Che cosa è il Sardex?

Sardex e le economie complementari

di Valerio Valentini (Byoblu.com) – 24/01/2013

Nel 2009, in provincia di Cagliari, quattro ragazzi danno vita ad una start-up. Che però non è soltanto una delle tante aziende che nascono in Italia e che sono destinate, il più delle volte, ad un rapido decesso. Quest’azienda si chiama Sardex e rappresenta un sistema economico complementare a quello tradizionale. Ma non solo. Sardex è anche un nuovo modo di concepire l’economia, è la dimostrazione che si può tornare a coniugare i rapporti commerciali con quelli sociali, rifiutando le follie del capitalismo sfrenato che ci ha condotto questa miseria. Umana, oltreché finanziaria.

http://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=Qdg9MfXEs_0#!”

 Abbiamo qui, ospite del blog, Carlo Mancosu, uno dei quattro fondatori di Sardex.

  Che cos’è Sardex?

Sardex è un circuito di credito reciproco tra aziende. Il suo funzionamento è abbastanza semplice, in quanto funziona esattamente come una camera di compensazione. Le aziende si iscrivono al circuito, dopodiché gli viene aperto un conto all’interno della camera di compensazione stessa e le aziende possono acquistare e vendere i propri beni e servizi all’interno della rete. Con una particolarità: utilizzando un’unità di conto interna, che nel nostro caso si chiama Sardex. Ogni Sardex equivale ad 1 euro.
Come funzionano gli acquisti e le vendite? Funzionano in questa maniera: ad ogni azienda è accordata la possibilità di andare in rosso entro una certa cifra, sul proprio conto. Nel momento in cui si fanno degli acquisti, il proprio conto Sardex scende per un importo equivalente agli acquisti e per recuperare questi acquisti non si dovrà far altro che vendere i propri beni e servizi ad uno dei membri della rete che ne faccia richiesta.
Oltre a questo programma – che è un programma “b to b”, vale a dire “business to business”, quindi tra aziende – che è stato il punto di partenza del progetto, oggi abbiamo affiancato un programma che abbiamo chiamato “business to employ”, quindi “b to e”. Questo programma permette anche ai dipendenti delle aziende di avere un conto all’interno della piattaforma Sardex, e di ricevere ciò che oggi le aziende per mancanza di liquidità non riescono più a dare, ovvero dei benefit, dei rimborsi, o delle anticipazioni sulle retribuzioni future. Quest’ultima parte è piuttosto importante, perché attraverso le anticipazioni sulle retribuzioni future, i dipendenti delle nostre aziende possono affrontare delle spese improvvise. Ad esempio può capitare che si debbano cambiare i pneumatici, si debbano fare dei lavori di ristrutturazione a casa piuttosto che affrontare delle visite specialistiche. Ebbene, ottenendo un’anticipazione dal proprio datore di lavoro in crediti Sardex, si affronta questa spesa senza dover ricorrere al credito tradizionale, quindi ad una finanziaria, e neppure andando a erodere i propri risparmi. Questo naturalmente va ad incidere anche sul piano economico della comunità, in quanto quella parte di potere d’acquisto del dipendente, la cui vita è legata a quella delle piccole imprese del suo territorio, si lega al territorio anch’esso. E così la ricchezza rimane ancorata al luogo si vive e si lavora.
Poi ci sarà una terza fase, che avvieremo, se tutto va bene, entro la metà di quest’anno. Si tratta della fase cosiddetta “b to c”, ovvero “business to consumers”. So che la parola “consumers” è un po’ brutta, nel modo in cui la si usa comunemente. Ma con “consumers” in realtà noi ci riferiamo ai cittadini: anche loro potranno entrare all’interno della rete. E la domanda che viene spontanea un po’ a tutti è: ma i cittadini cosa daranno alle imprese? Daranno forse la cosa più preziosa che hanno, ovvero il loro consumo critico e il loro potere d’acquisto. Quindi anche loro, decidendo di spendere i propri euro all’interno della rete riceveranno un pay back, quindi diciamo una ricarica in moneta complementare, spendibile all’interno della rete. Questo è molto più efficace di uno sconto, perché mentre lo sconto è una cosa a perdere e soprattutto gli euro che rimangono in tasca al consumatore spesso vengono spesi in attività che poi non lasciano nulla sul territorio, al contrario questa ricarica crea un affare futuro per un’altra azienda del circuito.
Ecco: molto in breve, questo è il funzionamento.

 Quindi se io sono un libero professionista o un commerciante, per poter entrare in questo circuito, come devo muovermi e cosa devo fare?

La prima cosa da fare è senz’altro richiedere un incontro attraverso il forum di contatto del nostro sito, perché l’ingresso di ogni azienda avviene seguendo vari step. Non tutti possono entrare in qualsiasi momento nel circuito, perché noi badiamo molto alla crescita armonica del circuito medesimo. Quindi per prima cosa incontriamo l’azienda, ci conosciamo. Anche perché uno dei nostri obiettivi è rivalutare le relazioni personali che sono altrettanto importanti e spesso son foriere di relazioni economiche. Ci incontriamo con l’imprenditore, dunque, e facciamo un’analisi dei precedenti bilanci della sua azienda, analizziamo con loro le loro spese, e soprattutto il loro potenziale inespresso.
Spiego meglio il concetto di potenziale inespresso: in economia l’unica domanda che generalmente viene tenuta in considerazione è la domanda che è coperta da beni finanziari, cioè da moneta. In realtà i nostri bisogni spesso vanno oltre alla nostra copertura finanziaria; altrettanto spesso c’è un’offerta di prodotti che non trova collocazione nel mercato e quindi è quella che il professor De Soto definisce “dead capital”, ovvero capitale morto. Noi non facciamo altro che prendere questo capitale e trasformarlo in liquidità utile all’impresa.
Quindi, come dicevo, analizziamo insieme questo capitale inespresso (quanti prodotti non trovano collocazione sul mercato, quanto tempo inutilizzato ha l’azienda …), lo incrociamo con la disponibilità di beni e servizi all’interno del circuito, dopodiché capiamo effettivamente quanto, fin da subito, quell’azienda può lavorare all’interno della rete. Se i tempi sono maturi, ovvero se c’è un effettivo spazio di mercato in questo momento nel circuito per quell’azienda, procediamo con l’iscrizione. Diversamente l’azienda viene tenuta in stand-by e viene ricontattata nel momento in cui il mercato richiederà i suoi beni e servizi. Questo perché, ovviamente, noi offriamo un servizio professionale, e l’ingresso nel circuito ha un costo: dunque non ce la sentiamo di far affrontare un costo, soprattutto in questo periodo in cui la liquidità viene a mancare, ad un’azienda che poi non avrà effettivi benefici dall’inserimento nella rete.

 Quindi, ricapitolando: io sono un commerciante che produce elettrodomestici piuttosto che ortaggi e mi rivolgo a voi. Pago una sorta di quota di iscrizione. Voi valutate se il mio ingresso nel circuito del Sardex è compatibile con le attività economiche degli altri iscritti e, se mi ritenete compatibile, io posso entrare a tutti gli effetti nel circuito. Da quel momento, quindi, le mie spese su quel territorio potrò farle non più soltanto in euro, cioè la moneta che tutti utilizziamo, ma anche, parzialmente e a mia discrezione, in Sardex. Cioè, per fare un esempio concreto, se poi io vado dal dentista e questi mi chiede 5 mila euro per una protesi odontoiatrica, posso pagare 2 mila euro in moneta corrente e 3 mila euro in servizi e beni equivalenti a 3 mila Sardex, fermo restando che ogni Sardex vale un euro.

Esatto. Anche se in realtà accade molto più spesso che le transazioni avvengano completamente in crediti Sardex. Mi spiego meglio. Noi abbiamo una regola fondamentale che, in pratica, prevede questo: sino a mille euro di valore commerciale, per contratto, tutte le aziende, per quanto riguarda i rapporti interni al circuito, sono obbligate ad effettuare la vendita completamente in Sardex. Superata questa soglia, ogni azienda indica una percentuale di compensazione minima che intende applicare ai pagamenti al di sopra di mille euro. Sulla base della nostra esperienza, in ogni caso, posso affermare che il circuito funziona molto meglio quando le aziende danno una disponibilità al 100%.
Però c’è una cosa importante: noi facciamo in modo che le aziende non si scoprano troppo. Bisogna sempre tener presente che, anche per gli aderenti al circuito, ci sono spese che non sono affrontabili in Sardex, perché il “socio di maggioranza”, cioè lo Stato italiano, non accetta i Sardex; di conseguenza noi tendiamo a dare delle soglie di garanzia alle aziende, per cui studiamo assieme quello che è l’importo di beni e servizi che l’azienda può mettere a disposizione del circuito durante un anno. Una volta che abbiamo stabilito insieme qual è questa soglia, essa non è altro che una percentuale del totale del fatturato. Quindi per i servizi questa percentuale può arrivare anche al 25%, mentre, per i beni materiali, soprattutto per il commercio, questa soglia si aggira tra il 10 ed il 15%. Questo permette alle aziende di usufruire dei vantaggi ma di non squilibrarsi troppo nel proprio cash flow.

 Come faccio a racimolare il primo gruzzolo di Sardex, entrando nel circuito? Quanti sono, cioè, i Sardex che mi vengono attributi come base di partenza, e come li ottengo?

Innanzitutto, essendo una camera di compensazione, tutti i saldi partono da zero. In realtà non c’è nessun gruzzoletto di Sardex all’inizio, nel senso che per accumulare i Sardex devi effettuare delle vendite. Quello che noi, per conto delle aziende aderenti al circuito, concediamo, è un piccolo affidamento, se così lo vogliamo chiamare. Ovvero la possibilità di “andare sotto” nel proprio conto. Quindi c’è un’analisi del merito creditorio, rifacendoci però al senso etimologico di “credito”, quindi nel significato di “fiducia”: cioè la fiducia che la rete accorda all’azienda. Per fare questo noi abbiamo dei parametri, effettuiamo dei calcoli; in definitiva l’affidamento è sempre una porzione della disponibilità commerciale annuale che l’azienda c’ha dato. Per fare un esempio: se un’azienda ci dà disponibilità di 20 mila euro dei propri beni e servizi, l’affidamento sarà una percentuale sui 20 mila euro. Questa percentuale viene calcolata in base a tutta una serie di parametri: dal merito creditizio tradizionale a tante altre cose, tra cui ad esempio la vendibilità di quel bene o servizio all’interno della rete. Mi spiego meglio: è chiaro che se una persona vende carburanti o gas avrà un affidamento più alto perché il suo bene è più facilmente piazzabile all’interno della rete, quindi avrà più facilità a recuperare qualora vada in debito; invece una persona che vende barchette di legno fatte con gli stecchini – ammesso che in questo momento riuscissimo ad accoglierlo – probabilmente avrebbe un affidamento piuttosto piccolo.
Quindi, in sostanza, se un aderente decide di vendere, come prima azione, all’interno del circuito, maturerà dei crediti attraverso le sue vendite. Se un aderente deciderà di acquistare il suo conto Sardex andrà in rosso e per ripagare avrà 12 mesi di tempo per vendere i propri beni e servizi per un quantitativo equipollente. Naturalmente noi facciamo tutta una serie di operazioni affinché in questi 12 mesi ci sia la possibilità di vendere i propri beni e servizi e quindi di non incorrere, alla scadenza dei 12 mesi, in un pagamento in moneta corrente.

 E per estinguere questo debito c’è un tasso di interesse?

Assolutamente no, non c’è nessun tasso di interesse. E anzi la questione degli interessi è una cosa piuttosto importante all’interno della camera di compensazione. Il trattamento di debitori e creditori all’interno della camera di compensazione è simmetrico. Questo perché, innanzitutto, non si parte da dei depositi, cioè il creditore non ha depositato nulla, contrariamente a ciò che avviene nel sistema bancario. In secondo luogo, se – come succede nel sistema finanziario attuale – si continuano a dare dei premi di tesorizzazione, e si premiano quindi le aziende in credito affinché facciano crescere il proprio credito anziché rimettere in circolazione la moneta, di fatto non si fa altro che impedire ai debitori di estinguere il proprio debito. Perché, ripeto, la somma dei debiti e dei credito è sempre uguale a zero.
All’interno di Sardex, invece, attraverso l’assenza di interessi, abbiamo due spinte, che nel sistema tradizionale sono contrapposte, ma che nel nostro circuito convergono verso un punto di equilibrio. Perché da una parte il creditore sarà portato a spendere il più presto possibile i propri crediti per non incorrere nell’inflazione dovuta all’unità di conto interna con la valuta ufficiale, che è soggetta a inflazione. Dall’altra parte il debitore farà di tutto per ripagare in beni e servizi il proprio debito di modo da non avere esborso in moneta corrente.
Questo, secondo me, oltre a creare dell’equilibrio, ha sancito il successo di Sardex per l’altissima velocità di circolazione dei crediti. Abbiamo calcolato che nel 2012 ogni credito Sardex è passato di mano almeno 6 volte, contro le 1,2 dell’euro. Quindi questo impulso dovuto all’assenza di interessi da una parte, e dall’altra al grande interesse del debitore nel ripagare il proprio debito, ha creato un vero e proprio circolo virtuoso.

 Quindi un sistema molto dinamico. Ma come è nata questa iniziativa?

Nasce sotto la spinta di tutta una serie di considerazioni, che sono perlopiù personali: in parte di natura territoriale, in parte di natura sistemica. Diciamo che nel 2007 sapevamo quello che sarebbe successo. Non perché siamo dei veggenti, ma perché in realtà si sapeva benissimo che sarebbe esplosa la crisi dei sub-prime. Dunque sapevamo che la finanza con i suoi prodotti, con la sua “quasi-liquidità”, e con le cartolarizzazioni, avrebbe cerato dei grossi problemi. E poiché il centro del sistema era proprio il settore bancario, questo problema si sarebbe trasformato presto in credit crunch. L’altra ragione, che è territoriale, è che io vivo in Sardegna, una regione che era già in una situazione di credit crunch. Quindi quando è esplosa la crisi finanziaria e si son veramente chiusi i rubinetti, non c’erano davvero più parole quello che era un credit crunch elevato al quadrato. Una situazione davvero drammatica.
Queste analisi erano accompagniate, inoltre, da una riflessione più intima: nel sistema monetario attuale, il valore del danaro è dato dal suo sottostante, ovvero dai beni e servizi che esso permette di acquistare. E questi beni e servizi, nonostante la crisi finanziaria, non sarebbero comunque venuti a mancare. Il giorno prima e il giorno dopo la caduta di Lehman Brothers, infatti, mio padre s’è svegliato come giorno per andare a lavoro, le aziende erano aperte e hanno prodotto: nulla, nella loro quotidianità, era davvero cambiato. Quindi la loro capacità produttiva, la loro capacità di produrre valore, era rimasta invariata.

Stai insomma dicendo che quella nata nel 2008 è una crisi più di consumi che di produzione.

Diciamo che è una crisi di domanda, come molto spesso succede. Ma è soprattutto una crisi di mezzi finanziari di produzione, nel senso che se io non ho il credito alla base che mi permette di produrre, difficilmente riuscirò a produrre, quindi difficilmente riuscirò a dare lavoro, e dare salari: e quindi non riuscirò ad aumentare la domanda.
Poi però è intervenuta la crisi dei debiti sovrani, che ha colpito soprattutto quelle nazioni, come l’Italia, il cui social welfare è piuttosto forte. Spesso in queste nazioni è elevato anche lo spreco, non lo metto in dubbio, però se posso permettermi di esprimere un parere su questo piano di austerità estrema, non ho dubbi nel ritenere che non ha cerato dei benefici. I dati sono abbastanza chiari: sostanzialmente il debito pubblico italiano lo scorso anno è cresciuto di 100 miliardi di euro; contemporaneamente, un abbassamento dello spread di 200 punti base non ha fatto altro che portare un risparmio, in prospettiva, di 6 miliardi il primo anno, 12 il secondo e 18 il terzo. Quindi non andare ad alimentare politiche per la crescita sicuramente non aiuta.

Infine c’è un’altra ragione che ci ha spinto a lanciarsi nel progetto di Sardex. Io vivo in una regione, che è la Sardegna, come vi dicevo, che è vittima di epiteti storico piuttosto degradanti: gli Spagnoli ci definivamo “pocos, locos y malunidos”, cioè “pochi, pazzi e disuniti”, e in Sardegna per lungo tempo pensare di parlare di collaborazione era un’utopia. Tutto dicevano che i sardi non sarebbero mai stati capaci di collaborare. Noi eravamo intimamente convinti, invece, che ci fosse una forte esigenza di collaborazione, e infatti ne abbiamo dato dimostrazione, perché siamo riusciti a metter insieme, in questo sistema di Srdex, oltre 900 aziende. E accanto a queste 900 aziende abbiamo cominciato la sperimentazione con i dipendenti, e anche lì c’è stata una forte voglia di fare rete. Questo perché contrariamente a ciò che si pensa, le economie di rete sono evidentemente il futuro dell’economia. Si è sempre parlato di economia di scala, si è sempre parlato di crescita e di gigantìasi. Io invece la giagnatìasi la vedo come una malattia, perché inevitabilmente porta ai transfert e ai monopoli: tutte cose che fanno male al mercato. Noi non vogliamo questo. Noi siamo fermi sostenitori del mercato. Un mercato di libera concorrenza e non viziato dai fallimenti.

Quindi abbiamo cercato di combattere questi luoghi comuni, e di fare economia di rete. E direi con un discreto successo. Anche perché l’iniziativa è stata piuttosto innovativa, e del resto quando si parla di danaro sappiamo che si tocca il dogma per antonomasia della nostra società. Cito sempre Sant’Agostino quando parlo di danaro, facendo un parallelismo con quanto lui, nelle Confessioni, diceva in riferimento al tempo: “Se nessuno me lo chiede so che cos’è, ma se qualcuno me lo chiede, non so rispondere”. Lo stesso avviene esattamente per il danaro: se io chiedo alla gente cos’è il danaro, la gente non mi sa rispondere, però intimamente, utilizzandolo ogni giorno, è convinta di sapere cosa sia. Il grande fraintendimento è confondere il segno con il valore: il danaro è il segno, ma non è il valore. E quindi agire su questo tipo di tematica, e comunque avere il successo che, molto umilmente, nel nostro piccolo abbiamo avuto, mi fa ben pensare che la Sardegna invece possa essere la fucina di questo cambiamento.

 Nella vostra logica, che è poi quella che vi ha portato a creare il Sardex, credo di poter riscontrare due elementi innovativi rispetto a quella che è la comune dialettica politico-economica alla quale siamo abituati ad assistere in questi anni. Il primo è che non è vero che è impossibile creare un sistema alternativo a quello del capitalismo sfrenato che ci ha portati a questa crisi. E il secondo elemento innovativo, e in parte complementare al precedente, è che non è vero che in un mondo ormai così globalizzato, questa globalizzazione è ormai un tabù intoccabile, un fenomeno irreversibile che va accettato a priori: se ci si organizza in maniera intelligente si può tornare ad un’economia su scale ridotte. Che garantisce anche dei vantaggi. Ad esempio ho letto un intervento di una grande intellettuale sarda, che è Michela Murgia, la quale parlava proprio del valore sociale, lei lo definiva addirittura pedagogico, di questa iniziativa. Questo perché Sardex ha permesso ad aziende che vivevano nello stesso comune, spesso a pochi chilometri di distanza, di conoscersi: aziende che in precedenza non conoscevano l’una i servizi che l’altra poteva offrire, e che invece attraverso il Sardex, questa sorta di rete di conoscenze oltreché di servizi, hanno potuto, in qualche modo, unire le forze. Magari il produttore di beni alimentari ha scoperto che nello stesso paese c’era una ditta di trasporti, e si sono messi d’accordo per trasportare frutta e verdura nel paese vicino. Mi rendo conto che sono esempi magari banali, ma sono anche molto indicativi.
In realtà, voi avete dimostrato che per certi versi, un’alternativa è possibile. Quello che mi chiedo è: questo esperimento ha dato già dei frutti a oltre 3 anni dalla sua creazione? Portaci un po’ dentro a quelli che sono i dati, le cifre del Sardex!

Certo. Però prima, se posso, vorrei fare un piccolo inciso sulla globalizzazione.

 Prego.

Purtroppo oggi “globalizzazione” è un termine abusato. Diciamo che se Sardex esiste è anche grazie alla globalizzazione, perché è proprio grazie alla rete, principalmente, al world wide web e alle grandi possibilità che ci ha dato, abbiamo potuto realizzare il progetto. Ti faccio presente che Sardex nasce nel 2009, e l’adsl nel mio piccolo paese arriva proprio in quell’anno. Non è un caso: prima di allora non avremmo neanche potuto pensare di fare il Sardex

 Quindi avete preso quanto di positivo c’era in questo fenomeno, mi pare di capire.

Sì, diciamo che la globalizzazione delle idee, lo scambio, la valorizzazione delle diversità che si oppone all’omogeneizzazione, dovrebbero essere il vero fulcro dei processi di globalizzazione. Del resto anche noi ci siamo ispirati ad altre esperienze: abbiamo potuto conoscere, e l’abbiamo fatto innanzitutto online l’esperienza di WIR. WIR, per chi non lo sapesse, è il più grande circuito di credito reciproco presente al mondo, che conta in Svizzera oltre 65 mila piccole e medie imprese. Abbiamo potuto, grazie alla rete, accedere a dei testi a cui non avremmo potuto accedere diversamente, perché non erano presenti nelle nostre biblioteche. Quindi tutto ciò che è globalizzazione della conoscenza, condivisione del proprio patrimonio dei saperi, è una cosa importante.
Venendo ora alla tua domanda, e perdonami per l’inciso, Sardex oggi può definirsi un esperimento andato a buon fine, perché abbiamo chiuso l’anno passato con oltre 4 milioni di crediti transati. Ma ciò che colpisce non son tanto questi 4 milioni, che riferiti all’economia sarda, e ancor più all’economia italiana, sono cifre molto modeste. Se infatti ci riferiamo alle piccole realtà che fanno parte del circuito, alcuni di loro sono riusciti ad aumentare il loro fatturato del 10-20%; in tanti hanno ripreso finalmente ad avere fornitori di prossimità, quindi si è incentivato il km 0. E si sono portati avanti dei valori che sono difficilmente misurabili attraverso l’econometria, ma che sono sicuramente misurabili in termini di qualità della vita e qualità del prodotto. Faccio un esempio su tutti che è quello della ristorazione: molti ristoratori, per via della stretta creditizia, avevano iniziato a rivolgersi alle grandi catene di distribuzione perché queste ultime fornivano delle dilazioni molto ampie, quindi fungevano quasi da banche. Attraverso il circuito Sardex, invece, in cui i pagamenti sono immediati, questi ristoratori hanno potuto rivolgersi a imprenditori vicini a loro, aumentare la qualità del servizio, e spesso aumentare anche il prezzo di vendita di quel servizio, anche in moneta corrente. Quindi i benefici si sono riflettuti non solo sul nostro piccolo mercato complementare, perché quei ristoratori son diventati più efficienti anche nel mercato in euro.
Oltretutto, operare in Sardex permette alle aziende di migliorare il proprio bilancio: e migliorare il proprio bilancio significa presentarsi in banca e poter mostrare i propri conti in ordine, e di conseguenza avere un rating più alto e più facilità di accesso al credito, anche tradizionale. Diciamo che l’altra cosa che colpisce, è il graphos sociale, che mi dispiace di non poter mostrare ora. Infatti, attraverso lo strumento fantastico che google ha messo a disposizione, cioè le fusion tables, abbiamo sott’occhio il nostro graphos sociale: e vedere cosa siamo riusciti a costruire in questi 3 anni fa davvero paura. C’è anche un altro riscontro, molto significativo: cioè la crescita del circuito sui 3 anni, che è impressionante. Tanto per dare delle cifre: il primo anno abbiamo fatto 300 mila euro di transato, il secondo anno abbiamo fatto 1,2 milioni e l’anno scorso abbiamo fatto oltre 4 milioni. Siamo su un ritmo di crescita di oltre il 300%. L’altro dato è che nei primi 15 giorni di gennaio 2013 abbiamo fatto più di 300 mila crediti di transato: quindi in 15 giorni abbiamo fatto più di quanto non avessimo fatto il primo anno. E questi son senz’altro dei dati più che incoraggianti.

E tra l’altro Sradex potrebbe anche costituire un’alternativa economica dal grande valore legale. Perché spesso l’imprenditore, ormai in tutt’Italia, per non dire in tutta Europa, nel momento in cui si trova a corto di liquidità e le banche non concedono mutui, si rivolge a chi di liquidità ne ha tanta, e cioè alla criminalità organizzata. Quindi nel piccolo, ovviamente, un’alternativa anche a questo fenomeno, che sembra anche questo irreversibile, forse può esserci.

Sì, rispetto a questo tema, ci tengo a sottolineare che c’è tanta legalità in Sardex, perché tutte le transazioni sono sempre accompagnate da fattura, da numero fattura e da data fattura, quindi da un documento. Questo naturalmente può facilitare l’emersione del cosiddetto sommerso, perché in questa maniera, trovando un modo conveniente di far commerciare le aziende, queste ultime sono portate a fare fattura e a versare le imposte. E questo ritengo sia un altro elemento importante, perché spesso i luoghi comuni portano a dire: “Ah, questo sistema fagociterà il nero, fagociterà l’evasione fiscale”. No, in realtà è tutto l’opposto, perché tutte le nostre transazioni son tracciate e ogni transazione è accompagnata da un documento.

 Quindi avete anticipato quanti, in Europa e anche in Italia, volevano tassare la transazioni o quantomeno rendere digitalizzate, e quindi facilmente tracciabili, tutte le transazioni al di sopra di una certa cifra. Voi li avete battuti sul tempo.

Sì, noi abbiamo fatto questo. C’è da dire che la mia opinione rispetto al contante è che il contante debba ancora rimanere in circolazione, anche perché non si può pensare di punire uno strumento per l’uso che ne viene fatto. Io non posso proibire il coltello perché qualcuno accoltella le persone. Allo stesso modo non posso punire il contante perché qualcuno fa un uso sbagliato del contante. Il contante è uno strumento che oggi permette di vivere a tante persone che hanno difficoltà,per via del digital divide, ad utilizzare strumenti elettronici. Ed è forse anche l’unico contatto, ancora, col feticcio materiale di ciò che il denaro forse un tempo è stato.

 Ma la vostra iniziativa, il Sardex, è attiva solo in Sardegna o si sta espandendo?

In realtà, dopo aver, come dicono i tecnici del settore, validato il modello, e soprattutto dopo che questo modello è stato ripreso spesso dai media, non solo regionali ma anche nazionali, ci sono arrivate molte richieste da parte di gruppi di imprenditori da altre regioni d’Italia e d’Europa per poter attivare circuiti simili anche in altre aree. E quindi siamo partiti con un progetto di replicabilità, che ci vede al fianco di imprenditori locali: infatti è molto importante per noi che siano imprese del posto a lanciare questo tipo di iniziativa nel territorio in cui poi andranno ad operare, perché il tessuto su cui circuiti simili si fondano non è soltanto di tipo economico, ma anche e soprattutto socio-culturale.

Il primo duplicato è partito lo scorso anno ed è Sicanex.net, in Sicilia, quindi un altro contesto insulare. La sta portando avanti una persona che poi, nel tempo, è diventato un mio caro amico, che è Andrea Seminara: un filosofo che per lungo tempo si è occupato di risparmio energetico ma soprattutto di abbattimento di emissioni di Co2, in linea con i progetti di social repsonsability di Legambiente. E così ha potenziato l’iniziativa dando molta importanza alla sostenibilità del progetto dal punto di vista ecologico, rilanciando temi come il km 0. Stiamo partendo, adesso, anche in Piemonte: il progetto si chiamerà Piemex.net: siamo naturalmente in una fase ancora di preparazione, in quanto la preparazione di questo tipo di attività è piuttosto lunga. E poi abbiamo decine di progetti in lista, pronti a partire.

Chiaramente stiamo misurando i passi e ci si muoverà con queste persone un po’ alla volta in modo da poter far crescere questi circuiti in maniera armonica. E tutto questo, chiaramente, con la chiara speranza che un domani, una volta che ognuno di questi circuiti sarà solido sul proprio territorio, tutti quanti si possano incontrare in una piattaforma, in una sorta di meta circuito, o di intercircuito che dir si voglia, che permetta ai vari circuiti, alle aziende, alle reti dei vari circuiti, di scambiare il proprio surplus commerciale, in cambio di ciò che nella propria regione non viene prodotto. Eviteremo chiaramente di far viaggiare bottigliette d’acqua e ci scambieremo, come diceva Grillo un tempo, le ricette dei biscotti; però laddove io ho il mare, e il Piemonte non ce l’ha, io sono in grado di offrire vacanze e magari il Piemonte è in grado di offrirmi i prodotti di industria manifatturiera che in Sardegna sono difficilmente reperibili.

 Quindi una logica economica soggetta anche a parametri di sostenibilità ambientale e sociale. Quello che mi chiedo è: avete trovato, o temete di trovare, delle resistenze da parte degli organismi ufficiali, sia regionali, sia nazionali, sia internazionali, che siano la Banca Centrale Europea piuttosto che la Banca d’Italia, piuttosto che qualche ministero? Questi enti come guardano alla vostra esperienza: con timore, con sospetto, con fiducia?

Per quanto concerne l’Unione Europea, è uscita lo scorso anno la normativa sui sistemi di pagamento nella quale i Lets – Local Exchange Trading Systems, che è esattamente ciò che noi facciamo – non vengono inclusi. Lo stesso si può dire per il “paper” che è uscito ultimamente sulla moneta elettronica. C’è però un grande interesse: l’Unione Europea ha finanziato progetti di monete sia di scopo, quindi monete legate all’ecologia, sia monete di altro genere, soprattutto nel nord Europa. C’è grande interesse perché queste monete vanno ad agire laddove la moneta ufficiale non riesce ad agire: esse non minacciano, ma in realtà complementano e completano l’azione della moneta ufficiale. Non temiamo particolari ostacoli, proprio perché, vista la difficoltà del momento, questo tipo di sistemi stanno, almeno per quanto riguarda le nostre aziende, dando ossigeno alle piccole e medie imprese, creando relazioni e senso di comunità. E difficilmente si può andare contro questo tipo di obiettivi che, se andiamo a vedere, sono gli stessi obiettivi di Europe 2020, quindi sono gli stessi obiettivi che l’Unione Europea sta cercando di perseguire.
Poi c’è il sistema bancario tradizionale, e anche lì secondo me ci sono delle sinergie e sicuramente ciò che noi facciamo aiuta anche loro da un certo punto di vista, perché andando a migliorare le prestazioni delle aziende, e andando migliorarne i bilanci, rendiamo più facile e meno rischioso anche il mestiere delle stesse banche. Noi siamo in contatto con alcune di loro, principalmente con banche di credito cooperativo, nel resto d’Italia, che svolgono in realtà un lavoro molto prezioso perché è un lavoro ancora legato alla conoscenza: il direttore della banca di credito cooperativo conosce tutti i suoi clienti e i rispettivi business, conosce le aziende, e loro svolgono un lavoro che secondo me è complementare al nostro, e quindi non solo non penso che ci saranno ritorsioni da quel mondo, ma potrebbero esserci, secondo me, ampi margini di collaborazione.

 Ti ringrazio, e penso di poterti rivolgere questo ringraziamento a nome dei lettori del blog. In bocca al lupo e buona continuazione.

Grazie, a presto.

La città greca di Volos mette in pratica un sistema economico alternativo

di Antonio Cuesta (Gara/Rebelión), 21 Maggio 2012

Le epoche di crisi di solito fanno germinare soluzioni ingegnose dirette a superare le difficoltà. Nel caso della città greca di Volos (una piccola località di 100.000 abitanti) la creazione della cosiddetta Rete di Interscambio e Solidarietà, due anni fa, non è derivata tanto dalla grave situazione economica che attraversa il Paese, ma dalla necessità di articolare un’alternativa per far fornte all’attuale sistema capitalista.

L’idea di fondo è partita dalle molteplici esperienze di comunità di trueque [1], che scambiano prodotti e servizi senza utilizzare alcuna moneta. Nel caso di Volos l’idea è stata perfezionata con la creazione di un modello di interscambio, il TEM (Unità Alternativa Locale, in greco), e di un avanzato sistema informatico così semplice nel suo funzionamento quanto efficace nei risultati.

Quando qualcuno entra a far parte della Rete gli si assegna un numero di conto e gli si concedono 300 TEM (1 TEM equivale a 1 Euro solo come riferimento nel momento di stabilire il valore di vendita), facilitando così il suo inizio per comprare o vendere prodotti o servizi. Il maggior numero di scambi si realizza il sabato in un mercatino all’apparenza tradizionale ma nel quale è escluso l’uso del denaro. Un’ampia offerta che include frutta, verdura, vestiti, libri, artigianato… ma anche apparecchi elettrici e perfino materiale per l’idraulica. Inoltre il sito web dell’associazione offre una lista completa sia di professionisti (medici, professori, elettricisti…) che di attività del luogo che fanno parte anch’esse della Rete (ottici, officine meccaniche, panetterie, macellerie…), che permettono il pagamento in TEM per tutta la settimana nell’orario commerciale ordinario. La pagina comprende anche una sezione di annunci dove ogni membro offre o chiede quello di cui ha bisogno. Più di 1.000 persone compongono già questo sistema economico alternativo e il numero continua a crescere.

“Con l’aiuto iniziale –spiega a Gara Emilia, una ceramista di 47 anni- ho potuto comprare frutta e zucchero per fare marmellate che poi vendo il sabato. Ho cominciato tre settimane fa e ho già ottenuto 800 TEM”, anche se confessa di averne spesi 500 per il parrucchiere, alimentari e qualche piccolo elettrodomestico di cui aveva bisogno. Alexandra vende insieme a suo padre, Iraklis, uova fresche provenienti dalle galline che tengono nel pollaio, “al principio ci costavano di più perché il loro cibo lo pagavamo in euro, ma ora abbiamo trovato un fornitore di mangimi per animali che vende in TEM”, ci racconta. Per questa giovane di 25 anni l’iniziativa “è una filosofia per cambiare le cose senza denaro. Non sono contro l’euro, ne ho bisogno per pagare certe cose -chiarisce- ma per quanto possibile cerco di non usarlo. Preferisco il TEM perché è una cosa che tutti possono usare, l’euro ce l’ha solo chi lavora”. E assicura convinta che “con il TEM si può accedere a molte opzioni, in vari modi, decidi tu. Tutti hanno qualcosa da dare o da offrire”.

L’uso di internet ha facilitato in grande misura l’interscambio e soprattutto il controllo del debito. Khristos, un ingegnere appassionato di software libero e cofondatore del progetto, è il responsabile dello sviluppo di un sistema informatico che è stato progettato su misura grazie ai programmi a codice aperto. Il suo avanzato funzionamento gli ha valso il riconoscimento della Banca d’Inghilterra per la forma e la sicurezza con cui si effettuano i trasferimenti. Migliore e più veloce di qualsiasi banca su internet, i movimenti tra venditori e acquirenti sono registrati istantaneamente senza commissioni né ritardi, permettendo anche uno scoperto fino a 1.200 TEM nel conto di un utente.

Dato che il TEM non esiste fisicamente, la forma di pagamento si realizza in tre modi: usando un contrassegno (uguale agli assegni bancari) dotato di un marchio di sicurezza, mediante trasferimenti via internet e, fiore all’occhiello, con un semplice SMS. Inviando un messaggio con i numeri dell’ordinante e del beneficiario, oltre all’importo, il sistema manda immediatamente messaggi confermando il trasferimento e mostrando a ognuno di essi il saldo risultante nel loro conto dopo l’operazione effettuata.

Per quanto il volume degli scambi non sia ancora molto elevato, Khristos calcola che un sabato di mercato si possano raggiungere i 3.000 o 4.000 TEM, anche se questa cifra scende durante la settimana. I prodotti alimentari, la frutta e la verdura sono di gran lunga i più richiesti, insieme ai servizi professionali (idraulici, avvocati…). In ogni caso, “la cosa più importante è che la gente si conosca e che esista una reciproca fiducia, la Rete è importante ma il contatto diretto è fondamentale -ci spiega Khristos-. La nostra iniziativa non è stata motivata dalla crisi economica, ma dalla necessità di applicare i nostri valori e cambiare l’attuale sistema economico. Contro tutto questo è stata pensata la Rete, come forma alternativa di interscambio economico”.

Un’altra dei fondatori di questo progetto è Marita Hupis, fortemente influenzata dalle esperienze sviluppate in Argentina e Uruguay dieci anni fa. Marita espone i principi sui quali si basa la Rete di interscambio: uguaglianza, parità, trasparenza, solidarietà e partecipazione. “Tutti i membri sullo stesso piano decidono in assemblee periodiche le questioni relative al funzionamento della Rete. Le decisioni sono collettive, facendo leva sul carattere sociale dell’iniziativa, e sono orientate alla creazione della società che vogliamo”.

La crescita dell’organizzazione li ha portati a pensare la creazione di un “centro assistenza” nelle strutture cedute dall’Università della Tessaglia. “Il centro disporrà di ambulatori medici, naturopati, massaggiatori… tutto ciò di cui uno può aver bisogno nel campo della salute”, ci informa. E ci sarà anche un caffè dove lavoreranno diverse persone disoccupate. Dato che gli edifici erano abbandonati da tempo si è dovuto restaurarli e condizionarli, contando per questo sull’aiuto di tecnici e, anche di artisti locali che hanno collaborato alla ristrutturazione. Tutti i componenti dei gruppi di lavoro (segreteria, pubblicità, infrastrutture, pulizia…) riscuotono lo stesso importo: 6 TEM ogni ora di lavoro. “Questi gruppi sono aperti e vi partecipa tanta gente quanta è necessaria in un dato momento”, ci spiega Marita.

Il successo della Rete, che oltrepassa già le frontiere, sta incoraggiando altre città greche a seguire l’esempio. “È una buona opzione per cambiare le cose e in un certo senso è un cambiamento rivoluzionario”, aggiunge orgogliosa Alexandra.

Fonte: http://www.rebelion.org/noticia.php?id=149932

NOTA [1]: Sembra opportuno lasciare il termine originale spagnolo trueque (baratto) proprio perché nell’esperienza di Volos c’è un evidente riferimento al modello argentino, come spiega più avanti uno dei fondatori della rete

Traduzione Andrea Grillo, SenzaSoste.it

Il primo negozio dove non si paga

di Valentina Sanseverino (You-ng), 30 Aprile 2012

Un negozio senza casse. Uno spazio in cui il denaro non vale nulla. Un luogo dove gli oggetti non hanno prezzo. E’ spuntato dal nulla lo scorso sabato a Bolzano, precisamente in Via Rovigo, 22/C e si chiama “Passamano”: é il primo “non-negozio” in Italia basato unicamente sulla filosofia del recupero e del riutilizzo, dove le “cose” valgono tanto quanto servono.

Si entra, si sceglie e si va via senza pagare: é questa l’ultima frontiera dello shopping equo sostenibile, un progetto partorito da un gruppo di volontari che non ricevono compenso e chiedono solo una libera offerta facoltativa per coprire le spese fisse del negozio o di lasciare – se si vuole – qualcosa in cambio del proprio “acquisto”.

“Ci sono cose che è più facile regalare che vendere – spiega Andrea Nesler, uno dei volontari – quando un oggetto ha un valore affettivo è difficile stabilirne il prezzo di vendita, si rischia di svalutarlo, e allora è meglio regalarlo. Così, un ex sciatore è venuto e ci ha consegnato tutta la sua attrezzatura sportiva, perché ha un problema alla schiena e non può più scendere in pista. È venuto e ci ha raccontato la sua storia”. Non solo shopping, quindi, ma anche luogo di socializzazione: “Passamano” é, infatti, anche un info-point dove condividere idee e conoscenze sul consumo consapevole, il riciclaggio e il riutilizzo , ma anche la cucina vegana e vegetariana, l’animalismo, l’eco-architettura, il turismo responsabile ecc. I suoi locali ospitano anche una biblioteca, una sala riunioni per serate e incontri a tema e un laboratorio condiviso, dove si puó apprendere a creare oggetti di abbigliamento o di design con ció che non ci serve piú o offrire il proprio tempo libero per lavorare come volontario o mettere a disposizione degli altri le proprie abilità e conoscenze (lingua, artigianato, cucito ecc). “L’idea – spiega Gaia palmisano, una delle volontarie – nasce nell’ambito del movimento “Transition Town” fondato dall’inglese Rob Hopkins. L’obiettivo finale – aggiunge – é creare una dimensione partecipativa con metodi che lasciano spazio alla creatività individuale”. In parole povere: l’antitesi di un negozio!

http://www.you-ng.it/index.php?option=com_k2&view=item&id=1311%3Ail-primo-negozio-dove-non-si-paga&Itemid=58

Grecia, doppia valuta per salvarsi

GrandTour, 29 Marzo 2012

La strategia europea per il salvataggio greco è “disperata” e il paese dovrebbe considerare l’adozione di un doppio sistema monetario, ha detto il presidente della Banca centrale di Polonia Marek Belka al giornale tedesco Financial Times Deutschland

“Il paese dovrebbe avere un regime speciale per un tempo limitato”, Belka ha dichiarato in un’intervista pubblicata oggi.

“Non sto chiedendo di mettere la Grecia fuori dalla zona euro, ma per scopi interni potrebbe essere considerato uno strumento di pagamento da utilizzare all’interno del paese, principalmente dal settore pubblico.”   Secondo la strategia di Belka l’Europa sta spingendo la Grecia a ridurre drasticamente i prezzi dei salari per farla diventare più competitiva e accettare i pacchetti di salvataggio sono “disperati”.

Inoltre, il presidente della Banca centrale della Polonia ha detto che il doppio sistema monetario i depositi presso le banche resterebbero in euro e non perderebbero il loro valore. Ma i salari in Grecia verrebbero pagati con una nuova moneta svalutata rispetto all’euro.

Secondo Belka  questa “svalutazione nascosta” renderebbe i prodotti e i servizi greci più economici e più competitivi.   “I greci dovranno fare altri sacrifici, ma almeno avverranno in modo civile”, ha detto. “Dobbiamo rendere i servizi turistici più attraente. La Grecia deve reinventarsi”.

Teoria monetaria moderna e teoria fiscale postmoderna

Teoria fiscale postmoderna

di Chris Cook , Financial Times –  24 febbraio 2012

Il testo seguente è dell’ospite Chris Cook, membro ricercatore anziano dell’Institute for Security and Resilience Studies all’University College di Londra. Il suo lavoro è concentrato su una nuova generazione di mercati collegati in rete che, secondo Chris, saranno necessariamente disintermediati, aperti, decentrati e, perciò, resilienti.

Facendo seguito all’impennata di interesse per la Teoria Monetaria Moderna (MMT) sono stato tanto imprudente da commentare che l’intuizione centrale della MMT – che la moneta a corso forzoso sia uno strumento creditizio che alla fine si basa sul potere del governo di imporre tasse – sia resa confusa da dispute su quale sia concretamente la base corretta della tassazione o, in realtà, se addirittura una tassazione debba esserci.

Il blog Alphaville del Financial Times mi ha invitato a fornire un testo sulla ‘Teoria Fiscale Moderna’ che io ho suggerito. Ma ho deciso di andare più in là e di documentare la mia idea che in un mondo di collegamenti diretti il Tesoro non è più necessario, come intermediario del credito, di quanto lo sia la Banca.

La Teoria Fiscale Postmoderna guarda all’economia collegata in rete, decentrata e disintermediata che emerge rapidamente dalle macerie dell’ottobre 2008.

Lo Zen e l’arte dell’economia

Comunque che cos’è il Valore?  Secondo J.A.Wheeler “la realtà è definita dalle domande che le si pongono.”

Secondo me il Valore è definibile soltanto in termini relativi, facendo riferimento a un’unità di misura o a un’unità di conto convenzionale. L’unità di misura convenzionale è simile a un metro come unità di misura standard di lunghezza e a un chilogrammo come unità standard di peso.

Quali sono le fonti o le basi del Valore? La mia analisi è la seguente.

Localizzazione – spazio tridimensionale:  risorsa rivale immateriale, effettivamente finita;
Energia – materiale o immateriale, statica o dinamica – un insieme di risorse rivali finite (non rinnovabili) ed effettivamente infinite (rinnovabili);
Intelletto – (i) soggettivo, ovvero quel che sta tra le due orecchie, compresa la conoscenza, le competenze, l’esperienza, l’intuizione, i contatti, il senso pratico e così via, e (ii) oggettivo: schemi o dati energetici, indipendenti dalla localizzazione, e soprattutto … risorsa infinita e non rivale.

Localizzazione, Energia e Intelletto non rivale sono beni produttivi soggetti ai diritti di proprietà e di utilizzo. Da quando la schiavitù è stata abolita, gli individui produttivi non possono essere oggetto di proprietà, ma possono sottoporsi a obbligazioni, come i debiti. Più in tema, possono contrattare l’utilizzo della loro Manodopera (energia, o Lavoro non
qualificato) e il valore d’uso dell’Intelletto soggettivo (Lavoro qualificato) con cui mettono in uso la propria energia nel modo migliore.

Ritorno al futuro

Lo strumento finanziario che sosterrà quello che Gillian Tett chiama un “Volo verso la semplicità” risale a molte centinaia se non a migliaia di anni fa. La sua stessa esistenza sostiene la causa della MMT ed è stata nebulizzata via dalla storia economica per oltre cento anni.

Per circa 500 anni i sovrani hanno finanziato le loro spese consegnando, in cambio dei valori ricevuti, un “Titolo” ai fornitori e agli investitori. Tale titolo – che assunse la forma di metà di un regolo di misura di legno (tally stick) – poteva essere restituito al ministero delle finanze in regolamento di obblighi fiscali. Non si trattava di una ricevuta di, ad esempio, oro tenuto in custodia o di un valore ricevuto; il titolo era, ed è tuttora, un pagherò o strumento creditizio (i titoli sovrani [documenti dai margini dorati] sono uno strumento creditizio datato).

La stessa espressione “tasso di ritorno” [oggi intesa generalmente come ‘redditività’ – n.d.t.] deriva dal tasso al quale il titolo può essere restituito all’emittente e tale tasso dipende all’esistenza, e dal tasso, di circolazione del valore. Creando una nuova generazione di titoli dalla circolazione di valore derivante dalla popolazione produttiva e dai beni produttivi, ad esempio il valore di rendita, o il valore energetico, possiamo rifondare completamente il credito e la moneta e consentire investimenti patrimoniali paritari diretti (“Peer to Asset”) e credito paritario diretto (“Peer to Peer”).

Come ha detto Minsky: “Qualsiasi entità economica può emettere moneta. Il vero problema è farla accettare.”

La legge è il codice

Una nuova generazione di codice legale sta ora emergendo: o, piuttosto, sta riemergendo in forma moderna un codice antico. Accordi normativi unilaterali imposti dallo “Stato di diritto” anglosassone per gestire rapporti conflittuali sono sostituiti da semplici accordi consensuali mirati a un fine comune. Questa è prassi normale a est di Suez; la battuta si
basa sul fatto che ci sono tanti lottatori di Sumo negli Stati Uniti quanti avvocati ci sono in Giappone.

Il tema e l’accettazione di una nuova generazione di Titoli o monete richiedere un tale accordo consensuale – un contesto di fiducia – all’interno del quale interagiranno i vari interessati. Uno dei risultati chiave è che gli intermediari passeranno al nuovo ruolo di fornitori di servizi.  Per gli scettici, puntualizzo innanzitutto che la disintermediazione è già in corso. Uno dei motivi dell’attuale bolla dei prezzi delle materie prime è che le banche non dispongono più del capitale per intermediare i rischi di mercato e hanno convinto investitori avversi al rischio a farlo su vasta scala. Le banche realizzano utili sostanziosi da un capitale minimo, dimostrando che la disintermediazione è effettivamente nel loro interesse finanziario.

Secondo: i P & I Clubs [Protection & Indemnity Club – Associazioni in generale mutue di assicurazione (Protezione e Indennizzo) prevalentemente nel campo dei trasporti marittimi – n.d.t.] con sede a Londra hanno a lungo assicurato mutualmente e assunto rischi in associazione che gli intermediari assicurativi non sono disponibili o non sono in grado di
assumere e per 135 anni un fornitore di servizi, la Thomas Miller, ha amministrato questi club e i relativi rischi.

Un parametro energetico

Anche se in futuro assisteremo a credito basato sulle persone e a monete basate su beni, resta il problema di quale unità convenzionale di conto debba essere utilizzata per dare un prezzo agli scambi di valore.

Una unità di energia è l’unico assoluto e allo stesso modo in cui i tappeti non sono misurati in anni luce o in unità angstrom, l’ “Unità Energetica Standard” dovrebbe essere relativa all’esperienza quotidiana, ad esempio l’equivalente energetico di 10 kilowattora. Si noti che questa unità di conto non è la stessa cosa della moneta basata sull’energia che può evolversi ed essere scambiata con riferimento al parametro.

Prevedo due grandi tendenze parallele.

La prima: soluzione dell’insostenibile debito ipotecario (basato sulla proprietà immobiliare) con il passaggio a una nuova generazione di titoli basati sui valore di rendita in uno scambio debito/capitale su vasta scala.

La seconda: transizione a un’economia sostenibile attraverso investimenti diretti in ‘Titoli energetici’ e il Grande Affare del ventunesimo secolo sarà costituito dallo scambio del valore intellettuale con il valore dell’energia risparmiata: NegaWatt e NegaBarili.

L’adozione di uno Standard Energetico conduce a nuovi calcoli che costituiscono la base di tutte le decisioni economiche. L’Economia del Dollaro diventa l’Economia dell’Energia.

Da Socialforge, un laboratorio di creazione sociale
www.socialforge.org
Originale: http://ftalphaville.ft.com/blog/2012/02/24/896381/guest-post-post-modern-fiscal-theory/
Traduzione di Giuseppe Volpe
Copyright  © 2012 Socialforge.org – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

Peer-to-Peer e Marxismo, analogie e differenze

E il dibattito ha inizio … Peer-to-Peer e Marxismo: analogie e differenze
Jean Lievens intervista Michel Bauwens

3 gennaio 2012

Pubblichiamo un’intervista molto importante e dalla tempistica critica sul rapporto tra P2P e Marxismo. Condotta da Jean Lievens con il fondatore della Fondazione P2P Alternatives, Michel Bauwens, su alcuni aspetti della sua teoria P2P e della teoria Marxista, l’intervista potrebbe rappresentare l’apertura del più grande dibattito dei prossimi anni. Anche se l’ascesa del ‘modo di produzione P2P’ e i nuovi processi politici P2P sono stati ovviamente più che determinanti nel processo di cambiamento sociale che si è attivato nel 2011, con il contributo di tale produttivo dibattito saremmo in grado di ricavare proiezioni molto più chiare sulle alternative reali al capitalismo e su come far sì che tali alternative si realizzino. In seguito alla morte della ‘condizione postmoderna’ e con il ritorno della ‘guerra di classe’, tale dibattito creerebbe uno spazio equilibrato per un coinvolgimento costruttivo tra le tradizioni critiche marxista, anarchica e post-marxista.

Il mese scorso ero a Londra dove ho assistito a una conferenza di Michel Bauwens sulle dinamiche peer-to-peer. Ho scritto un articolo in olandese per ‘De Wereld Morgen’. Fortunatamente vi è una versione rielaborata della conferenza in video su Vimeo.  P2P and the Commons as the new paradigm [P2P e i Commons come nuovo paradigma] di David Nixon su Vimeo.  Dopo la conferenza ho contattato Michel per un’intervista.

Tutti conosciamo degli esempi di P2P nel campo immateriale: Linux, Wikipedia, Arduino. Puoi darci degli esempi di P2P nel mondo ‘reale’, materiale, ad esempio nel campo della produzione?

Michel Bauwens: Arduino è già un esempio che tocca la produzione materiale poiché le schede madri progettare collaborativamente sono già prodotte e vendute sul mercato da imprese che usano il marchio Arduino. Un esempio che davvero mi piace è il Nutrient Dense Project [Progetto per l’Alta Densità di Nutrienti], una rete collaborativa di ricerca di agricoltori e di scienziati urbani che utilizza direttamente la ricerca sui nutrienti nella propria produzione immediata. Una delle aree più eccitanti è probabilmente quella delle cosiddette automobili open-source, come la Rallye Motor e il veicolo d’assalto della marina XC2V finanziato dalla Darpa, quest’ultimo basato su contributi di oltre 30.000 progetti. Lo StreetScooter, un’auto elettrica basata su Commons di progettazione imprenditoriale con la partecipazione di oltre 50 imprese è forse la più eccitante, poiché gli ordini sono già affluiti e l’auto dovrebbe essere in circolazione nelle città tedesche entro il 2013. Nella sezione Wiki della Fondazione P2P sul Product Hacking [modifica/personalizzazione di prodotti] (http://p2pfoundation.net/Product_Hacking), abbiamo annotato circa 300 progetti ad hardware aperto ma essi sono solo la punta dell’iceberg. Aiuta a distinguere la fase di progettazione, in cui le fonti partecipative e la collaborazione non sono qualitativamente diverse dalla collaborazione nel software, dalla fase della ‘fabbricazione’ che richiederebbe un’infrastruttura per la produzione aperta e distribuita che è solo marginalmente disponibile. Ma nel campo della fabbricazione abbiamo sviluppi eccitanti in direzione di infrastrutture materiali condivise quali gli spazi di co-lavoro e di modifica/personalizzazione, i sistemi di prodotti-servizi per la condivisione della auto e molti altri servizi e la miniaturizzazione della produzione mediante la stampa in 3D e i Fab Labs [Laboratori di Fabbricazione basati su trasmissione telematica di progetti], i quali hanno tutti anche versioni e aspetti open source.

Tu paragoni la transizione3 dal capitalismo al P2P alla transizione dalla schiavitù al feudalesimo, o dal feudalesimo al capitalismo. In entrambi i casi c’è stato uno scambio reciproco tra il vertice e la base. A Londra hai solo trattato della prima: gli schiavi che abbandonano il sistema e i proprietari di schiavi che trasformano gli schiavi in servi che stavano meglio di prima, ma che dire della transizione dal feudalesimo al capitalismo? Ci fu la nascita di una nuova classe e la trasformazione dei nobili in capitalisti, ma è arduo affermare che gli operai stessero meglio di prima. Dunque dov’è il cambiamento positivo in basso?

Michel Bauwens: La transizione da una forma di società di classi diseguali a un’altra è sempre problematica per le classi produttrici di valore che stanno in basso. Si può sostenere che la servitù sia intrinsecamente una posizione migliore della schiavitù, ma ha continuato ad essere sfruttamento e dominio e molti servi in precedenza erano contadini liberi. La situazione con il capitalismo non è tanto diversa; anche se ci sono state, e ci sono, tante privazioni i diritti formali dei lavoratori costituiscono certamente un miglioramento e, almeno per la classe operaia occidentale, c’è stato per un lungo
periodo un miglioramento sostanziale. Ma nel complesso i sistemi si sono avvicendati    perché il vecchio sistema non era più sostenibile e il nuovo era in generale più efficiente nel creare ricchezze materiali. Tutto dipende dal contratto sociale e dal rapporto relativo delle forze in gioco. Forti movimenti sindacali hanno enormemente migliorato la situazione dei lavoratori e la situazione nel Medioevo, tra il decimo e il tredicesimo secolo, era una situazione di miglioramento della qualità della vita. I precedenti sono, dunque, eterogenei e le persone stessi di solito hanno una chiara idea di quello che deve essere migliorato. Ad esempio quale lavoratore vorrebbe tornare alla servitù come condizione sociale? Poiché ho difficoltà a immaginare una società priva di classi, vedo i produttori paritari in conflitto con il capitale che domina la rete [netarchical] riguardo alle proprie condizioni sociali, ai loro diritti e alle loro vite materiali, fino al momento in cui i produttori paritari diverranno lo strato sociale chiave e i Commons il luogo chiave della creazione del valore. Questo non
è uno scenario scientifico con un finale certo e inevitabile bensì una descrizione del campo di tensione in cui si sviluppa la produzione paritaria.

Per proseguire con questa analogia: vedi sorgere una nuova classe nel capitalismo o una sorta di “capitalisti illuminati” che si rivolgono all’Open Source (come descritto in Wikinomics)?

Michel Bauwens: I Commons sono e saranno sempre più il cuore della creazione di valore, ma del valore continua sostanzialmente ad appropriarsi l’economi di mercato e il capitale dominante la rete è il segmento del capitale che comprende tale cambiamento e vuole trarne profitto. Ciò significa che dovranno sia consentire sia dare potere alla
produzione sociale, ma anche assoggettarla al proprio controllo in modo da potersi appropriare del valore da essa generato. La prima parte li costringe a certi tipi di comportamento strategico che promuove la condivisione, mentre la seconda li costringe a mantenere un contesto generale di continuo dominio. Questa è, in essenza, la nuova tensione sociale dell’emergente era P2P, tra le comunità di produttori paritari e i proprietari delle piattaforme. La chiave per i produttori paritari sta nel conquistare il controllo delle proprie vite e della propria riproduzione sociale e, secondo me, il modo migliore per farlo consiste nel creare i propri veicoli cooperativi/imprenditoriali che chiamo, seguendo i suggerimenti di Neil Stephenson in ‘The Diamond Age” [L’età del diamante] e di LasIndias.net, “Phyllis”, ovvero entità comunitarie/di sostegno che consentano ai cittadini di sostenere il proprio lavoro nei beni comuni e sottrarlo all’economia convenzionale della massimizzazione del profitto.

Riesci a vedere un parallelo tra il P2P e il movimento cooperativo nato nel diciottesimo secolo (socialismo utopico) o con gli hippy e le comuni degli anni sessanta?

Michel Bauwens: L’impulso all’operare in comune è uno degli aspetti permanenti
dell’umanità; con alti e bassi a seconda delle condizioni sociali, e io penso che stiamo
assistendo a una rinascita di tale impulso. Tuttavia c’è una grande differenza: le forme
cooperative di organizzazione possono ora lavorare attorno a Commons di progettazione
aperta e diventare iper-innovative e possono conseguire economie di scale tali da superare
le multinazionali basate sull’azionariato. Le cooperative e le comunità finalizzate non
sono, perciò, più “forme nane” ma in realtà l’avanguardia del nuovo sistema di produzione

P2P. Se si combinano i Commons dell’innovazione aperta condivisa (invece della
proprietà intellettuale privatizzata che rallenta l’innovazione) con queste nuove entità
di massimizzazione dei prodotti e dei Commons, si può conseguire un balzo quantico
nella produttività. E’ per questo che i capitalisti delle reti investono in piattaforme ed
è per questo che l’economia etica alternativa deve fare la stessa cosa, e se lo fa potrebbe
sostituire, nel cuore della nostra economia, le industrie finalizzate al profitto.

Tu dici che dobbiamo preparare un’alternativa al capitalismo. Il movimento
P2P è una specie di ‘fuga’?

Michel Bauwens: La crescita infinita non è possibile in un ambiente finito e noi ora
stiamo toccando i limiti della crescita. Questo significa che il capitalismo è sempre meno
in grado di uscire dai suoi problemi attraverso la crescita e che la percentuale dell’1% può
crescere solo mediante l’esproprio, ed è a questo che stiamo assistendo ora in Europa, con

la Grecia come esempio anticipato di quel che è in serbo per le popolazioni lavoratrici.
Dunque non si tratta di fuga. Il vecchio sistema sta morendo e deve essere sostituito, ma
potrebbe essere sostituito da qualcosa di peggiore, potrebbe regredire come nei primi
secoli dopo la caduta dell’Impero Romano, o potrebbe riorganizzarsi a un livello più
elevato di risultati e complessità, il che è quello che indica l’approccio P2P.

Tu descrivi Occupy come un esempio di produzione paritaria di Commons
politici. In che modo è diverso dai movimenti storici ‘anarchici’ o ‘comunisti’
come la Comune di Parigi, Barcellona 1937 o forse persino la Rivoluzione
Russa?

Michel Bauwens: Se si osserva un’occupazione si vede una comunità che produce
la sua politica autonomamente, senza seguire movimenti politici gerarchici o autoritari
con un programma preordinato; si vedono istituzioni benefiche che si fanno carico
dell’approvvigionamento degli occupanti (cibo, assistenza sanitaria) e la creazione di
un’economia etica attorno al movimento (come il Progetto di Occupy dei Venditori di
Strada). Ciò prefigura una nuova forma di società in cui i Commons sono al cuore della
creazione del valore; questi Commons sono amministrati da istituzioni non a scopo di
lucro e la sussistenza è assicurata mediante un’economia etica. Naturalmente ci sono
precedenti storici, ma ciò che è nuovo è lo straordinario potenziale organizzativo, di
mobilitazione e co-apprendimento delle sue reti. Occupy opera come un’API [Application
Programming Interface – Applicazione di interfaccia di programmazione] aperta con
moduli, quali gli ‘accampamenti di protesta’, le ‘assemblee generali’, che possono essere
utilizzati come modelli ed essere modificati da tutti, senza necessità di una dirigenza
centrale. Ora siamo in grado di avere un coordinamento e un mutuo allineamento globali

di una moltitudine di dinamiche di piccoli gruppi, e ciò richiede un nuovo tipo di guida.
La consapevolezza del momento storico del Picco della Gerarchia, il momento in cui le
reti distribuite asimmetricamente possono sfidare le istituzioni verticali in modi che non
erano possibili in precedenza, costringe i movimenti sociali a guardare a nuove forme di
governabilità … ma queste non sono date e devono essere scoperte sperimentalmente; e,
naturalmente, ci saranno lezioni valide da apprendere dai movimenti del passato!

Affinché il P2P fiorisca davvero, dobbiamo liberarci dei diritti di proprietà
intellettuale, dei diritti d’autore, dei brevetti, ecc. Come pensi che possiamo
riuscirci?

Michel Bauwens: Personalmente non sono un abolizionista puro, perché ritengo che
un mucchio di artisti e creativi credano nella necessità dei diritti d’autore, perciò penso
che possiamo discutere di numeri. Riportare la protezione a periodi ragionevoli di tempo,

non più dei 14 anni originali di protezione, o meno; il Partito Pirata propone un limite di
cinque anni. Accanto a ciò vi è l’offerta di una scelta ai creativi, rendendo popolari licenze
basate sulle scelte, come i Creativi Commons. Ma la priorità sta nel trovare nuovi modi
di finanziare la creazione … ciò si può fare attraverso licenze collettive e altre forme di
finanziamento pubblico, promuovendo e sostenendo modelli di commercio aperti e, alla fin
fine, mediante un reddito minimo, che riconosca che ogni cittadino contribuisce al valore
e lo crea. Questi obiettivi si possono conseguire in parte attraverso l’innovazione sociale
che deriva dalle comunità di produzione paritaria che sperimentano intensamente nuove
forme di commercio, quali il movimento per la cultura gratuita, i Partiti Pirata, e altre
espressioni della nuova cultura della condivisione.

A me pare che il P2P stia creando una specie di “mondo interamente nuovo”,
ma senza alcun riferimento o collegamento all’attuale sistema politico. Se
Occupy rappresenta un’alternativa che si impegnasse in politica, qual è il
collegamento tra la politica paritaria e la democrazia borghese e i partiti
politici?

Michel Bauwens: Questa è una domanda molto difficile e deriva da un paradosso.
Un aspetto è la crescente consapevolezza sociale che la nostra attuale democrazia è una
facciata e che lo stato è stato occupato da una fazione finanziaria predatrice, mentre
i politici non vedono altra via d’uscita che soccombere ai suoi ricatti. Ma l’altro lato
è che le libertà e i diritti popolari e il reddito privato e sociale sono sempre più sotto
pressione, il che porta alla mobilitazione politica e sociale così come a un efficace impegno
politico. Il primo aspetto porta a una continua innovazione democratica dalla nuova
cultura P2P; pensa ai meccanismi di amministrazione paritari nelle comunità paritarie

di produzione; nuove invenzioni, come il voto dinamico, e anche se questi meccanismi
operano all’esterno delle convenzioni vi sono anche inserite nuove forme di creazione
di valore, nuove istituzioni sociali P2P e perciò pronte a crescere. Il secondo aspetto
porta a nuove forze politiche e sociali che operano all’interno del sistema attuale, come
l’emergente Partito Pirata. In Brasile ho sentito che il vivace movimento culturale Eixo
do Foro, che ha una contro-economia funzionante centrata sulla musica, si sta anche
politicizzando e impegnando nella politica locale. Il secondo conduce a quella che chiamo
politica diagonale, ovvero a un mutuo adattamento tra le forze e le prassi emergenti P2P e
le vecchie realtà istituzionali.
Nella misura in cui ciò sia inefficace, allontana dalla soluzione derivante dal primo aspetto,
ovvero prepara a un più radicale e rivoluzionario riordinamento delle nostre istituzioni.
Significativamente un membro del Partito Pirata Svedese ha scritto una volta che il Partito
Pirata è l’ultima possibilità di evitare la rivoluzione. Nella misura in cui l’attuale sistema
rifiuta di adattarsi, in quella misura accresce la necessità e la spinta a trasformazioni più

radicali.

Come valuti l’impatto del P2P sul movimento sindacale? Non mina anche le
strutture burocratiche delle organizzazioni dei lavoratori?

Michel Bauwens: Sono in contatto con giovani attivisti sindacali e del lavoro che sono
forti sostenitori del movimento sindacale in rete e vediamo anche come il movimento
Occupy ha già radicalizzato il movimento sindacale statunitense. Ma alla fine la vecchia
struttura istituzionale e gerarchica dei sindacati, così come la loro crescente incapacità di
proteggere le conquiste sociali nell’attuale sistema regressivo devono anch’esse condurre

a un profondo rinnovamento del movimento sindacale. In un certo modo il movimento
P2P è effettivamente un’espressione del nuovo strato dominante di lavoratori del settore
cognitivo, che in occidente sono il pilastro del lavoro produttivo. P2P è la loro cultura
e quel che deve essere realizzato per realizzare un lavoro produttivo e utile. In quel
senso il movimento P2P è il nuovo movimento del lavoro del ventunesimo secolo, con
gli Indignados e Occupy come prima espressione di quel nuovo sindacato ma anche di
sensibilità civica.

Tu dichiari che P2P rende possibile una nuova e “più elevata” forma di
società. Prima non è stato così perché la tecnologia non esisteva. I Marxisti
dicono la stessa cosa da più di 150 anni. Pensi che si sbagliassero allora,
che forse abbiano ragione oggi oppure P2P è qualcosa di ‘completamente
diverso’?

Michel Bauwens: Considero il marxismo e le altre forme di socialismo e anarchismo,

alla fin fine come un’espressione della dicotomia all’interno del sistema capitalista
industriale e che propongono altre logiche per gestire il modello industriale. Ma P2P è
espressione delle dinamiche di classe e sociali in evoluzione sotto il capitalismo cognitivo.
E anche se il primo era sostanzialmente anti-capitalista e non poteva realmente puntare
a una nuovo modello iperproduttivo di organizzazione della produzione (il socialismo
era un’ipotesi, e gli esempi della sua attuazione reale inevitabilmente hanno deluso; non
vi era un socialismo emergente all’interno del capitalismo e solo il ‘capitalismo di stato’
al di fuori di esso) quello che è diverso nel movimento P2P è che può puntare a modelli
già esistenti che superano in cooperazione e competizione i modelli capitalisti classici,
ovvero è post-capitalista. Marx aveva ragione riguardo al capitalismo ma aveva torto
riguardo al socialismo e io credo che il modello, diretto politicamente, del cambiamento
sociale, quando non sia basato su un modello produttivo già esistente, sia stato mal
concepito. Il movimento P2P è perciò pronto a realizzare quello che i movimenti del
diciannovesimo e ventesimo secolo non hanno potuto realizzare perché a loro non era

disponibile l’alternativa iperproduttiva. La politica del fluire del P2P da una prassi sociale
già esistente, quella è davvero la differenza chiave.
Originale : http://forum.tanit.co/joomla/index.php/forum/5-General-
Discussion-%28public%29/694-Peer-to-Peer-and-Marxism#694

Repost: https://snuproject.wordpress.com/2012/01/03/and-the-debate-begins-peer-to-peer-and-marxism-
analogies-and-differences-jean-lievens-interviewed-with-michel-bauwens/

L’economia dello Sciame, Un futuro distopico non è inevitabile

Di Zacqary Adam Green – 12 febbraio 2012

Mentre persiste la crisi della disoccupazione nelle nazioni sviluppate cresce un sentimento di colpevolizzazione della tecnologia. Non è semplicemente un contraccolpo luddista contro il progresso, ma il timore, tra i fautori della tecnologia, che possano realizzarsi le cupe predizioni del cinema cyberpunk. Non deve essere necessariamente così.

Si può discutere quanto del progresso tecnologico sia da biasimare per l’attuale crisi della disoccupazione, ma sicuramente alla fine diverrà un tema centrale. L’ingegnere informatico Jon Evans ha sintetizzato bene il problema:

Gli Stati Uniti, l’Europa e il Giappone sembrano tutti barcollare senza sosta di crisi in crisi; la maggior parte del mondo sviluppato lotta contro livelli debilitanti di disoccupazione ma, al tempo stesso, il mondo tecnologico sta esplodendo come fosse il 1999. Non sembra un po’ strano?

Comincia a sembrare che possiamo essere entrati in un’economia a doppio binario, in cui una piccola minoranza raccoglie la maggior parte dei benefici di una tecnologia che distrugge più posti di lavoro di quanti ne crei. Come dice il mio amico Simon Law: “Prima abbiamo automatizzato il lavoro servile, ora automatizziamo il lavoro della classe media. Sfortunatamente abbiamo ancora necessità che le persone abbiano un lavoro una volta diventate adulte. Questa tendenza finirà per diventare un grosso problema …”

Il problema è, naturalmente, la disuguaglianza di reddito. In questo futuro plausibile (di nuovo, l’eliminazione dei posti di lavoro ad opera delle macchine non è certamente la spiegazione completa) gli addetti a progettare e a provvedere alla manutenzione dei sistemi automatici saranno gli unici con posti di lavoro ben remunerati (o essenziali). Ma ci sono al mondo sette miliardi di persone ed è arduo sostenere che saranno disponibili sette miliardi di posti di lavoro di questo genere. Quelli non abbastanza fortunati da occupare una delle poche posizioni cruciali di progettazione saranno lasciati a svolgere qualsiasi lavoro servile che non sia stato ancora automatizzato.

Quale vergogna! Dopotutto il vero senso dello sviluppare la tecnologia non è di rendere le cose più agevoli per gli esseri umani? Infatti, come sostiene il Capitalismo ++ “la disoccupazione spesso crea le più grandi svolte della storia umana. Non dovremmo perseguire la piena occupazione; dovremmo perseguire la piena disoccupazione.[Grassetto nell’originale] . La disoccupazione mette a disposizione molto tempo libero che, al minimo, potremmo dedicare allo svago e, al meglio, potrebbe essere incanalato alla creatività e alla realizzazione di idee. E dunque che vergogna che la tecnologia sembri pronta non a liberare dal lavoro miliardi di persone, bensì a tagliare completamente o a ridurre drasticamente i mezzi perché si sostengano!

Tali orribili livelli di disuguaglianza sono un’ingiustizia; masse di persone costrette a lottare per sopravvivere perché non sono sufficientemente fortunate da strappare una delle poche occupazioni di vertice. Persino in una meritocrazia perfetta ed equa, in cui tutti i vincitori siano davvero i più qualificati, i perdenti non meriterebbero certo il loro destino.

Di certo nessuno si schiererebbe a favore di ciò. I disaffrancati si solleverebbero e si batterebbero per la loro dignità, non è vero? Jon Evan non ne è così sicuro:

Viene anche suggerito che la disuguaglianza possa causare tumulti e violenze nel mondo occidentale. Non scommetteteci. Vero, la disuguaglianza ha provocato il movimento Occupy e, in misura minore, il Tea Party; ma ho una certa esperienza e fidatevi: il mondo è pieno di nazioni con una minoranza minuscolo di ricchissimi, un’élite appena un po’ più allargata che se la passa bene, un limitata classe media e una gran maggioranza di persone che, a diversi livelli, è povera e in lotta per tirare avanti. Brasile, Cina, India e Russia, per esempio, per citare un famoso quartetto. Non c’è nulla di insolito o di intrinsecamente instabile a proposito di tale genere di disuguaglianza. In effetti è la norma nella maggior parte del mondo.

Forse la disuguaglianza non è intrinsecamente instabile. Forse una sollevazione e una lotta di massa per la giustizia non sono inevitabili. Ma, di nuovo, come attesta il commento di Evans nel paragrafo a proposito dei movimenti Occupy e Tea Party, la disuguaglianza non è neppure stabile e una sollevazione di massa non è impossibile. La distopia cupa, diseguale, di genere cyberpunk che Evans ritiene si stia approssimando è solo uno dei futuri possibili e dipende da noi fare qualcosa per fermarla.

Non dimentichiamo che il risparmio di manodopera non è la sola cosa che la tecnologia produce. Ad esempio costruire robot elimina la necessità di operai umani nelle fabbriche; può eliminare anche la necessità delle fabbriche. La condivisione di file e Internet hanno operato per sconvolgere e minacciare di portare al collasso l’industria dello spettacolo, rendendola contemporaneamente obsoleta consentendo a persone creative indipendenti di finanziare, promuovere e distribuire le proprie opere attraverso i canali peer-to-peer. L’agricoltura automatica e la tecnologia idroponica hanno tolto il lavoro ai dipendenti delle fattorie ma hanno anche aperto la possibilità di coltivazioni interne a bassa manutenzione in ogni paese e città. Questi sono solo alcuni esempi di come per ogni insieme di occupazioni distrutte dal processo tecnologico, si aprono intere nuove serie di possibilità.

In questo futuro, in cui la maggior parte del lavoro servile è automatizzato, miliardi di persone non hanno un luogo di lavoro in cui recarsi e dove ricevere istruzioni su cosa fare tutto il giorno. Hanno anche gli strumenti per fabbricare qualsiasi cosa di cui siano in grado di creare un modello al computer, di diffondere qualsiasi opera d’arte siano in grado di creare in tutto il mondo e di coltivare il cibo esattamente nelle comunità in cui vivono. Improvvisamente il campo di gioco sembra molto più equilibrato. Invece di cercare lavoro le persone possono creare il proprio.

Il progresso tecnologico può benissimo creare un futuro in cui i datori di lavoro abbiano meno cose che devono far fare ad altri. Bene. E’ ora che cada in disgrazia il paradigma di sostenersi andando a cercare qualcuno che ci dica cosa fare. Ma dobbiamo assicurarci che, una volta che non ci siano più posti di lavoro da trovare, noi disponiamo tutti degli strumenti e delle risorse necessarie accessibili per crearci il nostro lavoro. Dobbiamo far operare alla società e al nostro modo di vivere una svolta in direzione di questo obiettivo e sfidare l’idea comune che la creazione di lavoro e l’imprenditorialità sia solo per una piccola minoranza di folli, di appassionati o di ricchi. Ci si può arrivare, è fattibile, ma non arriverà da sé.

Un mondo migliore è possibile ma non è più inevitabile di un mondo peggiore. Far sì che si realizzi è il primo lavoro che dobbiamo crearci.

A proposito dell’Autore: Zacqary Adam Green

Zacqary è un regista, artista e Capo Bottintesta [Plankhead] Esecutivo di Plankhead un’organizzazione/collettivo/nave pirata di libera cultura e arti. Produce progetti assurdi con titoli tipo “Il tuo volto è un sassofono” da casa sua a Long Island, New York. Nel tempo libero è una volpe rossa di nome Xerxes.

Originale: http://falkvinge.net/2011/11/13/a-dystopian-future-is-not-inevitable/

Swarmwise, Come uno sciame

di Rick Falkvinge

Lo Sciame è un nuovo tipo di organizzazione reso possibile dalla disponibilità ed accessibilità dei mezzi di comunicazione di massa. Dove ci volevano centinaia di dipendenti per organizzare 100.000 persone, oggi la cosa può essere fatta – ed è fatta – da qualcuno nel suo tempo libero,  dal tavolo della cucina.

Ci sono molti malintesi a proposito di cos’è uno Sciame. Cominciamo con il cancellare cosa uno Sciame non è.

Non è un nugolo amorfo di uguali in cui nessuno ha un potere decisionale. Anche se per qualcuno una società simile sarebbe l’ideale, non si tratta di uno Sciame.

Né è una tradizionale organizzazione gerarchica in cui gli ordini sono impartiti dall’alto e ci si aspetta che vengano eseguiti. Uno Sciame può apparire così dall’esterno, ma non è questo.

E’, piuttosto, un’impalcatura costruita da pochi singoli che consente a decine di migliaia di persone di collaborare a un obiettivo comune della loro vita. Queste decine di migliaia di persone sono solitamente molto diverse e provengono da ogni stile di vita, ma condividono un obiettivo comune. L’impalcatura costruita da un singolo o da pochi individui consente a queste migliaia di persone di formare uno Sciame attorno ad essa e cominciare a cambiare insieme il mondo.

Questa impalcatura non appare molto complessa. In termini minimali si traduce semplicemente in uno strumento per comunicare e discutere i temi in ordine ai quali lo Sciame vuole operare un cambiamento, come in un forum su un server. La complessità deriva dalla meritocrazia che stabilisce come lo Sciame opera e decine come un organismo nel corso dell’azione.

Poiché tutti, nello Sciame, sono volontari – vi partecipano perché pensano che lo Sciame possa essere un veicolo di cambiamento in un’area di loro interesse – il solo modo per dirigerlo consiste nell’ispirare altri attraverso l’azione diretta. Il fondatore dello Sciame ha una grande quantità di influenza iniziale in questo modo, ma è lungi dall’essere l’unico. In uno Sciame tipico si scoprirà che le persone si ispirano le une le altre a tutti livelli e in ogni luogo, con l’unico fattore comune rappresentato dagli obiettivi complessivi dello Sciame ogni singolo individuo sceglie di seguire.

Significativamente, la concentrazione dello Sciame è sempre su quello che ciascuno può fare e ma su quello che non si può fare o che si deve fare.

Questo ne fa un caso decisamente a parte rispetto a un’azienda o istituzione democratica tradizionale, che si concentra con forza su quello che la gente deve fare e su entro quali confini e limiti deve muoversi. Questa differenza è parte del motivo per cui uno Sciame può essere così efficace: tutti possono trovare qualcosa che amano fare per tutto il tempo scegliendo da una tavolozza che promuove gli obiettivi dello Sciame e non c’è nessuno che dica come le cose non vanno fatte.

In uno Sciame nessuno arriva a dire a nessun altro cosa deve fare. (Tuttavia si possono scegliere ruoli e compiti volontariamente).

Piuttosto, le persone si ispirano a vicenda. Non ci sono gerarchie cui rispondere tra gli attivisti. Poiché tutti comunicano sempre con tutti, i progetti riusciti creano rapidamente onde. Quelli meno riusciti fanno sì che lo Sciame apprenda e passi oltre senza indici accusatori  puntati su nessuno.

Se si vuole un ruolo guida in uno Sciame ci si alza su e si dice “Io farò X perché penso che realizzerà Y. Chiunque voglia unirsi a me nel fare X è più che benvenuto”. Tutti, in uno Sciame, possono alzarsi a dire questo e tutti sono incoraggiati a farlo. Ciò crea rapidamente una struttura di guida, informale ma tremendamente forte in cui le persone ricercano ruoli che massimizzino il proprio impatto nel far avanzare gli obiettivi dello Sciame e il tutto accade organicamente senza pianificazione centrale e diagrammi organizzativi.

Le sole persone che si allontanano da questa modalità ed assumono compiti formali sono quelle che mantengono l’impalcatura dello Sciame e costituiscono punti di contatto per i media e altre organizzazioni esterne che operano in modo tradizionale. Per questo motivo uno Sciame può a volte sembrare un’organizzazione tradizionale. Ma c’è una differenza chiave: sembra un’organizzazione tradizionale vista dall’esterno perché sceglie di apparire così; perché lo Sciame è più efficace nell’interfacciarsi in quel modo con organizzazioni legate a un’eredità organizzativa. Non perché operi davvero in tal modo.

Tirate le somme, ciò che distingue uno Sciame dalle organizzazioni tradizionali è la sua sensazionale velocità operativa, i suoi costi prossimi a zero e il suo vasto numero di volontari molto dediti. Le imprese e le istituzioni democratiche tradizionali sembrano operare su tempi da ere geologiche visti dall’interno di uno Sciame. E’ anche per questo che uno Sciame può cambiare il mondo: esso si muove in cerchio attorno alle organizzazioni tradizionali, in termini di qualità e quantità del lavoro, nonché quanto all’efficienza delle risorse.

Questo libro vi insegnerà tutti i passi per costruire l’impalcatura necessaria e per costruirvi attorno uno Sciame.

Estratto dal libro in uscita “Swarmwise”

Questa è una parte in bozza del libro ‘Swarmwise”, in uscita nella prima metà del 2012. E’ un manuale d’istruzioni per reclutare e guidare decine di migliaia di attivisti in una missione per cambiare il mondo in meglio, senza avere accesso a denaro, risorse o fama. Il libro è basato sulle esperienze di Falkvinge nell’aver guidato il Partito Pirata Svedese dentro il Parlamento Europeo, partendo da nulla, e copre ogni aspetto della guida di uno sciame di attivisti al successo convenzionale. […]

A proposito dell’autore: Rick Falkvinge

Rick è il fondatore del primo Partito Pirata ed è un predicatore politico, che viaggia in Europa e nel mondo per parlare e scrivere a proposito di idee di informazione politica razionale. Ha un passato di imprenditore nella tecnologia e ama il whisky.

Fonte: http://falkvinge.net/2011/08/01/swarmwise-what-is-a-swarm

Permacultura: modello di progetto comunitario per 25 – 500 famiglie

di Dann Zealley, The Permaculture Research Institute of Australia  – 31 gennaio 2012

Introduzione

Nel 2008 ho trascorso 6 settimane in Venezuela. Ho un amico venezuelano che crede, come me, che la permacultura potrebbe e dovrebbe essere la forza guida di un cambiamento positivo. Entrambi riteniamo che la Rivoluzione Bolivarista, il cui paladino più famoso è il carismatico Hugo Chavez, dalla personalità controversamente colorita, nonostante molti seri “problemi di crescita”, offra il modello più pragmatico per la trasformazione sociale dell’umanità in direzione di un mondo davvero giusto ed ecologicamente sostenibile. Da quando Chavez è stato eletto nel 1998 hanno già avuto luogo enormi cambiamenti. Nonostante la propaganda mediatica dell’industria che afferma  il contrario, la quantità di realizzazioni è innegabile (particolarmente quando la si confronti con il drammatico declino economico e sociale delle nazioni cosiddette “sviluppate” e l’inquietante aumento del deficit di democrazia in Europa e nell’America del Nord.)*

Tuttavia un elemento che è dibattuto ma raramente messo in pratica nella rivoluzione è il ruolo che i principi ecologici devono svolgere nel contesto della costruzione del “Socialismo del ventunesimo secolo”. Sono introdotte lampadine ecologiche per sostituire quelle inefficienti ad incandescenza e piccoli (piccolissimi) progetti di energia rinnovabile sono avviati in aree remote per alimentare i villaggi. Sono introdotti progetti di agricoltura organica. Ma non c’è una visione coerente a supporto di queste iniziative diversa dalla retorica politica ambientalista che cattura voti (particolarmente in questo 2012 che è un anno elettorale). Ciò è dovuto al fatto che la visione ecologica deve ancora avere un impatto sostanziale sulla visione socio-politica della rivoluzione. I principi ecologici devono guidare il motore del cambiamento nella rivoluzione, non solo essere passeggere di treno del progresso politico e sociale. I principi ecologici devono essere al centro del movimento bolivarista, non alla periferia. I principi ecologici devono essere l’elemento maggiormente definitorio del socialismo, non un’idea aggiunta.

Più significativamente i principi ecologici devono informare i nostri progetti per l’uso sostenibile della terra e delle risorse e le interazioni sociali in un modo quanto più pratico possibile, in modo che le persone di ogni livello di vita siano in grado di partecipare, prosperare e interagire con tutte le forme di vita che ci sono compagne nel rispetto che esse sicuramente meritano come membri della famiglia della Madre Terra. Fino a quando, come società, non considereremo non solo tutti gli umani, bensì tutte le forme di vita come parte delle nostre famiglie e non come merci, saremo vittime di conflitti che minacciano la nostra stessa esistenza. Questo concetto incorpora l’assioma del Che di un amore rivoluzionario applicato in un contesto universale. Questo concetto deve essere definito nel modo più pratico quando progettiamo l’uso della terra, le interazioni sociali ed economiche e l’interazione con il mondo della natura. Come ha proclamato Marx, dobbiamo interagire con tutto il mondo della natura come se fossimo parte del suo metabolismo, non come un male antagonista che attacca il suo ospite. Qui sta la distinzione fondamentale tra socialismo e capitalismo.

Ma il socialismo ha bisogno della guida dei principi ecologici come bussola per progredire e i principi ecologici necessitano del quadro sociale che solo il socialismo può offrire al fini di sostenere l’integrità che alimenta la vita di tutto il lavoro dell’ecologia. I 12 principi della permacultura formano il ponte filosofico tra socialismo ed ecologia in un modo più coerente e fluido di qualsiasi altra cosa io debba ancora incontrare.

Né dogmatica né escludente, la permacultura abbraccia tutto ciò che è davvero sostenibile, dalla saggezza indigena alla più recente tecnologia verde più d’avanguardia e, cosa della massima importanza, “percorre il cammino con il cuore”.

David Holmgren (co-fondatore dell’idea della permacultura) ci ha consegnato il lavoro più importante in questo campo: “Permaculture: Principles and Pathways Beyond Sustainability”, 2003, Chelsea Green [Permacultura: principi e percorsi oltre la sostenibilità].

Questo lavoro costituisce un modello del modo di pensare al mondo in un contesto davvero sostenibile. Ci mette in grado di progettare sistemi che non solo funzionino e durino ma anche si evolvano naturalmente per guarire le fratture al metabolismo della Madre Terra che il capitalismo e la religione istituzionale hanno fatto letteralmente a pezzi.

Ma abbiamo bisogno di esempi concreti che vadano oltre le scala del terreno di casa e delle piccole comunità. In questo spirito offro di seguito il mio progetto di modello di permacultura per comunità di villaggio e regionali. Originariamente è stato offerto al dipartimento per il recupero della terra del governo venezuelano (acronimo INTI) che stava (e sta) tentando di invertire l’influsso sulle campagne delle municipalità urbane sovraffollate e anche di affrontare contemporaneamente il problema critico della sovranità alimentare. La cosa buona del partire da zero in queste situazioni è che il progetto completo della permacultura è reso più facile in quanto è necessaria minor flessibilità che in progetti comunitari difettosi già esistenti in cui sono richieste maggior cura ed energia per adattarsi alle situazioni prevalenti. Anche se pensavo specificamente al Venezuela nel costruire questo progetto, penso che esso sia ampliamente applicabile su scala globale. Prego di tener presente che, a questo punto, questo è solo un modello “proposto” e non un criterio consolidato. Conseguentemente, apprezzerei moltissimo commenti e critiche (costruttive o no) per contribuire a sviluppare questo modello.

Iniziativa per il processo di recupero della terra (INTI) in Venezuela

Obiettivi

Elaborare un piano che:

1. garantisca la sostenibilità ecologica

2. garantisca la produttività economica

3. protegga da corruzione economica e politica il processo rivoluzionario etico ed organico

4. alimenti e promuova i valori del nuovo paradigma della sostenibilità

Imperativi

Prima (e, in alcuni casi, dopo) che la terra sia assegnata, devono essere realizzate o fornite le seguenti risorse e servizi:

1. Una valutazione della terra per la permacultura deve essere condotta al fine di comprendere cosa c’è con cui lavorare e quali ostacoli o problemi devono essere affrontati in modo che i criteri di cui sopra possano essere soddisfatti (idrologia, tipi di suolo, fattori climatici regionali e locali, flora e fauna esistenti, habitat limitrofi e circostanti, precedente storia naturale e conoscenza indigena dell’area (se è possibile ottenerle).

2. Dopo aver soddisfatto il primo imperativo deve essere attuato un piano idrico (potenzialmente attività di movimento terra per creare una serie di piccole dighe collegate, flussi e riserva/e).

3. Siti di energia rinnovabile, sistema/i di compostaggio e di risorse alimentari condivise.

4. Siti di risorse comunitarie condivise (produzione di energia, produzione alimentare condivisa) e di servizi condivisi (scuola/e, centro/i comunitario/i, centro/i culturale/i, centro/i ricreativo/i).

5. Interconnessione di ciascun appezzamento di terreno (acqua, energia, telecomunicazioni e trasporti).

6. Calcoli di emergenza stimano che la capacità complessiva della terra richiesta per sostenere ciascun essere umano sia di 2,2 ettari. Lavorare su una media di 2 ettari per persone e per famiglie di 3-4 persone. Tentare di limitare le assegnazioni individuali a 1 ettaro per famiglie mediamente di 3 componenti (dobbiamo ridurre la popolazione umana) e dedicare il resto (5 ettari) a infrastrutture, produzione sociale e integrazione della natura.

7. Istruzione sulla permacultura prima che gli assegnatari lavorino i loro lotti di terra, con continua consulenza per la risoluzione di problemi.

8. Nessuna segretezza! Dopo la realizzazione della fase infrastrutturale, tutti i processi devono essere concordati mediante consenso comunitario e tutte le informazioni devono essere rese pubbliche (all’esterno e all’interno), disponibili in tutti gli stadi.

9. Utilizzare solo procedure e materiali organici, vietare l’uso di tutti i prodotti sintetici (fertilizzanti, pesticidi, fungicidi).

10. Vietare l’agricoltura della “terra bruciata” (bruciare la terra per una rapida spinta in altro del carbonio che distrugge i processi biologici naturali al suolo), le monocolture e l’allevamento concentrato o su larga scala del bestiame.

Il piano

Fase 1

Iniziare la costruzione delle infrastrutture una volta completata la valutazione:

1. Durante la stagione secca attuare i lavori di movimento terra per le dighe, le strade, i sentieri, le strutture comunitarie , i siti di produzione sociale (prodotti e servizi a valore aggiunto), siti di compostaggio e corridoi naturali.

2. Installazione di infrastrutture energetiche per i progetti della comunità (turbine per le dighe, per il vento su aree non utilizzate per altre attività, recupero del biogas dalle pile di compostaggio, ecc.) e reti di comunicazione via filo.

3. Nella stagione umida quando le dighe sono colme (o si stanno riempiendo) seminare: piante condivise dalla comunità (da frutto, noci, medicinali e controllo degli insetti (ad es. Neem)), per la natura (cibo per animali selvatici e insetti utili), aromatiche e per mobilio/artigianato.

4. Bambù (ciclo di taglio 4-7 anni) per materiale da costruzione, cibo, barriera naturale, capacità di ritardo degli incendi e di prevenzione dell’erosione del suolo. Alimenti stagionali di base (granaglie, baccelli e legumi). Immettere nelle dighe e nelle riserve pesce e giacinto d’acqua per la purificazione della stessa; insetti benefici e habitat per pesci e vita naturale; concime umano e materiali da miscele di compostaggi e pacciame (carbone, funghi) per l’agricoltura. Piantare adattabili (banani, papaye, iucca, bambù) e piante pioniere (legumi che fissano l’azoto e concime verde per la formazione del terreno) in siti individuali nel corso di questa fase iniziale in modo che se ne ricavino prodotti immediati nonché l’avvio di procedure critiche per la formazione del terreno.

5. Impiegare il lavoro di potenziali interessati. Offrire cibo e alloggio temporaneo deducendo dalle paghe un terzo per l’ammortamento dei materiali e un terzo per l’ammortamento dei servizi.

6. Programmare settimane di quattro giorni di lavoro, due giorni di corsi di permacultura e un giorno da dedicare alla famiglia/tempo libero.

7. Consultare i singoli interessati dopo il completamento del corso base di permacultura riguardo a componenti specifici in relazione del progetto del sito della comunità e delle prospettive dei siti individuali.

Fase 2

Dopo aver creato l’infrastruttura di base e dopo aver consultato tutti gli interessati:

1. Trasferire i partecipanti nei singoli lotti (non più di un ettaro ciascuno).

2. Accomunare lavoro e risorse per costruire ripari di base in ciascun sito.

3. Dare priorità al concime umano, alle acque grigie e a sistemi di riciclaggio (compostaggio di concime umano per gli alberi della comunità, concime animale, scarti di cibo e residui di carbone per compostaggio da giardino, cisterne sul tetto per l’acqua piovana, filtri dei sedimenti, separazione di metalli, plastica, carta e vetro per riutilizzo o trasformazione per nuovi usi).

4. Cinque giorni di lavoro, un giorno di istruzione sulla permacultura per problemi specifici del sito e problemi emergenti, un giorno per il riposo e la famiglia.

5. Piantare policolture più specifiche nei siti individuali e incoraggiare allevamenti animali su piccola scala (pollame, animali da latte, maiali e roditori) da usare per il foraggiamento di insetti, produzione di concime e produzione alimentare (sempre integrati associazione con altri sistemi del sito).

6. Implementare la generazione di energia rinnovabile su piccola scale (dove applicabili: pannelli solari sui tetti, piccole turbine in acque in movimento sul sito, geotermia, ecc.).

Fase 3

1. Sviluppare l’infrastruttura della comunità (lavorare alla/e scuola/e, ai sistemi di comunicazione (senza fili, centro/i radio e video, cooperativa di veicoli elettrici condivisi, strutture interne di organizzazione democratica).

2. Sviluppare il potenziale di produzione sociale, come servizi cooperativi autoregolati (istruzione/ cultura, ristoranti, riparazioni tecniche ecc.) e industrie cooperative per prodotti a valore aggiunto (forno/i, mobili, artigianato, lavorazione degli alimenti, ecc.).

3. Sviluppare prodotti e utilizzi di materiali riciclati.

4. Incorporare principi socialisti/della permacultura in tutti i livelli di istruzione:
– prescrivere corsi di orticoltura al livello scolastico elementare
– prescrivere corsi più avanzati di permacultura e teorie politiche/economiche con il salire di livello degli studenti
– corsi di recupero ed avanzati per adulti
– i nuovi partecipanti (sopra i 16 anni) devono frequentare almeno un corso di 72 ore di progettazione della permacultura prima di essere accettati (nessuna eccezione, indipendentemente dall’età)
– tutti i partecipanti devono collaborare a un programma minimo settimanale di orario concordato in raccolti e attività di manutenzione comunitarie

Fase 4

La comunità aumenta l’autosufficienza ma dovrebbe anche essere in grado di far evolvere potenziali e dimensioni aggiuntive; ad esempio:

1. Taglio del bambù (su base continuativa) per materiale da costruzione, mobilio e artigianato.

2. Aumento dei surplus di risorse condivise dalla comunità (frutta, noci e alberi Neem) e di acquacultura con il diminuire del tempo necessario per la manutenzione, con l’evolversi del sistema.

3. I siti individuali evolvono diversità complementari che incorporano capacità aggiuntive con l’aumentare del tempo a disposizione dei partecipanti.

4. Attuazione di progetti di eco-risanamento per le zone cuscinetto e le aree circostanti contigue se necessario (riforestazione, recupero delle vie d’acqua, risanamento del terreno, ecc.)

5. Sviluppo di strutture di produzione/ricerca micologica per accrescere la fertilità del suolo, riduzione e controllo degli animali nocivi e delle malattie delle piante, utilizzo per ulteriore produzione di cibo e medicinali.

6. Quando la produzione in supero eccede le necessità della comunità può essere richiesta per l’utilizzo in comunità in bisogno o per lo sviluppo di comunità simili.

Perché questo piano dovrebbe funzionare

1. Il piano economico è basato su principi ecologici ed è pertanto ambientalmente stabile (se attuato correttamente).

2. Le risorse e i servizi comunitari integrati creano condizioni adatte alle transazioni economiche sostenute da strategie che abbracciano principi di solidarietà, che riducono il rischio individuale e promuovono la democrazia partecipativa interna, riducendo o eliminando la possibilità di inerzia burocratica interna.

3. La dimensione dei lotti individuali (assieme al precedente punto 2) a un ettaro, previene manipolazioni finanziarie esterne (costringere le persone a rivendere i loro lotti all’oligarchia).

4. La clausola di “non segretezza” evita che la corruzione prenda il minimo piede in qualsiasi punto, a qualsiasi livello del sistema.

5. Le iniziative educative al socialismo e alla permacultura gettano le fondamenta per spostare i valori dell’attuale paradigma disfunzionale in direzione di un paradigma che appoggia valori sostenibili.

6. Escludere tutte le grandi imprese dalla partecipazione e dall’appropriarsi della redistribuzione del surplus controllo la motivazione del profitto che è la maggiore responsabile del successo delle strategie di “divide et impera” dell’aggressione delle grandi imprese.

7. Poiché gli interessati partecipano sin dall’inizio c’è un collegamento e un riconoscimento definitivo dell’associazione tra l’interesse individuale e l’integrità della comunità e dell’ambiente.

Da Socialforge, un laboratorio di creazione sociale
www.socialforge.org
Originale: The Permaculture Research Institute of Australia
Fonte: http://permaculture.org.au/2012/01/31/community-design-template-for-25-500-families/
Traduzione di Giuseppe Volpe
(c) 2011 – Socialforge – Licenza Creative Commons BY-NC-SA 3.0

Scarsità ed abbondanza II (dibattito)

Dibattito sul testo “Abbondanza di cibo contro abbondanza di ricette”, con commenti di Michel Bauwens, Franz Nahrada e Wofgang Hoeschele al documento di Brian Davey del 17 novembre 2010

Michel Bauwens: Come l’abbondanza immateriale può assistere un’economia stabile

Brian Davey ha scritto un testo molto stimolante, pubblicato [in italiano] qui, che ammonisce contro il parificare l’abbondanza di cultura immateriale con l’abbondanza di produzione materiale.

Si tratta di un argomento molto importante sul quale fondamentalmente concordiamo.  Ciò nonostante io credo anche che Brian Davey non comprenda l’importanza dell’abbondanza immateriale nel risolvere la crisi della scarsità materiale.

Rivediamo rapidamente i punti sui quali posso facilmente dirmi d’accordo.

Sì, non possiamo ingenuamente sperare che l’era dell’abbondanza materiale continui con la stessa forza, senza riconoscere le scarsità materiali che si stanno facendo di giorno in giorno più gravi.  Una seria contrazione del livello industriale standard di produzione materiale è più che probabile.

Sì, l’infrastruttura Internet è essa stessa un’infrastruttura materiale costosa.

Sì, non possiamo ingenuamente presumere che “abbondante” energia rinnovabile sostituisca del tutto, o almeno in misura significativa, la sovrabbondanza di combustibili fossili cui ci siamo abituati. Le rinnovabili non sono soluzioni magiche e hanno sia limiti assoluti sia problemi concreti di concentrazione per i bisogni umani.

Dunque, in conclusione, sono d’accordo che sia molto pericoloso mettere fare un unico fascio dell’ “abbondanza immateriale” e dell’abbondanza materiale.  E questo è infatti un argomento che ho costantemente sostenuto nel mio intervento: che il presente sistema combina pseudo-abbondanza, una fiducia errata nell’infinita abbondanza del mondo materiale, ritenendo che la crescita infinita sia compatibile con un pianeta finita, con l’idea della necessità della scarsità artificiale nel mondo dell’innovazione della cultura e dell’innovazioni immateriali, rendendo molto difficile agli umani condividere e collaborare liberamente. Ho sostenuto che quella che ho chiamato la civiltà sostitutiva, centrata sui commons e le dinamiche paritarie, che sussume sia il mercato sia lo stato, capovolgerà quel sistema operativo sbagliato in uno che riconosce sia la scarsità reale del mondo materiale sia l’abbondanza di scambi culturali in un contesto digitale.

La mia tesi chiave sarebbe che un transizione riuscita a un’economia

stabile, o anche una decrescita, dipende dalla cooperazione globale e dalla struttura di rete disponibile.

Alcuni punti ovvi:

– Internet è uno strumento chiave della collaborazione umana e della rapida innovazione. L’umanità affronterà molte sfide e, anche se le situazioni locali sono diverse, ci sono anche importanti cose in comune, il che significa che gli esseri umani dovrebbero apprendere gli uni dagli altri. Tale apprendimento, in cui ogni innovazione potenziale è istantaneamente disponibile al resto dell’umanità, è ciò che promette la cultura libera (un termine sbagliato, nel senso che significa la vastissima collaborazione degli esseri umani riguardo a una serie di problemi). Naturalmente, esposto in questo modo, si tratta di un ottimismo esagerato. D’altro canto si pensi a come la conoscenza sarebbe trasmessa senza Internet, senza la stampa e persino senza la scrittura.  Nell’affrontare sfide globali, molte delle quali sono urgenti, abbiamo alternative? Possiamo permetterci di non mobilitare l’intelligenza collettiva transnazionale? Possiamo permetterci che le località restino totalmente isolate? Non è necessario adorare la velocità al fine di capire che essa ha effettivamente un certo ruolo da svolgere e che l’isolamento a causa di alti costi per operazione, comunicazione e coordinamento non sarebbero una cosa buona in quel contesto di urgente risoluzione di problemi.

– Le comunità globali aperte  di sapere, codice e progettazione seguono una logica diversa da quella delle imprese capitaliste.  Mentre l’innovazione capitalista progetta in funzione di grandi impieghi di capitale (per eliminare la competizione), di produzione centralizzata e di catene internazionali di valore per il consumo attraverso l’obsolescenza programmata, le comunità di progettazione aperta progettano per la produzione distribuita (non solo ‘fab lab’ (1) bensì un riorientamento generale della produzione che ruoti intorno a una tecnologia appropriata che utilizzi una fabbricazione aperta e distribuita) senza obsolescenza programmata.

– Internet è uno strumento di socializzazione paritaria e non gerarchica.  Brian nota quanto è stata diverso il Congresso di Berlino sui Commons, nel suo dialogo aperto e nella sua tolleranza per la diversità di opinioni, rispetto ai vecchi scontri per la verità nella sinistra cui era abituato in gioventù.  Ma c’è un motivo per questo e precisamente che il processo di socializzazione tra pari, in un contesto di abbondanza culturale, allena a questo tipo di collaborazione.

– Condividere infrastrutture e accesso a risorse comuni, come ad esempio i trasporti, funziona soltanto con una condivisione del sapere molto diffusa a basso costo di coordinamento.  Ad esempio la condivisione di biciclette falliva sistematicamente prima dell’avvento dei media digitali, ma ora in molte città rappresenta praticamente una routine. Ci sono enormi possibilità di ridurre la necessità di produzione materiale (di proprietà individuali) attraverso la condivisione di infrastrutture che dipendano da infrastrutture internet.

– Le comunità locali isolate sono forme svantaggiata dal nanismo che, anche se ecologicamente a minor impatto, dovrebbero confrontarsi con le imprese transnazionali e con gli stati-nazione competitivi.  Ciò è una garanzia di conflitto sociale, ovvero di possibili confronti violenti riguardanti risorse scarse.  D’altro canto una produzione locale che si accompagni a comunità di progettazione aperta e alla condivisione globale della conoscenza può facilmente superare, nella collaborazione, le capacità di coordinamento delle imprese transnazionali, mentre le comunità  [ ‘phyles’ nell’originale] transnazionali, ovvero le reti di valore coordinate che sono responsabili della propria sussistenza, possono offrire fraternità e solidarietà in un’era di stati assistenziali in declino. La collaborazione “attivata digitalmente” apre possibilità di nuove reti di governance globale che possono affrontare sfide globali in modo che non sono possibili né alle comunità locali né agli stati nazione.

Dunque la conclusione è che l’abbondanza materiale non è contrapposta alle economie materiali sostenibili, ma è una condizione per una transizione più agevole a tale stato di cose.  Anche se dobbiamo riconoscere che una tale infrastruttura è costosa e potrebbe non sopravvivere a un crollo ecologico, non è qualcosa che dobbiamo desiderare ma qualcosa che, se possibile, dovrebbe essere evitato. Tra le scelte d’investimento dell’umanità, la possibilità della cooperazione globale e dell’intelligenza collettiva transnazionale, non dovrebbe essere scartata, ma sarebbe una delle scelte migliori.  Questo naturalmente non significa che la stessa informatica non possa diventare molto più ecologica [verde] di quanto è ora. E’ difficile immaginare come un’economia stabile, di decrescita o “dalla culla alla culla” [cradle to cradle] si possa conseguire senza lacrime e sangue, senza l’uso dell’intelligenza collettiva.

Il nodo cruciale della questione è questo: siamo indubbiamente di fronte alla fine dell’abbondanza materiale basata sui combustibili fossili.  Ma questa trasformazione può aver luogo nel modo brutto, ovvero mediante un ridimensionamento terribile e costoso che può condurre a nuove forme di neotribalismo e neofeudalesimo patologici.  Questo è il percorso probabile se scegliamo il localismo isolato, senza accesso al mutuo coordinamento globale che ora è possibile conseguire.  Non serve avere colture organiche locali se ci si trova di fronte a bande nomadi di armati che vogliono la tua produzione. Oppure la nostra società si può trasformare passando a un livello di complessità più elevato, ricavando una sintesi tra un’economia stabile e una vita sociale e culturale globale molto ricca di mutuo coordinamento su scala planetaria e una ricca creazione di produzione relocalizzata.

La visione paritaria promette almeno, se realizzabile, questa nuova sintesi, un connubio della materialità locale e dell’immaterialità globale, invece di un ritorno a un localismo regressivo in un contesto di conflitti civili, tra imprese e tra stati nazione, per le risorse materiali che scarseggiano.

(1) [Letteralmente ‘laboratori di fabbricazione’, ma si potrebbe tradurre anche come ‘laboratori magici’ (da ‘fab’ = fabulous): fabbriche in grado di produrre idealmente qualsiasi cosa partendo da un progetto in formato elettronico (CAD) affidato a una macchina laser a controllo numerico che provvede alla realizzazione materiale. Il primo ‘fab lab’ è stato il ‘rep rap’ – n.d.t.]

Franz Nahrada: Quali sono le condizioni dell’abbondanza?

Ci sono pochi altri punti da fissare.  L’argomentazione “ecologica” tradizionale utilizzata dal Club di Roma si limita solitamente ad aggregare aspetti quantitativi dei processi produttivi con capacità riproduttive senza considerare la loro interazione; è cioè un po’ mal coordinata e mal costruita rispetto alle condizioni economiche attuali.

Michael Braungart ha tradotto ciò in un’immagine semplice: quando si ha una produzione materiale mal progettata che produce scarti, ogni attività ulteriore di questa produzione materiale aumenterà alla fine la scarsità complessiva.  Ma se i prodotti sono progettati per essere essi stessi parti di cascate di riutilizzo e riconversione [up-cycling], ciascuna attività aggiuntiva accrescerà la base per altre attività e creerà abbondanza.

C’è un fattore qualitativo che determina l’interazione tra le nostre crescenti informazioni e il mondo materiale: è la capacità di ideare e progettare cicli che si autoalimentino e si autosostengano e soluzioni per cui gli sforzi umani non vadano persi una volta compiuti ma conseguano sistematicamente utili sistemici da tali apporti.

Il modo di produzione capitalista-industriale è stato incentrato su una concezione monodimensionale del valore che si traduce in un meccanismo di risorse – prodotto [input – output] di cosiddetta efficienza. McLuhan ha osservato una volta che per questo meccanismo non ha importanza quale sia il prodotto che ne esce, che si tratti di cornflakes o di Cadillac, fintantoché il risultato può tradursi in denaro.  Nel modo di produzione automatizzato post-industriale la riproduzione ci richiederà di creare finalmente misure economiche e misure che riflettano l’assioma che il valore di ciascun processo è multidimensionale.

Per esempio non è assolutamente privo d’importanza dove la produzione ha luogo. Se il calore eccessivo di una centrale di server [server farm] che è necessario per il funzionamento dell’infrastruttura Internet viene utilizzato per il riscaldamento di un insediamento umano, c’è un guadagno sistemico semplicemente dalla progettazione in tal senso. Tutto allora è deciso dallo spazio, dal tempo e dall’interagibilità delle cose.  Ciò impone un balzo gigantesco in intelligenza e informazioni in alcun modo facile da realizzare.  Dobbiamo studiare modelli possibili e apprendere riguardo alla loro complessa interazione come condizione essenziale per decidere.

Sarebbe utile analizzare la nostra società attuale come produttrice costante di sprechi, sia sprechi immediati sia sprechi sistemici.  La risposta  può non essere facile da trovare ma non sta nei numeri bensì nell’interazione delle cose.  La natura è un grande sistema di abbondanza (molto più di uno “stato stabile”) ovvero non produce scarti.  Dobbiamo imparare da essa ed essere partecipi dei suoi cicli, affinarli e assecondarli invece di astenerci da attività.  Questa è la svolta importante che possiamo definire e realizzare insieme.

Wolfgang Hoeschele: Economia dell’abbondanza

Nel suo documento per il dibattito Brian Davey esprime la sua preoccupazione (che io condivido) per l’imminente grave scarsità di risorse e la sua opinione che chi parla di “abbondanza” non prende sul serio la scarsità di risorse ed è perciò eccessivamente ottimista circa il futuro del mondo.  Egli ipotizza inoltre che queste persone provengano da precedenti nei “commons culturali e scientifici” e considera tali precedenti parte del motivo del loro eccessivo ottimismo.

Anche se io non posso parlare per chiunque promuova idee di abbondanza, posso certamente parlare per me stesso, visto che ho scritto un libro sulla “Economia dell’abbondanza”. Brian Davey sicuramente non ha avuto l’opportunità di leggere tale libro che è stato appena pubblicato e probabilmente non era a conoscenza della sua esistenza  prima del Congresso Internazionale sui Commons. In questo spazio vorrei sintetizzare parte delle idee che avanzo nel libro per dimostrare che promuovere una “economia dell’abbondanza” è qualcosa di molto diverso dall’ignorare la scarsità di risorse, non implica un ottimismo eccessivo e non richiede una formazione nell’industria informatica (alla quale io non appartengo, essendo un geografo abituato a trattare problemi molto “terra terra” di utilizzo delle risorse).

La produzione della scarsità

Innanzitutto vorrei sottolineare che le risorse materiali possono essere abbondanti anche se esistono in quantità finita.  Le risorse materiali sono abbondanti se sono utilizzate in modi che non le esauriscano o le degradino (ad esempio, respirare l’aria) o se ce n’è una quantità molto superiore a quella necessaria per le persone (ad esempio, i banchi di pesca in luoghi in cui si pesca solo un piccola parte del prodotto sostenibile).

Un problema fondamentale dell’economia attuale è che non vede valore nelle risorse abbondanti perché non si possono vendere con un alto margine di profitto; ad esempio non si può confezionare l’aria da respirare e poi venderla a qualcuno; dove il pesce è abbondante si può vendere ma solo a un prezzo modesto. In altre parole, è riconosciuto solo il valore di scambio e non il valore d’uso. Per gli imprenditori è perciò vantaggioso rendere scarse le risorse abbondanti in modo che possano essere vendute a un prezzo più elevato e generare maggior valore di scambio. La tesi che sostengo nel mio libro è che l’attività di rendere scarse le risorse abbondanti non è lasciato all’iniziativa individuale, ma è compiuto da istituzioni che generano scarsità.  La scarsità può essere prodotta manipolando la domanda o l’offerta di un bene in modo tale che la domanda superi l’offerta. In questo senso c’è scarsità anche quando c’è un’enorme quantità di produzione. Si può sempre descrivere la cosa in questi termini: la nostra economia attuale massimizza l’inefficienza del consumo in modo da generare la domanda necessaria a giustificare un produzione in crescente aumento. In un simile contesto, l’accresciuta efficienza della produzione non fa nulla per affrontare i problemi della scarsità di risorse.

Un buon esempio riguarda i trasporti.  La mobilità – la capacità di andare dove si ha bisogno di andare – è massimamente abbondante e la maggior parte delle persone possono raggiungere la loro destinazione quotidiana a piedi o in bicicletta o mediante trasporti pubblici.  In questo modo tutti possono permettersi la mobilità che è disponibile ai bambini piccoli (appena possono spostarsi in modo indipendente), ai vecchi (che possono utilizzare i trasporti pubblici se non possono più camminare, andare in bicicletta o guidare), a tutti i membri delle famiglie con un’auto sola e alle persone con disabilità che impediscono loro di guidare o camminare o andare in bicicletta (che tuttavia sono in grado di usare il trasporto pubblico).  In queste condizioni di abbondanza sarebbe possibile per la maggior parte delle persone non possedere un’auto propria ma affidarsi alle auto in comune [car-sharing] o ai servizi di taxi nelle occasioni relativamente rare in cui abbiano necessità di un veicolo a motore.  Le condizioni che sostengono la mobilità abbondante – città compatte con strade aperte al movimento a piedi, in bicicletta e alla socializzazione – sostengono anche più bassi investimenti pro capite in infrastrutture e, nel complesso, un minor uso di risorse che amplino indiscriminatamente città progettate per la dipendenza dalle automobili.

Quindi l’abbondanza non consiste nel fatto che tutti abbiano un’automobile, bensì nel fatto che tutti siano in grado di spostarsi a basso costo, senza dipendere da catene di beni complesse e insostenibili, mentre la “scarsità” consiste nel fatto che tutti vogliano un’auto, o ne abbiano necessità, indipendentemente dal fatto che possano permettersela o meno.

Il fatto che così tante città non supportino una mobilità abbondante è il risultato di sforzi concertati dell’industria automobilistica, dell’industria del petrolio, degli interessi immobiliari e di vari settori economici associati, che insieme hanno influenzato i governi affinché costruissero o ricostruissero città e infrastrutture dei trasporti al servizio dei “bisogni” delle automobili (si noti che gli oggetti inanimati non hanno bisogni).  Ho rilevato che parlare di come queste istituzioni generino scarsità e le alternative creino abbondanza suscita grande entusiasmo e creatività nei gruppi per il cambiamento, come in un seminario che ho tenuto di recente:  http://shareable.net/blog/abundant-mobility-one-towns-resources

La scarsità è generata anche da regimi iniqui di proprietà. Ad esempio se poche persone (capitalisti, aristocrazia terriera e simili) sono proprietarie dei mezzi di produzione (che questi consistano in terreni, acqua, accesso a banchi di pesca o a zone di caccia, fabbriche o qualsiasi altra cosa) mentre altri sono vincolati a vendere il proprio lavoro al fine di ricavare un reddito, allora i proprietari hanno interessi a mantenere scarsa l’occupazione, per conservare un esercito di lavoratori disoccupati che mantiene basse le paghe. Sappiamo tutto questo da Marx; non è nulla di nuovo.

Ci sono inoltre importanti “mezzi di produzione” che tradizionalmente non sono di proprietà di nessuno ed è vantaggioso per gli industriali utilizzarli come beni naturali gratuiti e inquinarli o degradarli in altro modo.  Tra questi vi sono l’aria e l’acqua pulite; inquinarle crea scarsità presso tutti coloro la cui salute ne è colpita negativamente.  Allora diventano necessari grandi investimenti per pulire l’aria e l’acqua, a vantaggio di quegli stessi industriali che fabbricano le attrezzature necessarie.  La proprietà comune delle risorse naturali (commons delle risorse naturali), così come dei luoghi di lavoro (commons delle cooperative di lavoro) e della conoscenza (commons della scienza) è essenziale per smontare questo modo di produzione della scarsità e creare invece abbondanza.

A livello di psicologia individuale la scarsità è la conseguenza del non sapere quando “il troppo stroppia”, del volere sempre di più.  Questo modo di pensare drogato è promosso da una cultura consumista e dall’insicurezza e dalla paura del futuro; superare tale tossicodipendenza richiede esattamente quelle “relazioni umane positive in comunità amorevoli che generano sensazioni di pace, di appagamento, di amore, felicità e altre gratificazioni psichiche che si sottraggono alla quantificazione” che Roberto Verzola cita nel suo documento.

Un’economia dell’abbondanza non è un’economia che presuppone che l’abbondanza esista necessariamente, bensì un’economia che analizza i modi di produzione della scarsità, quali quelli che ho citato più sopra, e che evidenzia modi per contrastarli.  Proprio così come la scarsità è costruita socialmente (ed è molto reale, così come è reale un edificio costruito dall’uomo) anche l’abbondanza deve essere creata.  Nella situazione attuale, si tratta di un compito che intimidisce; se riusciremo a portarlo a compimento prima di trovarci di fronte alla catastrofe ecologica, non lo so. Tuttavia sento profondamente che l’idea di generare abbondanza evidenzi il cammino che dobbiamo intraprendere se vogliamo avere una qualche speranza di evitare il disastro.  Dunque il valore delle mie proposte non dipende da ottimismo o pessimismo; dipende dal fatto che esse siano o meno vie d’uscita dalle difficoltà attuali.

Da Socialforge – Un laboratorio di creazione sociale

http://www.socialforge.org

Fonte: http://p2pfoundation.net/Abundance_of_Food_vs_the_Abundance_of_Recipes

Originale: p2pfoundation

Traduzione di Giuseppe Volpe

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