarà costituito dallo scambio del valore intellettuale con il valore dell’energia risparmiata: NegaWatt e NegaBarili.

L’adozione di uno Standard Energetico conduce a nuovi calcoli che costituiscono la base di tutte le decisioni economiche. L’Economia del Dollaro diventa l’Economia dell’Energia.

Da Socialforge, un laboratorio di creazione sociale
www.socialforge.org
Originale: http://ftalphaville.ft.com/blog/2012/02/24/896381/guest-post-post-modern-fiscal-theory/
Traduzione di Giuseppe Volpe
Copyright  © 2012 Socialforge.org – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

Peer-to-Peer e Marxismo, analogie e differenze

E il dibattito ha inizio … Peer-to-Peer e Marxismo: analogie e differenze
Jean Lievens intervista Michel Bauwens

3 gennaio 2012

Pubblichiamo un’intervista molto importante e dalla tempistica critica sul rapporto tra P2P e Marxismo. Condotta da Jean Lievens con il fondatore della Fondazione P2P Alternatives, Michel Bauwens, su alcuni aspetti della sua teoria P2P e della teoria Marxista, l’intervista potrebbe rappresentare l’apertura del più grande dibattito dei prossimi anni. Anche se l’ascesa del ‘modo di produzione P2P’ e i nuovi processi politici P2P sono stati ovviamente più che determinanti nel processo di cambiamento sociale che si è attivato nel 2011, con il contributo di tale produttivo dibattito saremmo in grado di ricavare proiezioni molto più chiare sulle alternative reali al capitalismo e su come far sì che tali alternative si realizzino. In seguito alla morte della ‘condizione postmoderna’ e con il ritorno della ‘guerra di classe’, tale dibattito creerebbe uno spazio equilibrato per un coinvolgimento costruttivo tra le tradizioni critiche marxista, anarchica e post-marxista.

Il mese scorso ero a Londra dove ho assistito a una conferenza di Michel Bauwens sulle dinamiche peer-to-peer. Ho scritto un articolo in olandese per ‘De Wereld Morgen’. Fortunatamente vi è una versione rielaborata della conferenza in video su Vimeo.  P2P and the Commons as the new paradigm [P2P e i Commons come nuovo paradigma] di David Nixon su Vimeo.  Dopo la conferenza ho contattato Michel per un’intervista.

Tutti conosciamo degli esempi di P2P nel campo immateriale: Linux, Wikipedia, Arduino. Puoi darci degli esempi di P2P nel mondo ‘reale’, materiale, ad esempio nel campo della produzione?

Michel Bauwens: Arduino è già un esempio che tocca la produzione materiale poiché le schede madri progettare collaborativamente sono già prodotte e vendute sul mercato da imprese che usano il marchio Arduino. Un esempio che davvero mi piace è il Nutrient Dense Project [Progetto per l’Alta Densità di Nutrienti], una rete collaborativa di ricerca di agricoltori e di scienziati urbani che utilizza direttamente la ricerca sui nutrienti nella propria produzione immediata. Una delle aree più eccitanti è probabilmente quella delle cosiddette automobili open-source, come la Rallye Motor e il veicolo d’assalto della marina XC2V finanziato dalla Darpa, quest’ultimo basato su contributi di oltre 30.000 progetti. Lo StreetScooter, un’auto elettrica basata su Commons di progettazione imprenditoriale con la partecipazione di oltre 50 imprese è forse la più eccitante, poiché gli ordini sono già affluiti e l’auto dovrebbe essere in circolazione nelle città tedesche entro il 2013. Nella sezione Wiki della Fondazione P2P sul Product Hacking [modifica/personalizzazione di prodotti] (http://p2pfoundation.net/Product_Hacking), abbiamo annotato circa 300 progetti ad hardware aperto ma essi sono solo la punta dell’iceberg. Aiuta a distinguere la fase di progettazione, in cui le fonti partecipative e la collaborazione non sono qualitativamente diverse dalla collaborazione nel software, dalla fase della ‘fabbricazione’ che richiederebbe un’infrastruttura per la produzione aperta e distribuita che è solo marginalmente disponibile. Ma nel campo della fabbricazione abbiamo sviluppi eccitanti in direzione di infrastrutture materiali condivise quali gli spazi di co-lavoro e di modifica/personalizzazione, i sistemi di prodotti-servizi per la condivisione della auto e molti altri servizi e la miniaturizzazione della produzione mediante la stampa in 3D e i Fab Labs [Laboratori di Fabbricazione basati su trasmissione telematica di progetti], i quali hanno tutti anche versioni e aspetti open source.

Tu paragoni la transizione3 dal capitalismo al P2P alla transizione dalla schiavitù al feudalesimo, o dal feudalesimo al capitalismo. In entrambi i casi c’è stato uno scambio reciproco tra il vertice e la base. A Londra hai solo trattato della prima: gli schiavi che abbandonano il sistema e i proprietari di schiavi che trasformano gli schiavi in servi che stavano meglio di prima, ma che dire della transizione dal feudalesimo al capitalismo? Ci fu la nascita di una nuova classe e la trasformazione dei nobili in capitalisti, ma è arduo affermare che gli operai stessero meglio di prima. Dunque dov’è il cambiamento positivo in basso?

Michel Bauwens: La transizione da una forma di società di classi diseguali a un’altra è sempre problematica per le classi produttrici di valore che stanno in basso. Si può sostenere che la servitù sia intrinsecamente una posizione migliore della schiavitù, ma ha continuato ad essere sfruttamento e dominio e molti servi in precedenza erano contadini liberi. La situazione con il capitalismo non è tanto diversa; anche se ci sono state, e ci sono, tante privazioni i diritti formali dei lavoratori costituiscono certamente un miglioramento e, almeno per la classe operaia occidentale, c’è stato per un lungo
periodo un miglioramento sostanziale. Ma nel complesso i sistemi si sono avvicendati    perché il vecchio sistema non era più sostenibile e il nuovo era in generale più efficiente nel creare ricchezze materiali. Tutto dipende dal contratto sociale e dal rapporto relativo delle forze in gioco. Forti movimenti sindacali hanno enormemente migliorato la situazione dei lavoratori e la situazione nel Medioevo, tra il decimo e il tredicesimo secolo, era una situazione di miglioramento della qualità della vita. I precedenti sono, dunque, eterogenei e le persone stessi di solito hanno una chiara idea di quello che deve essere migliorato. Ad esempio quale lavoratore vorrebbe tornare alla servitù come condizione sociale? Poiché ho difficoltà a immaginare una società priva di classi, vedo i produttori paritari in conflitto con il capitale che domina la rete [netarchical] riguardo alle proprie condizioni sociali, ai loro diritti e alle loro vite materiali, fino al momento in cui i produttori paritari diverranno lo strato sociale chiave e i Commons il luogo chiave della creazione del valore. Questo non
è uno scenario scientifico con un finale certo e inevitabile bensì una descrizione del campo di tensione in cui si sviluppa la produzione paritaria.

Per proseguire con questa analogia: vedi sorgere una nuova classe nel capitalismo o una sorta di “capitalisti illuminati” che si rivolgono all’Open Source (come descritto in Wikinomics)?

Michel Bauwens: I Commons sono e saranno sempre più il cuore della creazione di valore, ma del valore continua sostanzialmente ad appropriarsi l’economi di mercato e il capitale dominante la rete è il segmento del capitale che comprende tale cambiamento e vuole trarne profitto. Ciò significa che dovranno sia consentire sia dare potere alla
produzione sociale, ma anche assoggettarla al proprio controllo in modo da potersi appropriare del valore da essa generato. La prima parte li costringe a certi tipi di comportamento strategico che promuove la condivisione, mentre la seconda li costringe a mantenere un contesto generale di continuo dominio. Questa è, in essenza, la nuova tensione sociale dell’emergente era P2P, tra le comunità di produttori paritari e i proprietari delle piattaforme. La chiave per i produttori paritari sta nel conquistare il controllo delle proprie vite e della propria riproduzione sociale e, secondo me, il modo migliore per farlo consiste nel creare i propri veicoli cooperativi/imprenditoriali che chiamo, seguendo i suggerimenti di Neil Stephenson in ‘The Diamond Age” [L’età del diamante] e di LasIndias.net, “Phyllis”, ovvero entità comunitarie/di sostegno che consentano ai cittadini di sostenere il proprio lavoro nei beni comuni e sottrarlo all’economia convenzionale della massimizzazione del profitto.

Riesci a vedere un parallelo tra il P2P e il movimento cooperativo nato nel diciottesimo secolo (socialismo utopico) o con gli hippy e le comuni degli anni sessanta?

Michel Bauwens: L’impulso all’operare in comune è uno degli aspetti permanenti
dell’umanità; con alti e bassi a seconda delle condizioni sociali, e io penso che stiamo
assistendo a una rinascita di tale impulso. Tuttavia c’è una grande differenza: le forme
cooperative di organizzazione possono ora lavorare attorno a Commons di progettazione
aperta e diventare iper-innovative e possono conseguire economie di scale tali da superare
le multinazionali basate sull’azionariato. Le cooperative e le comunità finalizzate non
sono, perciò, più “forme nane” ma in realtà l’avanguardia del nuovo sistema di produzione

P2P. Se si combinano i Commons dell’innovazione aperta condivisa (invece della
proprietà intellettuale privatizzata che rallenta l’innovazione) con queste nuove entità
di massimizzazione dei prodotti e dei Commons, si può conseguire un balzo quantico
nella produttività. E’ per questo che i capitalisti delle reti investono in piattaforme ed
è per questo che l’economia etica alternativa deve fare la stessa cosa, e se lo fa potrebbe
sostituire, nel cuore della nostra economia, le industrie finalizzate al profitto.

Tu dici che dobbiamo preparare un’alternativa al capitalismo. Il movimento
P2P è una specie di ‘fuga’?

Michel Bauwens: La crescita infinita non è possibile in un ambiente finito e noi ora
stiamo toccando i limiti della crescita. Questo significa che il capitalismo è sempre meno
in grado di uscire dai suoi problemi attraverso la crescita e che la percentuale dell’1% può
crescere solo mediante l’esproprio, ed è a questo che stiamo assistendo ora in Europa, con

la Grecia come esempio anticipato di quel che è in serbo per le popolazioni lavoratrici.
Dunque non si tratta di fuga. Il vecchio sistema sta morendo e deve essere sostituito, ma
potrebbe essere sostituito da qualcosa di peggiore, potrebbe regredire come nei primi
secoli dopo la caduta dell’Impero Romano, o potrebbe riorganizzarsi a un livello più
elevato di risultati e complessità, il che è quello che indica l’approccio P2P.

Tu descrivi Occupy come un esempio di produzione paritaria di Commons
politici. In che modo è diverso dai movimenti storici ‘anarchici’ o ‘comunisti’
come la Comune di Parigi, Barcellona 1937 o forse persino la Rivoluzione
Russa?

Michel Bauwens: Se si osserva un’occupazione si vede una comunità che produce
la sua politica autonomamente, senza seguire movimenti politici gerarchici o autoritari
con un programma preordinato; si vedono istituzioni benefiche che si fanno carico
dell’approvvigionamento degli occupanti (cibo, assistenza sanitaria) e la creazione di
un’economia etica attorno al movimento (come il Progetto di Occupy dei Venditori di
Strada). Ciò prefigura una nuova forma di società in cui i Commons sono al cuore della
creazione del valore; questi Commons sono amministrati da istituzioni non a scopo di
lucro e la sussistenza è assicurata mediante un’economia etica. Naturalmente ci sono
precedenti storici, ma ciò che è nuovo è lo straordinario potenziale organizzativo, di
mobilitazione e co-apprendimento delle sue reti. Occupy opera come un’API [Application
Programming Interface – Applicazione di interfaccia di programmazione] aperta con
moduli, quali gli ‘accampamenti di protesta’, le ‘assemblee generali’, che possono essere
utilizzati come modelli ed essere modificati da tutti, senza necessità di una dirigenza
centrale. Ora siamo in grado di avere un coordinamento e un mutuo allineamento globali

di una moltitudine di dinamiche di piccoli gruppi, e ciò richiede un nuovo tipo di guida.
La consapevolezza del momento storico del Picco della Gerarchia, il momento in cui le
reti distribuite asimmetricamente possono sfidare le istituzioni verticali in modi che non
erano possibili in precedenza, costringe i movimenti sociali a guardare a nuove forme di
governabilità … ma queste non sono date e devono essere scoperte sperimentalmente; e,
naturalmente, ci saranno lezioni valide da apprendere dai movimenti del passato!

Affinché il P2P fiorisca davvero, dobbiamo liberarci dei diritti di proprietà
intellettuale, dei diritti d’autore, dei brevetti, ecc. Come pensi che possiamo
riuscirci?

Michel Bauwens: Personalmente non sono un abolizionista puro, perché ritengo che
un mucchio di artisti e creativi credano nella necessità dei diritti d’autore, perciò penso
che possiamo discutere di numeri. Riportare la protezione a periodi ragionevoli di tempo,

non più dei 14 anni originali di protezione, o meno; il Partito Pirata propone un limite di
cinque anni. Accanto a ciò vi è l’offerta di una scelta ai creativi, rendendo popolari licenze
basate sulle scelte, come i Creativi Commons. Ma la priorità sta nel trovare nuovi modi
di finanziare la creazione … ciò si può fare attraverso licenze collettive e altre forme di
finanziamento pubblico, promuovendo e sostenendo modelli di commercio aperti e, alla fin
fine, mediante un reddito minimo, che riconosca che ogni cittadino contribuisce al valore
e lo crea. Questi obiettivi si possono conseguire in parte attraverso l’innovazione sociale
che deriva dalle comunità di produzione paritaria che sperimentano intensamente nuove
forme di commercio, quali il movimento per la cultura gratuita, i Partiti Pirata, e altre
espressioni della nuova cultura della condivisione.

A me pare che il P2P stia creando una specie di “mondo interamente nuovo”,
ma senza alcun riferimento o collegamento all’attuale sistema politico. Se
Occupy rappresenta un’alternativa che si impegnasse in politica, qual è il
collegamento tra la politica paritaria e la democrazia borghese e i partiti
politici?

Michel Bauwens: Questa è una domanda molto difficile e deriva da un paradosso.
Un aspetto è la crescente consapevolezza sociale che la nostra attuale democrazia è una
facciata e che lo stato è stato occupato da una fazione finanziaria predatrice, mentre
i politici non vedono altra via d’uscita che soccombere ai suoi ricatti. Ma l’altro lato
è che le libertà e i diritti popolari e il reddito privato e sociale sono sempre più sotto
pressione, il che porta alla mobilitazione politica e sociale così come a un efficace impegno
politico. Il primo aspetto porta a una continua innovazione democratica dalla nuova
cultura P2P; pensa ai meccanismi di amministrazione paritari nelle comunità paritarie

di produzione; nuove invenzioni, come il voto dinamico, e anche se questi meccanismi
operano all’esterno delle convenzioni vi sono anche inserite nuove forme di creazione
di valore, nuove istituzioni sociali P2P e perciò pronte a crescere. Il secondo aspetto
porta a nuove forze politiche e sociali che operano all’interno del sistema attuale, come
l’emergente Partito Pirata. In Brasile ho sentito che il vivace movimento culturale Eixo
do Foro, che ha una contro-economia funzionante centrata sulla musica, si sta anche
politicizzando e impegnando nella politica locale. Il secondo conduce a quella che chiamo
politica diagonale, ovvero a un mutuo adattamento tra le forze e le prassi emergenti P2P e
le vecchie realtà istituzionali.
Nella misura in cui ciò sia inefficace, allontana dalla soluzione derivante dal primo aspetto,
ovvero prepara a un più radicale e rivoluzionario riordinamento delle nostre istituzioni.
Significativamente un membro del Partito Pirata Svedese ha scritto una volta che il Partito
Pirata è l’ultima possibilità di evitare la rivoluzione. Nella misura in cui l’attuale sistema
rifiuta di adattarsi, in quella misura accresce la necessità e la spinta a trasformazioni più

radicali.

Come valuti l’impatto del P2P sul movimento sindacale? Non mina anche le
strutture burocratiche delle organizzazioni dei lavoratori?

Michel Bauwens: Sono in contatto con giovani attivisti sindacali e del lavoro che sono
forti sostenitori del movimento sindacale in rete e vediamo anche come il movimento
Occupy ha già radicalizzato il movimento sindacale statunitense. Ma alla fine la vecchia
struttura istituzionale e gerarchica dei sindacati, così come la loro crescente incapacità di
proteggere le conquiste sociali nell’attuale sistema regressivo devono anch’esse condurre

a un profondo rinnovamento del movimento sindacale. In un certo modo il movimento
P2P è effettivamente un’espressione del nuovo strato dominante di lavoratori del settore
cognitivo, che in occidente sono il pilastro del lavoro produttivo. P2P è la loro cultura
e quel che deve essere realizzato per realizzare un lavoro produttivo e utile. In quel
senso il movimento P2P è il nuovo movimento del lavoro del ventunesimo secolo, con
gli Indignados e Occupy come prima espressione di quel nuovo sindacato ma anche di
sensibilità civica.

Tu dichiari che P2P rende possibile una nuova e “più elevata” forma di
società. Prima non è stato così perché la tecnologia non esisteva. I Marxisti
dicono la stessa cosa da più di 150 anni. Pensi che si sbagliassero allora,
che forse abbiano ragione oggi oppure P2P è qualcosa di ‘completamente
diverso’?

Michel Bauwens: Considero il marxismo e le altre forme di socialismo e anarchismo,

alla fin fine come un’espressione della dicotomia all’interno del sistema capitalista
industriale e che propongono altre logiche per gestire il modello industriale. Ma P2P è
espressione delle dinamiche di classe e sociali in evoluzione sotto il capitalismo cognitivo.
E anche se il primo era sostanzialmente anti-capitalista e non poteva realmente puntare
a una nuovo modello iperproduttivo di organizzazione della produzione (il socialismo
era un’ipotesi, e gli esempi della sua attuazione reale inevitabilmente hanno deluso; non
vi era un socialismo emergente all’interno del capitalismo e solo il ‘capitalismo di stato’
al di fuori di esso) quello che è diverso nel movimento P2P è che può puntare a modelli
già esistenti che superano in cooperazione e competizione i modelli capitalisti classici,
ovvero è post-capitalista. Marx aveva ragione riguardo al capitalismo ma aveva torto
riguardo al socialismo e io credo che il modello, diretto politicamente, del cambiamento
sociale, quando non sia basato su un modello produttivo già esistente, sia stato mal
concepito. Il movimento P2P è perciò pronto a realizzare quello che i movimenti del
diciannovesimo e ventesimo secolo non hanno potuto realizzare perché a loro non era

disponibile l’alternativa iperproduttiva. La politica del fluire del P2P da una prassi sociale
già esistente, quella è davvero la differenza chiave.
Originale : http://forum.tanit.co/joomla/index.php/forum/5-General-
Discussion-%28public%29/694-Peer-to-Peer-and-Marxism#694

Repost: https://snuproject.wordpress.com/2012/01/03/and-the-debate-begins-peer-to-peer-and-marxism-
analogies-and-differences-jean-lievens-interviewed-with-michel-bauwens/

L’economia dello Sciame, Un futuro distopico non è inevitabile

Di Zacqary Adam Green – 12 febbraio 2012

Mentre persiste la crisi della disoccupazione nelle nazioni sviluppate cresce un sentimento di colpevolizzazione della tecnologia. Non è semplicemente un contraccolpo luddista contro il progresso, ma il timore, tra i fautori della tecnologia, che possano realizzarsi le cupe predizioni del cinema cyberpunk. Non deve essere necessariamente così.

Si può discutere quanto del progresso tecnologico sia da biasimare per l’attuale crisi della disoccupazione, ma sicuramente alla fine diverrà un tema centrale. L’ingegnere informatico Jon Evans ha sintetizzato bene il problema:

Gli Stati Uniti, l’Europa e il Giappone sembrano tutti barcollare senza sosta di crisi in crisi; la maggior parte del mondo sviluppato lotta contro livelli debilitanti di disoccupazione ma, al tempo stesso, il mondo tecnologico sta esplodendo come fosse il 1999. Non sembra un po’ strano?

Comincia a sembrare che possiamo essere entrati in un’economia a doppio binario, in cui una piccola minoranza raccoglie la maggior parte dei benefici di una tecnologia che distrugge più posti di lavoro di quanti ne crei. Come dice il mio amico Simon Law: “Prima abbiamo automatizzato il lavoro servile, ora automatizziamo il lavoro della classe media. Sfortunatamente abbiamo ancora necessità che le persone abbiano un lavoro una volta diventate adulte. Questa tendenza finirà per diventare un grosso problema …”

Il problema è, naturalmente, la disuguaglianza di reddito. In questo futuro plausibile (di nuovo, l’eliminazione dei posti di lavoro ad opera delle macchine non è certamente la spiegazione completa) gli addetti a progettare e a provvedere alla manutenzione dei sistemi automatici saranno gli unici con posti di lavoro ben remunerati (o essenziali). Ma ci sono al mondo sette miliardi di persone ed è arduo sostenere che saranno disponibili sette miliardi di posti di lavoro di questo genere. Quelli non abbastanza fortunati da occupare una delle poche posizioni cruciali di progettazione saranno lasciati a svolgere qualsiasi lavoro servile che non sia stato ancora automatizzato.

Quale vergogna! Dopotutto il vero senso dello sviluppare la tecnologia non è di rendere le cose più agevoli per gli esseri umani? Infatti, come sostiene il Capitalismo ++ “la disoccupazione spesso crea le più grandi svolte della storia umana. Non dovremmo perseguire la piena occupazione; dovremmo perseguire la piena disoccupazione.[Grassetto nell’originale] . La disoccupazione mette a disposizione molto tempo libero che, al minimo, potremmo dedicare allo svago e, al meglio, potrebbe essere incanalato alla creatività e alla realizzazione di idee. E dunque che vergogna che la tecnologia sembri pronta non a liberare dal lavoro miliardi di persone, bensì a tagliare completamente o a ridurre drasticamente i mezzi perché si sostengano!

Tali orribili livelli di disuguaglianza sono un’ingiustizia; masse di persone costrette a lottare per sopravvivere perché non sono sufficientemente fortunate da strappare una delle poche occupazioni di vertice. Persino in una meritocrazia perfetta ed equa, in cui tutti i vincitori siano davvero i più qualificati, i perdenti non meriterebbero certo il loro destino.

Di certo nessuno si schiererebbe a favore di ciò. I disaffrancati si solleverebbero e si batterebbero per la loro dignità, non è vero? Jon Evan non ne è così sicuro:

Viene anche suggerito che la disuguaglianza possa causare tumulti e violenze nel mondo occidentale. Non scommetteteci. Vero, la disuguaglianza ha provocato il movimento Occupy e, in misura minore, il Tea Party; ma ho una certa esperienza e fidatevi: il mondo è pieno di nazioni con una minoranza minuscolo di ricchissimi, un’élite appena un po’ più allargata che se la passa bene, un limitata classe media e una gran maggioranza di persone che, a diversi livelli, è povera e in lotta per tirare avanti. Brasile, Cina, India e Russia, per esempio, per citare un famoso quartetto. Non c’è nulla di insolito o di intrinsecamente instabile a proposito di tale genere di disuguaglianza. In effetti è la norma nella maggior parte del mondo.

Forse la disuguaglianza non è intrinsecamente instabile. Forse una sollevazione e una lotta di massa per la giustizia non sono inevitabili. Ma, di nuovo, come attesta il commento di Evans nel paragrafo a proposito dei movimenti Occupy e Tea Party, la disuguaglianza non è neppure stabile e una sollevazione di massa non è impossibile. La distopia cupa, diseguale, di genere cyberpunk che Evans ritiene si stia approssimando è solo uno dei futuri possibili e dipende da noi fare qualcosa per fermarla.

Non dimentichiamo che il risparmio di manodopera non è la sola cosa che la tecnologia produce. Ad esempio costruire robot elimina la necessità di operai umani nelle fabbriche; può eliminare anche la necessità delle fabbriche. La condivisione di file e Internet hanno operato per sconvolgere e minacciare di portare al collasso l’industria dello spettacolo, rendendola contemporaneamente obsoleta consentendo a persone creative indipendenti di finanziare, promuovere e distribuire le proprie opere attraverso i canali peer-to-peer. L’agricoltura automatica e la tecnologia idroponica hanno tolto il lavoro ai dipendenti delle fattorie ma hanno anche aperto la possibilità di coltivazioni interne a bassa manutenzione in ogni paese e città. Questi sono solo alcuni esempi di come per ogni insieme di occupazioni distrutte dal processo tecnologico, si aprono intere nuove serie di possibilità.

In questo futuro, in cui la maggior parte del lavoro servile è automatizzato, miliardi di persone non hanno un luogo di lavoro in cui recarsi e dove ricevere istruzioni su cosa fare tutto il giorno. Hanno anche gli strumenti per fabbricare qualsiasi cosa di cui siano in grado di creare un modello al computer, di diffondere qualsiasi opera d’arte siano in grado di creare in tutto il mondo e di coltivare il cibo esattamente nelle comunità in cui vivono. Improvvisamente il campo di gioco sembra molto più equilibrato. Invece di cercare lavoro le persone possono creare il proprio.

Il progresso tecnologico può benissimo creare un futuro in cui i datori di lavoro abbiano meno cose che devono far fare ad altri. Bene. E’ ora che cada in disgrazia il paradigma di sostenersi andando a cercare qualcuno che ci dica cosa fare. Ma dobbiamo assicurarci che, una volta che non ci siano più posti di lavoro da trovare, noi disponiamo tutti degli strumenti e delle risorse necessarie accessibili per crearci il nostro lavoro. Dobbiamo far operare alla società e al nostro modo di vivere una svolta in direzione di questo obiettivo e sfidare l’idea comune che la creazione di lavoro e l’imprenditorialità sia solo per una piccola minoranza di folli, di appassionati o di ricchi. Ci si può arrivare, è fattibile, ma non arriverà da sé.

Un mondo migliore è possibile ma non è più inevitabile di un mondo peggiore. Far sì che si realizzi è il primo lavoro che dobbiamo crearci.

A proposito dell’Autore: Zacqary Adam Green

Zacqary è un regista, artista e Capo Bottintesta [Plankhead] Esecutivo di Plankhead un’organizzazione/collettivo/nave pirata di libera cultura e arti. Produce progetti assurdi con titoli tipo “Il tuo volto è un sassofono” da casa sua a Long Island, New York. Nel tempo libero è una volpe rossa di nome Xerxes.

Originale: http://falkvinge.net/2011/11/13/a-dystopian-future-is-not-inevitable/